rivista anarchica
anno 38 n. 339
novembre 2008


editoria

Storia veridica
della “A” cerchiata

 

“A – Cerchiata” è il titolo del volume
edito da Eléuthera. 128 pagg. ill., euro 20,00.
Per ulteriori info: www.eleuthera.it

Graffitata sui muri della protesta, ma impressa anche su zainetti, magliette, ciondoli e cappellini, fino al più improbabile intimo maschile, la A-cerchiata è un segno talmente conosciuto e riconosciuto che ha finito con l’essere considerato un simbolo tradizionale dell’iconografia libertaria.
In realtà, come ci raccontano i suoi ideatori, ha poco più di quarant’anni: la A-cerchiata nasce come progetto nel 1964 a Parigi, all’interno di una piccola rete di giovani anarchici, ma comincia la sua vita pubblica nel 1966 a Milano sui volantini e manifesti della Gioventù Libertaria. Di lì a poco, l’esplosione del 1968 – e la provvidenziale invenzione delle bombolette spray – farà rotolare il simbolo nelle strade di tutto il mondo.

Questa inedita storia per immagini, insieme ai racconti che le accompagnano, ne ripercorre la sorprendente, e spesso bizzarra, diffusione planetaria sulla spinta della passione libertaria prima e della cultura punk poi, fino al recente sfruttamento commerciale.

Un viaggio nell’immaginario contemporaneo che dà conto delle molteplici interpretazioni – spesso inaspettate, talvolta contraddittorie – di un simbolo nato con una forte connotazione specifica e diventato nel tempo uno dei segni più usati per significare non solo anarchia, ma anche rivolta, rifiuto, anticonformismo, trasgressione nelle più svariate declinazioni.

 

Milano 1966 – Milano 2008
Intervista ad Amedeo Bertolo

Amedeo Bertolo aveva 25 anni quando, nel 1966, tracciava su matrici per ciclostile le prime A-cerchiate «italiane». Docente universitario, si è sempre occupato di editoria libertaria. Nel 1971 è tra i fondatori del mensile «A rivista anarchica» e dal 1986 è uno dei responsabili di Elèuthera.

Sei uno dei padri della A-cerchiata…

Solo un padre adottivo. La A-cerchiata è stata ideata e «lanciata» a Parigi nel 1964. Ma il lancio è stato un flop. A Milano, due anni dopo, abbiamo ripreso e rilanciato l’idea. Questa volta il lancio ha funzionato.

Quando hai cominciato a fare A-cerchiate ti aspettavi in qualche modo questo successo mondiale?

No. Nessuno di noi della Gioventù Libertaria si aspettava gran che. O forse sì: l’unico che fece qualche obiezione all’adozione del simbolo, lo fece argomentando che era troppo semplice e dunque «falsificabile». Chiunque avrebbe potuto firmare così qualsiasi cosa. Ne temeva cioè un eccessivo successo (la sua generale identificazione come «firma» anarchica) per potenziali usi distorti o comunque indesiderati.

Riesci a ricostruire in che modo la A-cerchiata sia arrivata in Germania, negli anni Settanta, diventando il simbolo degli Autonomen tedeschi? È stata modificata o si è mantenuta quella «originale»?

Non so come sia avvenuto il passaggio. Ormai la A-cerchiata aveva cominciato a viaggiare libera per il mondo. Ma posso immaginare che la scelta della A-cerchiata come simbolo sia stata fatta dagli Autonomen tedeschi per connotarsi in senso libertario rispetto agli autonomi italiani, di formazione marxista, che firmavano con la falce-e-martello. E posso immaginare che la «loro» A fuoriesca dal cerchio (come quella dei punk) per comunicare un ulteriore senso di «rottura» dell’ordine e di eterodossia anche rispetto alla tradizione anarchica. Ma forse è stata solo una casuale scelta estetica, moltiplicatasi per imitazione. Oggi quella A-cerchiata è usata dagli anarchici indifferentemente con quella «canonica», un po’ ovunque.

Qual è l’uso più originale, o che ti ha fatto più piacere, tra tutte le declinazioni della A-cerchiata che hai incontrato?

Ti posso dire qual è quella che mi piace di più, per la sua eleganza formale. È quella disegnata nel 1972 da mio fratello, Gianni, per la testata della rivista anarchica «A»: una A con le grazie, in negativo su fondo circolare nero, che è una mutazione della precedente testata, anch’essa molto bella, a mio parere.

Sembri piuttosto affezionato all’uso «filologicamente corretto» del simbolo: le tue A-cerchiate preferite stanno nei margini del cerchio, non sbordano, non hanno fronzoli... cosa ne pensi delle interpretazioni, degli usi e abusi, dal punk al mondo della moda?

Pregevole flessibilità del segno. E penso che siano inevitabili gli usi impropri, abusivi, stravolti, commerciali di un segno che si è inscritto nell’immaginario collettivo.

È incredibile che, nel giro di poco più di quarant’anni, la A-cerchiata si sia inserita talmente bene nei flussi dell’immaginario da perdere di fatto le sue origini storiche a favore di una sorta di mitologia (come le leggende diffuse su Wikipedia: la A-cerchiata attribuita a Proudhon, quella avvistata sull’elmetto di un miliziano spagnolo...).

In un recente romanzo (Death at Victoria Dock, di Kerry Green), ambientato a Melbourne nel 1928, un gruppo di emigrati lettoni usa come segno distintivo la A-cerchiata tatuata sulla clavicola (gli uomini) e sul seno (le donne). Mi aspetto che su Internet prima o poi qualcuno vi si riferirà per «dimostrare» l’anzianità del segno… Che nascano leggende attorno a un simbolo è forse inevitabile e denota il suo successo. E poi forse piace più un’origine mitica di una tutto sommato banale.

A questo proposito, ti lancio una provocazione: l’A-cerchiata non ha forse bruciato le tappe, fino a trasformarsi da simbolo unificante dei movimenti anarchici in simbolo tuttofare, per indicare genericamente «caos»? La cosa ti disturba o dopo tutto va bene così?

Mi sembra che il significato di «caos» (magari nel senso della teoria del caos) o meglio di rivolta contro-tutto-e-contro-tutti (persino nella sua versione banalizzata e consumistica) possa convivere con la connotazione più propriamente anarchica. Effetti non previsti di moto caotico.

Mi è capitato di incontrare dei ragazzi di Pieve Vergonte, un paese della Val d’Ossola, che mi parlavano della A-cerchiata come di un simbolo in origine anarchico, ma arrivato a loro attraverso il punk inglese... Dobbiamo rassegnarci a una cultura anglo-sassone che sembra fagocitare tutto (e magari «mettere sotto copyright» le prossime invenzioni per mantenerne la correttezza filologica), oppure è un obiettivo sensato parlare di anarchia in tante lingue, in molti modi, scommettendo sulla traduzione culturale e la re-interpretazione creativa?

La seconda che hai detto.

Dopo quarant’anni la A-cerchiata è invecchiata come la fiaccola anarchica oppure può ancora funzionare?

Il simbolo mi sembra ancora efficacissimo, sia come segno di rivolta antiautoritaria sia come «firma» dei molteplici anarchismi contemporanei. Il problema rimanda piuttosto alle forme e ai contenuti delle rivolte e degli anarchismi, ma questo è un altro discorso.


Pino Cacucci
scrittore

Ne ho viste scorrere dai finestrini dei treni, e continuo a vederne. Ogni volta mi rincuorano: qualcuno, su quel muro, si è manifestato libertario e refrattario al potere. Ne ho viste persino dai finestrini di corriere stravaganti a Città del Messico, anche se spesso avevano le zampe lunghe, che fuoriescono dal cerchio, e un po’ mi infastidiscono, perché io le ho sempre tracciate ben chiuse nel tondo e così dev’essere, non capisco perché i punk pretendano di usarle ma poi si piccano di sforarle, quasi a volersi distinguere… Con il trascorrere degli anni devo essere diventato un anarchico conservatore: le A-cerchiate hanno le zampe che finiscono dove passa il cerchio, non sforano, perdìo.
Le amate A circoscritte in quella sorta di sol dell’avvenire, o sfera di mondo dell’Utopia, mi riportano ai primi anni Ottanta, quando le vedevo a Parigi e a Barcellona, e prima ancora, all’adolescenza ligure, quando contribuii a fondare il gruppo Buenaventura Durruti del Tigullio, e allora ne tracciai tante che se i comuni costieri che vanno da Sestri Levante a Rapallo – e in qualche nottata brava pure Portofino, tiè – con Chiavari di mezzo dove vivevo, mi chiedessero il risarcimento per i muri rimbiancati, sarei rovinato. E tralascio il comune di Bologna, dove, soprattutto nel 1977, ho dato il mio apporto grafico alla fioritura sia esterna che interna dell’università, con il dams privilegiato: anche il pianoforte del Dipartimento di Musica era istoriato di A-cerchiate…
Da imberbe, ero più timido: sul diario, sui quaderni, pure sul banco. Però ero più preciso: con righello e goniometro, che diamine, anche per fare la rivoluzione ci vuole tecnica e paziente cura dei particolari, i frettolosi e superficiali diventano spesso stalinisti e successivamente si iscrivono a un partito di governo.
Già, quanto tempo è che non traccio una A-cerchiata? Mi pare una vita. Un’altra vita? No, è sempre questa, la miA: anarchici non si diventa a un certo punto e per un certo tempo, anarchici si nasce, si vive e lo si resta fino all’ultimo respiro.
Mi fermo qui, esco un momento, scusate, in cantina dovrei avere ancora una bomboletta rimasta a metà… Mi è appena venuto in mente che in cantina c’è una parete libera dalle mie sette biciclette.

Matteo Guarnaccia
artista visivo e saggista

Occupandomi di immagini e immaginario, ho sempre provato interesse per i simboli, l’araldica e le figure allegoriche, elementi di comunicazione capaci di sintetizzare ed evocare concetti anche elaborati. Ho riscoperto recentemente un mio disegno del 1971, uno studio sulla A-cerchiata, trasformata in un buffo animaletto monoculare. Le lettere dell’alfabeto trasformate in rappresentazioni fantastiche non sono una novità, appartengono alla grande tradizione dei capolettera dei miniaturisti medievali (tendenza seguita persino nella cultura aniconica araba, dove i calligrafi indulgevano in questi trucchetti). A quasi quarant’anni di distanza, quando gli amici della Fai di Reggio Emilia mi hanno chiesto di disegnare un manifesto per il congresso nazionale, ho ripescato la A animata, aggiungendovi una nuova versione che cammina su un uroboro, l’eterno ritorno e la buñueliana Via Lattea.
È interessante il fatto che l’anarchia, una filosofia/movimento politico che ha sempre negato, deriso, combattuto i simboli, sino a sfiorare una certa iconoclastia, abbia sentito a un certo punto della propria storia la necessità di crearsene dei propri. Un segno che la psiche umana, al di là della razionalità autoimposta, si muove costantemente a suo agio nella foresta simbolica. Nel dopoguerra, in sintonia con il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa, dei primi vagiti della società dello spettacolo, il minimalismo del colore nero (o rosso/nero) era diventato inadeguato per colpire l’occhio smaliziato del popolo. L’impasse venne superata grazie alla geniale creazione grafica dell’artista Gerald Holtom, il cosiddetto «simbolo della pace», logo del movimento antinucleare inglese Cnd dal 1958. Dalla metà degli anni Sessanta, la A-cerchiata ne divenne un’erede naturale, un segno graficamente impeccabile, adatto a essere disegnato agevolmente sui muri o sugli eskimo, che conquistò i favori dei giovani contestatori antiautoritari. Dopo anni di soggezione rispetto alla potenza iconografica della falce-e-martello, anche l’area libertaria aveva finalmente un suo logo riconoscibile e di immediata lettura.
Ma la metamorfosi non era finita, nel 1976-77 il simbolo subisce una modifica sostanziale, perde la fissità geometrica, e diventa nervoso e dinamico, la A straborda dal cerchio spezzandolo. È in questa versione che diventa un logo popolare, usata come elemento decorativo sugli abiti sovversivi prodotti dalla coppia di stilisti agitprop Malcolm McLaren e Vivienne Westwood, gli «inventori» del punk. È grazie ai loro sforzi che i ragazzini londinesi in piena crisi antagonista diventano improvvisamente sensibili al fascino della parola anarchia – anche se la collegano più a Syd Vicious che a Bakunin. La nuova A-cerchiata viene sviluppata (o degradata, a seconda dei punti di vista) su ogni supporto tessile rivelandosi come una delle grafiche più popolari del periodo. La fascia rossa da portare al braccio con la scritta «Chaos», ovviamente con la A-cerchiata, diventa un oggetto cult. Non è più tempo di bandiere, ormai sono gli abiti che si trasformano direttamente in strumento di propaganda e di cospirazione, in evoluzione tessile dei volantini. Grazie a testimonial che avrebbero fatto la gioia di Cesare Lombroso, i Sex Pistols, le creazioni della Westwood irrompono come ordigni incendiari nei guardaroba e da lì nel paesaggio urbano. La trovata della coppia londinese troverà imitatori in molte blasonate case di moda negli anni a venire. Il «decorativismo fai da te» attuato sul proprio abbigliamento (spray o pennarello) diventerà una costante dello street style. È davvero singolare la deriva stilistica del simbolo di un movimento che sino a quel momento aveva offerto come massimo contributo all’abbigliamento la cravatta lavallière nera. Anzi, l’anarchismo aveva abolito tout court la moda quando tutti gli abitanti di Barcellona tra il 1936 e il 1939 rinunciarono di colpo alla diversificazione sartoriale optando per una democratica tuta blu unisex da operaio (intera o salopette) e scarpe espadrillas. Ma forse era la moda stessa che si era estinta nell’estasi rivoluzionaria.

Clelia Pallotta
studiosa di comunicazione

Quella A-cerchiata sui muri, negli anni della militanza politica, mi sfidava a visioni più energiche e lievi e dalle bandiere nere, impreviste nei cortei tra tanto rosso, ammiccava. E anche gli anarchici, soli sotto alle bandiere, mostravano la serenità compatta di chi sta dentro a un ideale e si alimenta di un’utopia che non ha bisogno di conferme. La A chiusa nella perfezione del cerchio, decisa come un timbro, chiara come un grido. Simbolo magico, figura geometrica, segno evocativo di mondi fantastici. Marchio eloquente, potente, che trasporta valori e produce racconti. Regala un’aura di trasgressione a chi lo adotta cercando identità. Eppure ha una forza melanconica, contiene nostalgia per cose lasciate o non ancora trovate: addio Lugano bella, scacciati senza colpa gli anarchici van via, a predicar la pace ed a bandir la guerra per un mondo senza dominatori e senza ingiustizia.

Marco Pandin
A rivista anarchica

La provocazione punk è stata totale. Il suono assordante e distorto, la tecnica approssimativa o mancante, il canto stonato e urlato si traducevano nel formidabile impatto visivo delle copertine dei dischi: colori violenti in forte contrasto oppure il più economico bianco e nero, strappi, graffi, bruciature e tagli. Netta ed evidente la rottura con l’immaginario e il gusto degli anni precedenti: tanto il rock era divenuto complicato quanto il punk era destrutturato e inconsistente, dove i testi s’erano fatti poetici ora si celebrava con un linguaggio scurrile lo sbando in attesa della guerra atomica.
Molti fanno risalire l’inizio del cortocircuito tra punk ed anarchia al primo singolo dei Sex Pistols Anarchy in the UK, pubblicato nel novembre 1976: «Sono un anticristo, sono un anarchico / Non so quello che voglio ma so come ottenerlo: voglio distruggere…». Ma la prima A-cerchiata sbattuta sulla copertina di un disco a marchiare consapevolmente un progetto rivoluzionario, del quale la musica costituiva solo una strategia di comunicazione, è stata quella dei Crass. Il gruppo era formato dagli occupanti di una comune hippie anarchica di Epping, nella campagna a nord di Londra. Nell’estate del 1977 riuscirono a recuperare un minimo di attrezzatura tecnica e un repertorio di cinque-sei pezzi, e decisero di chiamarsi Crass (sta per volgare, indecoroso). Il gruppo registrò in un piccolo studio casalingo il proprio debutto discografico, The feeding of the 5,000, dal quale fu poi costretto a sopprimere una canzone, Asylum (un’invettiva femminista contro l’oppressione religiosa) perché ritenuta indecente dai gestori dello stabilimento che doveva stampare il disco. Si decise di pubblicare comunque e per conto proprio quella canzone censurata, diffondendola con l’aiuto di un distributore indipendente: questo sforzo venne premiato dalla visita premurosa di Scotland Yard alla comune di Epping, già allertata da numerose segnalazioni e da alcune denunce per vilipendio. Un processo per blasfemia non bastò a fermarli, e certo contribuì a far nascere attorno ai Crass un vasto movimento internazionale, centinaia di piccole formazioni radicali e marginali impegnate ognuna a suo modo a sabotare l’ingranaggio del sistema. Il giro anarcopunk si ingrossava, e il signor padrone se ne accorse ben presto: l’A-cerchiata si trovò, spesso a sproposito, per bieca scelta pubblicitaria, a «marchiare» numerose produzioni discografiche degli anni Ottanta.
L’anarchia quindi commercializzata come atteggiamento «moderno» e menefreghista in contrapposizione all’impegno e al rigore del vecchiume ideologico, anarchia come segno grafico innovativo per chi desiderava distinguersi dalla massa, anarchia come strategia pubblicitaria per vendere l’invendibile. Significativa è la dichiarazione di un membro dei Flux of Pink Indians, uno dei più importanti gruppi anarcopunk inglesi: «Ci chiamavamo Epileptics ma abbiamo deciso di cambiare nome perché non c’era nessuna A da poter cerchiare».
Una preoccupazione per certo condivisa da numerosi altri gruppi, non soltanto inglesi.

Marco Philopat
scrittore e agitatore culturale

Nel 1981, i primi concerti che i punk milanesi organizzarono nella casa occupata di via Correggio 18, nel futuro capannone del Virus, erano contro la schiavitù delle tossicodipendenze. Per l’occasione prepararono una mascherina per fare le sprayate sui muri con una bella A-cerchiata la cui punta spezzava in due una siringa. Era il periodo che l’eroina falcidiava i pochi punk presenti in città, quindi la dicitura sotto quell’icona diceva: «Distruggi le tue illusioni, non la tua vita»... A ripensarci oggi viene quasi da ridere per l’ingenuità moralista espressa da questo semplice slogan, ma vi assicuro che fu una cosa importante perché l’eroina rappresentava, e forse ancora oggi rappresenta, l’ultima frontiera della trasgressione, quella più difficile da varcare, per dei giovani ribelli, disperati e autolesionisti, che volevano dimostrare al resto del mondo di essere coraggiosi protagonisti di un repentino e pericoloso cambio generazionale. I punk allora si dividevano in due: chi si faceva e chi no. Inutile dire che i «militanti» di entrambe le componenti si consideravano anarchici, fosse solo perché Johnny Rotten aveva gridato Anarchy in the UK. Perciò mettere la siringa spezzata al posto della classica arma che usavano i londinesi Crass per ribadire il loro no alla guerra, risultò particolarmente efficace. Quelli che non si facevano continuarono le loro attività per diversi anni, quelli che si facevano o la smisero e si unirono ai non tossici o cominciarono ad allontanarsi schifati della troppa e forzata politicizzazione del punk. Questi furono i primi di una lunga serie di critici del nulla, poi diventati parecchi sotto altre forme, e al giorno d’oggi sono la marea di debosciati tifosi della musica che sostengono che il punk era solo concerti e divertimento.
Ma quelli dell’A-cerchiata non scherzavano affatto, e anche se pogavano e si divertivano lo stesso, erano sempre in prima fila per fronteggiare polizia, fascisti e benpensanti in tutto l’arco della giornata, settimana, mese, anno o intera vita che fosse... Non si può sfuggire a tanta radicalità a corrente continua. Punk e A-cerchiata un connubio minacciosamente perfetto...