rivista anarchica
anno 38 n. 340
dicembre 2008-gennaio 2009


crisi

Il capitalismo può cambiare di segno ma non cambia di senso
di Andrea Papi

 

Questa crisi ha messo in evidenza anche tutta la nostra fragilità.

 

La crisi finanziaria ed economica che stiamo subendo mostra tutta la ferocia disumana del capitalismo. Prevista e in un certo senso lasciata fluire ci è piombata addosso con l’intensità metaforica di uno tsunami. Non è dato sapere quanto durerà mentre ci è stato ampiamente annunciato che produrrà una quantità incommensurabile di macerie, creando ancora più povertà di quella già esistente.
Non m’intendo di economia e le modestissime riflessioni che posso fare le ricavo leggendo le analisi di chi se ne occupa professionalmente. Ma m’è sorta spontanea una fortissima indignazione nel sentire i telegiornali e leggere le informazioni che quotidianamente riportano da mesi il disastro in cui ci ha trascinato la gestione mondiale della ricchezza da parte di un’oligarchia criminale che sta al vertice del sistema bancario. Ho bisogno di esprimere la rabbia che mi sale per l’ingiustizia e la prepotenza intollerabili che ci sovrastano.
Ciò che è chiaro è che il sistema finanziario mondiale è stato diretto verso l’implosione. Una fase prevista da diversi mesi, coccolata e lasciata fluire a vantaggio di logiche e volontà speculative, che ha visto saltare gli equilibri, divenuti incontrollabili, su cui si reggeva il continuo spropositato aumento della ricchezza di chi già era ricco. Dipendendo l’intera economia dagli andamenti finanziari, questo crollo rovinoso non poteva che trascinare l’insieme delle masse umane, sempre appositamente escluse dai lautissimi guadagni finanziario-speculativi, verso condizioni di vita disastrose, non ancora bene quantificabili e definibili perché in progress.

Finanza creativa?

Insomma, chi non ha perché escluso dalla possibilità di avere, una volta che chi ha accumulando continuamente sulla pelle degli altri va in crisi e fallisce, si trova scaricato sulle proprie spalle il peso maggiore di una crisi di cui non è responsabile e che non ha né cercato né contribuito a creare. È questo il senso tragico, drammatico e profondo del sistema su cui si sorreggono l’andamento delle cose e i destini degli esseri umani nel mondo.
Cos’è successo? Da circa due decenni ha preso piede in modo spropositato quella che con un eufemismo viene chiamata “finanza creativa”. Teoricamente sta ad indicare la capacità di trovare soluzioni e ideare manovre finanziarie atte a migliorare situazioni compromesse bisognose di una rapida crescita. Di fatto si muove sul mercato globale, sfuggente quindi ai controlli nazionali, ed usa strumenti altamente sofisticati e carichi di rischi all’insaputa degli investitori che, fiduciosi e inconsapevoli, si trovano così truffati da intermediari ed emittenti. Ogni volta che si affidano alle banche i propri risparmi o i propri fondi pensioni per investimenti o mutui, questi vengono usati in operazioni finanziarie spericolate per aumentare i capitali, secondo la filosofia di fare soldi puramente attraverso i soldi. Imbonito da suadenti offerte dormi sonni tranquilli mentre loro giocano coi guadagni sudati della tua fatica a favore delle banche e a tuo rischio, senza che tu riesca nemmeno a capire come.


Ma è stato fatto qualcosa di più. In America in particolare, abbindolando i clienti li si è incentivati a fare debiti al di sopra delle proprie possibilità. Mutui facili, che poi venivano reinvestiti amplificando all’infinito attraverso il gioco dei derivati, così chiamati perché non si reggono su un valore proprio, ma sostanzialmente dipendono da altri titoli, o addirittura da altri derivati. In realtà non sono altro che sofisticati contratti di assicurazione, per cui per ogni banca che si assicura c’è un’altra banca che accetta una scommessa. Tecnicamente l’emittente cede a terzi un credito inesigibile, ovvero realizza un guadagno che serve a coprire perdite precedenti. In pratica si è speculato sul nulla, o quasi, spingendo ignare persone a indebitarsi, facilitando all’inverosimile il credito e facendo finta che ci fosse una montagna di soldi, mentre in realtà nella massima parte era virtuale. Si è seguita la logica assurda per cui l’offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
Non poteva durare all’infinito. Come suggerisce con arguzia Zygmunt Bauman, vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. (1) A un certo punto il giocattolo s’è rotto mettendo a nudo tutta la sua evanescenza, scaricandosi sulle vite sia di chi si era illuso di dormire sonni tranquilli sia di chi, povero da sempre, non si era mai nemmeno sognato di partecipare al gioco. Com’era prevedibile, e gli esperti superpagati lo sapevano tutti, si è generata una gigantesca bolla speculativa che ha mandato in vacca il fatiscente meccanismo.
In questo vortice di aumento monetario continuo attorno a titoli derivati che non si sorreggono su un valore proprio, la corsa costante ad investimenti ha generato un eccesso incontenibile, al punto che sono venuti meno nuovi investitori, non più disposti ad acquistare ulteriori diritti ad un prezzo che nel frattempo era diventato troppo elevato. Come una bomba a orologeria innestata, è scoppiata la bolla: il valore dei titoli è sceso repentinamente e si è assistito a un crollo inarrestabile delle quotazioni, trascinando indiscriminatamente in un baratro senza fondo l’intero sistema. Il castello di carta, la ricchezza virtuale che aveva generato privilegi iperbolici a dirigenti senza scrupoli è svanita in poche ore, intaccando economia produttiva, salari, occupazione. Mentre prima solo pochissimi godevano dei lauti guadagni di questa truffa generalizzata, ora invece paghiamo tutti indistintamente il fallimento della loro ingorda follia.
Per avere un’idea di massima della spinta di avidità senza fine verso un accaparramento di ricchezza fatta di qualcosa molto simile ad un’illusione , basti pensare che il mostruoso mercato dei titoli derivati ha raggiunto i 55.000 miliardi di dollari, quattro volte il Pil degli USA. Mercato che nella massima parte dei casi si è svolto al di fuori e al disopra di quello ordinario delle borse. Per capire ancora meglio, si stima che nell’ultimo decennio in America dietro ogni dollaro di aumento del Pil, l’aumento di reddito dell’economia reale, c’erano cinque dollari di crediti. Una montagna di attività finanziarie sovrasta la produzione di cose, di beni e servizi reali. Il Pil nazionale era solo una frazione rispetto alla bolla dei debiti che c’era dietro.

Ma il sistema andava a pezzi

Di fronte a questo disastro annunciato, che non era più possibile né frenare né bloccare, vista la mala parata cos’hanno fatto i potenti della terra? Per tentare di correre ai ripari hanno tirato fuori una quantità spropositata di fondi e di capitali, che al contrario sono sempre stati sistematicamente negati per interventi atti ad elevare la qualità sociale. Sono intervenuti gli stati che, usando a discrezione i soldi dei contribuenti, hanno soccorso banche e banchieri per salvare il sistema che andava in pezzi. Per prima l’America, da cui è partito il disastro, ha sganciato 700 miliardi di dollari a favore di Wall Street. Poi l’Europa: sommando i piani nazionali che hanno applicato le direttive del vertice di Parigi si arriva a un costo che in dollari raggiunge i 2400 miliardi, più del triplo di quanto stanziato dagli USA.

Una montagna di miliardi gratis per beneficiare i criminali che hanno deciso di affondarci tutti, mentre da decenni non sono disponibili i 30 miliardi che occorrerebbero per risolvere il problema della fame nel mondo. Intanto stiamo entrando in recessione a livello globale. In soldoni significa perdita di posti di lavoro, disoccupazione, aumento della povertà. Intanto i dirigenti bancari responsabili del disastro invece di essere condannati sono stati premiati con liquidazioni da nababbi. Intanto, come ci fa notare Federico Rampini, i contribuenti saranno duramente colpiti quando comincerà ad arrivare il conto in termini di pressione fiscale. Il poderoso aumento dei deficit pubblici per il salvataggio bancario si sovrappone a una congiuntura economica disastrosa e a una recessione che a sua volta deprime le entrate fiscali. Dopo aver dissanguato le casse pubbliche per rimediare agli errori dei banchieri, bisognerà trovare risorse per sostenere la crescita, per alleviare i settori industriali in crisi, per fronteggiare l’aumento dei disoccupati.
Lo stato dunque è diventato il salvatore dei mercati, che si pretenderebbero liberi da controlli e da indebite interferenze statali o di chicchessia. A latere di tutta questa vicenda è affiorato anche un abbozzo di dibattito, che sarebbe comico se il tutto non fosse altamente tragico. Da più parti si farfuglia di una rinascita del socialismo, dovuta ai salvifici interventi statali. Povero socialismo! Sorto e pensato come progetto universale per ricondurre la gestione della ricchezza al bene comune delle collettività, viene letteralmente stracciato e ridotto ad interventi statali d’urgenza per salvare e rimettere in piedi il suo contrario, il capitalismo, in specie la sua versione finanziaria globalizzata. Non si tratta di pura ignoranza. Sono convinto che dietro simili assurdità teoriche ci sia malafede, funzionale ad allontanare una seria riflessione sulle possibilità d’un’alternativa vera.
Acuta in proposito una riflessione di Ruffolo, che mostra come i beneficiati, invece di starsene buoni grati per ciò che è stato loro regalato senza che se lo meritassero, non abbiano mai abbassato la cresta nonostante il disastro provocato e, mai sazi, continuino a pretendere con grande arroganza. «Il vero pericolo che nasce da questa crisi non è che lo stato divenga padrone del mercato, ma che ne diventi lo schiavo … il tono dell’opinione “liberista” è perentorio: paghi lo stato e paghi subito … si affannano oggi a chiedere allo stato, che finora consideravano non la soluzione, ma il problema, la soluzione del problema. Si affrettano però ad invocare cautela contro ogni tentazione di mettere le mani sui meccanismi “autoregolatori” del mercato.» (2) Alla faccia della rinascita del socialismo!
Non condivido neppure quei pochi che, spinti da un ottimismo fuori luogo, hanno intravisto l’inizio di una crisi a tutto campo del capitalismo in quanto tale. Se è vero che questa crisi ha una virulenza particolarmente forte e che, dimostratosi altamente fallace, sembra si sia incrinato il sistema di concentrazione finanziaria consolidato, è però anche vero che da sempre il capitalismo ci sfodera periodicamente crisi capaci di mettere in ginocchio. Si potrebbe dire che vive di esse, che ne ha bisogno per riassestarsi, che attraverso le sue crisi periodiche nel lungo periodo alimenta se stesso.

Fragilità e impotenza

Sono convinto che l’uragano passerà, l’economia mondiale non sarà travolta e non ci sarà un vero collasso del sistema. Semmai questa volta mi sembra evidenziato che si tratta innanzitutto di una crisi di valori, irrisolvibile a livello strutturale. Ma il capitalismo è ancora troppo forte, soprattutto in assenza di un progetto alternativo anche solo minimamente credibile. Il fatto è che la crisi di valori è insita nella sua natura. Come può modificarsi con valori eticamente validi, come alcuni oggi si augurano, oppure marciare verso un “rientro morale” come auspica Hirsch? Alla base del suo esserci ci sta esclusivamente la tendenza all’arricchimento personale, attraverso il profitto o la rendita, lasciando l’autoregolazione per la diffusione di un benessere comune ad inesistenti “mani invisibili”, quelle di cui si illudeva Smith. Nei fatti il capitalismo imperante dimostra ogni giorno che alimenta soltanto avidità e cupidigia a scapito di qualsiasi altro valore sociale o collettivo.
Questa crisi ha ben messo in evidenza tutta la nostra fragilità e la nostra concreta impotenza. Noi che viviamo lavorando con stipendi e salari che ci costringono ad economizzare su ogni cosa. Noi che non riusciamo a trovare un lavoro stabile, stressati dall’incubo di non avere soldi a sufficienza. Noi umili e ultimi della terra, costretti a lottare quotidianamente per una vita un minimo dignitosa e per assicurarci la dovuta sussistenza. Siamo in completa balia del capitalismo, sistema onnivoro e ingordo che si fonda sull’accumulazione personale a danno di tutti gli altri. D’istinto vorrei cercare di sottrarmi il più possibile a questa piovra divoratrice.
In assenza di un progetto alternativo credibile mi sento spinto a rispolverare le banche di mutuo soccorso proudhoniane, di proporle aggiornandone senso e contenuto. Sarebbero tendenzialmente luoghi e momenti in cui i subordinati e gli ultimi potrebbero mettere insieme i frutti del loro lavoro, autogestirli direttamente in comune senza più darli alle banche. Ci troveremmo perlomeno riparati dai venti malefici di crisi come questa e avremmo una base reale per difenderci e pensare cosa costruire al loro posto.

Andrea Papi