rivista anarchica
anno 38 n. 339
novembre 2008


 

Il circo
capovolto

In un campo nomade, Branko Hrabal l’hungarez viene trovato a terra ucciso da sette coltellate. A scoprire il corpo, Senija la bambina dagli occhi gentili che, davanti al fuoco e sotto l’acqua, insieme a Ibrahim, ha ascoltato nel cortile davanti la kasolle tutte le storie di quell’uomo venuto da lontano, tutte le sue storie senza fine. Prima dell’ultima partenza senza ritorno.
I bambini, o forse i ricordi o la morte stessa, permettono però al pensiero dell’uomo di rimanere ancorato al presente. L’ungherese è morto ma vede tutto, in uno stato di inesistenza concreta. La sua memoria ripercorre e ricorda le piccole cose della realtà, le mette a posto prima di finire il viaggio. È una sintassi che sistema la vita, passata senza colpi, a contare il passaggio dei giorni. Branko che ha chiesto l’elemosina ai semafori, e lavorato sui tetti a preparare calce. Il suo racconto in prima persona scorre per tutto il libro, così come l’inevitabilità del mondo prima dell’uscita di scena. Sono le ultime tracce di un uomo che ha amato molto e mantenuto tutta la dignità possibile.
L’ungherese, infatti, è attraccato per caso al campo, senza un mestiere fisso, portando con sé solo un circo senza animali, sistemato in grossi scatoloni. Askan, il capo tribù non lo ha accettato volentieri, ma l’hungarez ha puntato i piedi e chiesto un posto. E un posto a un uomo non si rifiuta, neanche a uno così, che non viene da nessuna parte, e non va da nessun’altra.
Branko resta così nel campo, si costruisce la sua casa di lamiera, il suo spiazzo piccolo di fuoco e cibo. Per passare il tempo, inizia a raccontare storie lontane ai bambini, ma poi i racconti diventano legame e così l’ungherese affida loro la sua storia più bella, il suo circo, Kék Cirkusz, mestiere dei suoi antenati, lavoro di acrobazie e passioni, di inevitabili malinconie e doppi salti. È una storia di vino rosso e balli, questa, di trapezi sostenuti e traiettorie del passato. Un mondo dove le identità personali si sommano al corso della Storia, dove gli eventi riportano al secondo conflitto mondiale, alle follie della razza ariana. Un tempo in cui il nonno di Branko, esule e fuggiasco, scappava della pulizia etnica che bruciava uomini, donne e bambini con ferocia sistematica. Il nonno che gli aveva lasciato l’unico bene che possedesse: un circo di acrobati dalle straordinarie capacità, poi sterminati perché rei di non essere della razza “giusta”. Il circo sopravvissuto, così, diviene atto di libertà definitiva.
Ne Il circo capovolto (di Milena Magnani, Feltrinelli, Milano 2008, pagg.166, euro 12,50) Branko viene dunque ucciso, ma non è questo l’asse su cui tutto gira. L’autrice non si ferma ad analizzare il gesto, l’importante è altrove. Sono le storie da raccontare, sulle quali anche l’uomo ha indugiato. Perché le parole da donare fanno rimanere in vita per sempre. E così ha fatto l’ungherese prima di morire, anche se solo con i bambini, la loro innocenza, i bambini orgoglio degli occhi, che gli riempivano il cuore. Ed è forse questo che lo trattiene, che gli fa posare l’ultimo sguardo sul mondo. Branko ancora vaga e vede, galleggia e sente, pensa addirittura al futuro dei bambini dal suo stato senza tempo, riflette sulla fierezza che gli hanno dato, innocenti come non possono essere gli adulti, troppo fermi a contare i giorni, troppo chini a raccogliere le briciole di un’esistenza materiale. L’hungarez immagina, ha insegnato a immaginare, a Senjia e Ibrahim. Forse sarà così che diventeranno acrobati, e il suo circo surreale vivrà ancora, dopo tutti gli anni e i nascondigli.
Ma tutto si intreccia nel libro della Magnani e il presente è un territorio dove gli eventi continuano ad accadere, dove Branko non esiste più, ospite ancora per poco della vita. In un racconto che si snoda senza sosta, che appiccica capitoli senza distinguerli, di continuo, perché come si separano le parole dal loro significato? Come si possono dividere i pensieri? E dove finisce il porto, dove inizia il mare?
Nella storia dell’uomo c’è la storia parallela, e forse più importante, delle persone che lo hanno conosciuto e che rimarranno. L’imbarco senza fine dell’esistenza, dove i passeggeri parlano tutte le lingue del mondo e i suoni si sovrappongono, zingari e gemelli, fino a creare una musica nuova e meticcia, residenza per tutti i senza dimora, passaporto di un’identità che le accoglie tutte.

Il tempo avanza inesorabile, le pagine del libro sfuggono mordendo gli ultimi istanti dell’uomo d’Ungheria. Mentre le volpi lo cercano per portarlo nel mondo dell’aldilà e i fili del Tempo si avvolgono su di lui come un sudario, l’ungherese assiste da esterno e osservatore all’accadere degli eventi: il ritrovamento del suo cadavere, le urla degli abitanti del campo, l’arrivo della polizia che interroga la bambina acrobata, che parla strano e misto. E ancora, i giornalisti in cerca di notizie e omicidi, senza rispetto. E la dignità di un popolo baraccato, che vorrebbe funerali di fiori e canzoni per uno dei suoi figli in più, e invece non ottiene quel saluto ballato, anzi ottiene un rifiuto netto dalla Legge, da quella società civile troppo attenta ai suoi pregiudizi per permettere che un ungherese possa essere festeggiato nel suo ultimo viaggio, da un campo di nomadi.
Il circo capovolto è un viaggio onirico, che inizia con la fine e prosegue con i ricordi. Il racconto è un presente dilatato, uno stadio del tempo che la mente di Branko percepisce, anche se non vedrà mai più, colpito a morte da un destino ingarbugliato e senza fili. Figlio e vittima di una ragione apparente che si svela solo all’ultimo, dall’alto della sua ingiustizia senza pietà, costruita sul corso degli eventi, sull’incrocio delle coincidenze. Il libro della Magnani si sofferma su quell’istante che separa la vita dal buio senza fine, in cui il senso accade e chiude il cerchio. È un libro di parole miste, di nomadi gitani e di un circo metafora, che parla di esuli e uomini traditi. Di suoni diversi, scampati al mondo, e dell’innegabile evidenza dei viaggi. Perché, prima o poi, in qualche modo, tutti siamo stranieri. E ciò che rimane è la piccola speranza di un sorriso.

Mauro Garofalo

 


Un movimento genuinamente
popolare a Napoli

Sono proprio libri come questo – L’anarchismo napoletano agli inizi del Novecento. Dalla svolta liberale alla settimana rossa (1901-1914), Milano, Franco Angeli, 2008 – che aiutano a capire quale sia stata, e quale ancora sia la vera natura dell’anarchismo. E anche a sfatare i triti luoghi comuni di una storiografia distratta, quando non di parte e “a tesi”, che ancora vorrebbe il movimento anarchico appiattito su uno scontato individualismo di matrice piccolo borghese se non aristocratica. E ne siamo grati all’autore, il giovane studioso Fabrizio Giulietti, docente alla Sapienza di Roma, che grazie a un paziente e certosino lavoro di spoglio della stampa e dei documenti conservati negli archivi di Stato, ci consente di comprendere e conoscere appieno la composizione e l’essenza di un movimento genuinamente popolare che fu protagonista generoso di lunghe stagioni di lotta rivoluzionaria.
Siamo abituati a pensare a un movimento anarchico radicato nel solo centro Italia e in alcune province del nord e debole, se non addirittura ininfluente, nelle restanti regioni meridionali. Se si prescinde, infatti, dalla forte localizzazione meridionale ai tempi della Prima Internazionale, quando proprio in quelle terre ebbero vita alcuni dei primi tentativi insurrezionali – basti pensare alla spedizione nel Matese o all’avventura rivoluzionaria in Puglia – o dalla presenza di grandi personaggi come Malatesta, Cafiero, Merlino, Schicchi e pochi altri, il baricentro dell’anarchismo italiano sembra essere sempre stato ben piazzato solamente nel triangolo Marche, Emilia Romagna e Toscana con il Mezzogiorno destinato a giocare la parte del comprimario. Questo lungo tutto il Novecento e ai tempi nostri, anche se sono esistite, e tuttora permangono isole felici bagnate dal mare del libertarismo, Canosa, ad esempio, o Spezzano Albanese, il Salento, il ragusano.
Tutto questo ha trovato la sua ragion d’essere nel fatto che sono sostanzialmente mancati, negli anni passati, validi studi di storia locale meridionalistica – come osserva opportunamente Nico Berti nella sua bella e precisa introduzione – poiché la ricerca storica si è concentrata nello studio di quel movimento socialista, inteso nella sua più ampia accezione, che era localizzato nelle grandi fabbriche del nord, nelle evolute campagne lombarde ed emiliane, negli strati artigianali romagnoli e toscani. E infatti quasi tutta la storiografia di questi ultimi cinquant’anni, anche quella più attenta all’interpretazione di realtà non sempre ben decifrabili, esaurita la ricerca sulla prima fase internazionalista dove fu preminente il sovversivismo meridionale, ha privilegiato questo campo di studi, determinando, in tal modo, “una sostanziale assenza di ricerche e riflessioni”.
Ultimamente però la visuale dell’indagine storica si allarga e il libro di Giulietti, fra i tanti meriti, ha anche e soprattutto quello di dimostrare, documenti alla mano, che anche in una città come Napoli – che siamo superficialmente abituati a pensare in balia del più spinto individualismo e quindi incapace, per la sua natura “plebea”, di esprimere una forte cultura sociale – era profondamente radicato un movimento anarchico e socialista, in grado di organizzarsi e di agire in nome dei principi della solidarietà e della emancipazione. A dispetto, quindi, del cliché del napoletano tanto generoso e altruista quanto restio a dotarsi di forme organizzative collettive. L’autore, infatti, grazie a uno scrupoloso studio delle fonti mostra come la naturale vocazione ribellistica e a volte incontrollabile della plebe napoletana riuscisse a interagire e fare proprie forme organizzative dettate dall’opera di propaganda e proselitismo compiuta dagli anarchici. E questa realtà, che spesso si concretizzava in accese manifestazioni di lotta intransigente, emerge con chiarezza non solo dallo spoglio di quella stampa sovversiva che riportava regolarmente la presenza e l’attività degli anarchici napoletani, ma anche, e forse con più oggettiva aderenza alla realtà fattuale, dalla consultazione dei moltissimi documenti che polizia e magistratura si trovavano a dover produrre con frequenza impressionante.
Ma quale era dunque, come era composto, questo forte movimento napoletano che appare così integrato nella realtà sociale nella quale si trovava ad operare? Anche a Napoli, a dispetto degli stereotipi superficiali che vedrebbero l’anarchismo espressione di un ceto piccolo borghese chiuso nel suo piccolo egoismo e incapace di colloquiare con le altre categorie sociali, la grande maggioranza dei militanti di cui abbiamo anche una pur breve traccia biografica, appartiene al mondo salariato e al proletariato e sottoproletariato urbano, con una significativa percentuale di piccoli artigiani e lavoratori autonomi. E questa composizione sociale caratterizza fortemente le forme dell’intervento politico e sociale dei gruppi anarchici e libertari che – similmente a quanto avviene nel resto del paese – periodicamente si formano e si sciolgono. Un’attività, quella diligentemente ricostruita da Giulietti, connotata sempre da una forte impronta popolare e proletaria, sia quando i libertari si muovevano nel campo dell’antimilitarismo, dell’anticlericalismo, delle Leghe di Resistenza sia, più in generale, nel campo della lotta di classe. E anche se l’assenza di un forte proletariato di fabbrica, pressoché inesistente non solo a Napoli ma nel resto del Meridione, rese in varie occasioni più problematica la incisività delle lotte degli anarchici, questo comunque non impedì l’emergere di figure particolarmente importanti e popolari. E l’accuratezza con cui sono stati tracciati i ritratti di queste figure, ritratti a tutto tondo che ne mettono in luce non solo l’attività pubblica registrata dalle note di questura, ma anche gli aspetti umani e caratteriali, è uno dei meriti, e non dei più piccoli, di questo libro.
Emergono così personaggi per lo più ignorati dalla storiografia “maggiore” e che pure ebbero un ruolo importantissimo nel fare della Napoli del primo Novecento un centro di agitazione e rivendicazione “progressista” al passo con il resto del Paese. E che così non vedeva interrompersi la continuità storica fra quella che fu la “più importante ed evoluta capitale europea” del Settecento e la città popolana e “stracciona” dei primi del Novecento. Sono molti i nomi riproposti da Giulietti e tutti andrebbero ricordati: nomi per lo più di militanti oscuri o poco conosciuti, quali Ciro Petrucci, Luigi Felicò e Gaetano Fedele, Umberto Vanguardia e Giuseppe Imondi, Carlo Melchionna e Gustavo Telarico, e fra tutti, perché l’esempio più genuino e felice dell’incontro fra la generosità del popolano e l’impegno “altruistico” e consapevole dell’anarchico, Francesco “Ciccio” Cacozza, un militante dalla grandezza etica e morale seconda a nessuno.
Un lavoro, dunque, questo di Giulietti, non solo utile per l’appassionato di storia o lo studioso ma anche avvincente per il lettore che voglia riscoprire una storia sociale quasi dimenticata. E anche un lavoro prezioso, perché far conoscere la sorprendente vitalità sovversiva di tanta parte del proletariato napoletano non fa certo male, soprattutto in tempi di forte crisi degli ideali come questi.

Massimo Ortalli