rivista anarchica
anno 39 n. 341
febbraio 2009


 

Errico Malatesta
la nota persona

A distanza di 18 anni dalla prima edizione, esce sempre per le siciliane Edizioni La Fiaccola la seconda edizione del libro La nota persona. Errico Malatesta in Italia (dicembre 1919 – luglio 1920), scritto da Paolo Finzi, della redazione della nostra rivista. Questa nuova edizione è ampliata con un aggiornamento bibliografico di Massimo Ortalli, una postfazione di Giampietro Berti e nuovi indici specifici. È inoltre accluso un Dvd di 3 minuti e mezzo contenente delle riprese (gentilmente concesse dal Centro Studi Libertari/Archivio Pinelli di Milano) della manifestazione del 1° maggio 1920 a Savona, con il comizio dello stesso Malatesta.
Pubblichiamo qui di seguito lo scritto di Giampietro Berti.

Il saggio di Finzi descrive con grande rigore e puntigliosa acribia i mesi cruciali che vanno dall’attesa del ritorno in Italia di Malatesta (fine 1919) alla vigilia dell’occupazione delle fabbriche (fine luglio 1920). Perché mesi cruciali? Perché è proprio in questo breve arco temporale che si dissolvono le possibilità rivoluzionarie presentatesi in Italia nel primo dopoguerra. Una fine che Malatesta aveva paventato, sottolineando in ogni momento la necessità di portare all’estrema conclusione lo scontro sociale scaturito dalle conseguenze incontrollabili del conflitto bellico.

Nella minuziosa, e a volte ossessiva, ricostruzione finziana emerge con grande chiarezza la lucida consapevolezza dell’anarchico italiano. Essa è manifestata dalla frenetica azione da lui svolta in buona parte della penisola, così come, per l’appunto, viene delineata dalle pagine di questo lavoro. In realtà, quando Malatesta arriva in Italia la situazione rivoluzionaria creatasi nel Paese presenta un aspetto ingannevole, perché da un lato si mostra in tutta la sua forza, dall’altro il suo slancio è sostanzialmente esaurito. Alcune delle occasioni migliori, infatti, si sono consumate nei mesi precedenti.
Siamo al culmine del biennio rosso, ma, proprio per questo, nel corso del 1920 non vi sarà un crescendo rivoluzionario concertato delle varie forze di sinistra, quanto una sostanziale impasse tattica e strategica che coinvolgerà tutto il movimento operaio e socialista e che avrà il suo logico epilogo nel cul de sac dell’occupazione delle fabbriche. Allora tutti si illusero di essere alla vigilia della rivoluzione, mentre di fatto si trattava della conclusione di un ciclo di lotte privo di reali sbocchi pratici.
Il disegno rivoluzionario di Malatesta si fondava sull’idea di un’alleanza di tutte le forze sovversive, dal momento che gli anarchici non erano in grado di dar corso in modo autonomo alla rivoluzione. Di qui la necessità di accettare tutte le conseguenze negative dovute all’eterogeneità delle varie spinte contraddittorie. Egli affermava che la rivoluzione doveva essere soprattutto «opera delle masse», per cui non era il caso di guardare troppo per il sottile. Affermando a più riprese che bisogna fare la rivoluzione «con tutti i mezzi», «profittando di tutte le occasioni che si possono presentare», egli intendeva contemperare molte istanze tra loro incompatibili.
In conclusione, il fronte unico da lui auspicato comportava l’accettazione di alcune modalità dello svolgimento sovversivo certamente poco in sintonia con la prospettiva libertaria ed egualitaria. Ma egli, del tutto consapevole che la situazione creatasi in Italia nel dopoguerra non potesse durare a lungo, era deciso ad affrontare comunque tutte le contraddizioni possibili, pur di non lasciar perdere un’occasione che riteneva irripetibile. Da questo punto di vista la rivoluzione non poteva essere l’espressione politica e ideologica di nessuna scuola o partito, ma doveva essere popolare, nel significato più ampio e generale possibile. Quindi non opera specifica della classe operaia, o dei ceti piccolo-borghesi, o delle plebi contadine, o degli emarginati sociali, ma di tutti questi e di altri ancora, insomma «delle masse, di quanta più massa è possibile».
La ricostruzione di Finzi si ferma alle soglie dell’occupazione delle fabbriche, quasi a voler significare che da questo momento il vento della rivoluzione prenderà un’altra direzione. Infatti questa occupazione, che al momento sembrò dare inizio alla rivoluzione socialista, era invece l’espressione più evidente dell’impotenza del movimento operaio e, più in generale, di tutto il sovversivismo italiano. Dal suo insuccesso prese il via un irreversibile arretramento delle forze di sinistra che, senza soluzione di continuità, sfocerà due anni più tardi nella vittoria del fascismo. L’occupazione delle fabbriche non fu un’occasione mancata di rivoluzione, ma, al contrario, l’esito ineludibile dell’assenza in Italia di una prospettiva rivoluzionaria capace di imprimere una svolta decisiva all’andamento, fino allora oscillante e incerto, del conflitto sociale. Questa occupazione non riuscì infatti a superare gli ambiti del rivendicazionismo economico entro cui era nata, e la mitizzazione della sua valenza rivoluzionaria, ad opera dei contemporanei e dei posteri, obliterò in realtà il vero significato della sua ovvia inconcludenza.
Malatesta intuì fin da subito la portata della posta in gioco perché si rese conto che se non si fosse passati alla rivolta aperta e generalizzata, tutto sarebbe stato perduto. La rivoluzione non avvenne per la mancanza di un partito leninista, neppure perché mancavano i rivoluzionari di professione (che comunque erano pochi).
La rivoluzione non vi fu perché la grande maggioranza della classe operaia non era rivoluzionaria e non era guidata da rivoluzionari. Trent’anni di supremazia riformista sul movimento operaio non erano passati invano. Del resto, nessuno in Italia, tranne gli anarchici, voleva veramente la rivoluzione, intesa come immediata insurrezione contro il potere costituito. Non la volevano i socialisti riformisti e i capi sindacali della C.G.D.L. e della F.I.O.M., concordi nel trasformare l’occasione dell’occupazione delle fabbriche in un momento di incontro fra la borghesia illuminata e il riformismo sociale. Non la volevano i massimalisti, del tutto impreparati a questo evento, e neppure i futuri comunisti, sia quelli facenti capo a Gramsci, sia quelli facenti capo a Bordiga.
Dalle pagine di questo volume si vede invece con quanta determinazione Malatesta avesse cercato, nei pochi mesi di possibilità rivoluzionaria, di impedire quella sconfitta che la sua lucidità aveva drammaticamente intravisto.

Giampietro Berti


Riqualificazione ambientale,
riqualificazione sociale

Per i tipi di Eleuthera è uscito, nella collana I didascabili, il volumetto Attraverso la tecnica (Deindustrializzazione, cultura locale e architettura ecologica) (pagg. 79, euro 9). Ne pubblichiamo uno stralcio dall’introduzione dell’autore, il nostro collaboratore Adriano Paolella.

I mutamenti del clima planetario sono di velocità e intensità mai riscontrate in passato: lo scioglimento dei ghiacciai, l’incremento nel numero e nella intensità dei fenomeni atmosferici, la desertificazione di vaste aree sono i più visibili effetti dell’aumento delle temperature. Ben più profondi saranno gli effetti nell’immediato futuro: l’instabilità del clima e l’imprevedibilità degli eventi, uniti alla riduzione della piovosità, porteranno al collasso vaste aree agricole e a una estesa riduzione della produttività, con conseguenti problemi per le popolazioni non solo in ambito locale.
Al costante ed esponenziale aumento delle emissioni corrisponde una continua riduzione dei “depositi” di CO2: le foreste pluviali vengono bruciate per fare posto all’agricoltura o tagliate per venderne il legname, e le aree agricole sono occupate da edifici e infrastrutture. Gli ecosistemi sottoposti a una continua pressione diretta, per l’uso e il prelievo di risorse, e indiretta, per gli effetti delle emissioni, si degradano; il mare si riscalda, “bollendo” le barriere coralline, e si riempie di rifiuti solidi e di inquinanti; la quasi totalità dei fiumi del pianeta è ridotta a fogna a cielo aperto.
La ragione dell’insieme di queste condizioni è l’azione indiscriminata e ottusa dell’uomo, esponenzialmente aggravata dalla continua crescita demografica planetaria. Il numero degli individui e i consumi hanno superato la capacità produttiva e di assorbimento del pianeta e non danno tempo ai sistemi naturali di rinnovarsi, compromettendone così le potenzialità e consumando anche quanto in essi accumulato.
Consumi inutilmente elevati, sprechi, iniquità sono le modalità con cui si usano le risorse del pianeta, e l’ambiente viene trasformato ottenendo minimi benefici con il massimo dei danni. Ne è prova l’“impronta ecologica” che misura la quantità di territorio indispensabile per soddisfare gli attuali consumi, includendo non solo gli spazi necessari per produrre le merci e gli alimenti ma anche quelli per recuperare le emissioni: il calcolo dell’“impronta” mostra come essa superi del 30% la capacità rigenerativa del pianeta e come, continuando con la medesima velocità di crescita attuale, tra il 2030 e il 2040 ci sarà bisogno dell’equivalente di due pianeti per rispondere alla domanda di risorse. È un’immagine che evoca il superamento dei limiti e che, seppure in maniera semplificata, indica quanto la quantità di popolazione e di consumi abbia superato da tempo e di parecchio la disponibilità di risorse del pianeta.

La pesca
Esemplificativo è il settore della pesca. La quantità di pescato ogni anno è molto superiore alla sua capacità produttiva dello stesso periodo; per garantire le medesime quantità di pescato è stato aumentato lo sforzo attraverso l’incremento di dimensioni e di capacità di cattura di imbarcazioni e reti. In tale maniera però si catturano individui in tale quantità, e spesso sotto taglia o in riproduzione, da incidere in modo significativo sulle popolazioni ittiche e quindi riducendo le disponibilità immediate e future. A fronte di un impegno di energia sempre maggiore, le quantità di pescato sono dunque in continua riduzione e molte comunità locali già subiscono gli effetti economici di tale situazione.
Se per la pesca sarebbe sufficiente fermarsi per qualche decina di anni così da permettere il recupero delle condizioni di qualità e quantità dell’inizio del secolo scorso, molto più difficile è ottenere lo stesso risultato quando riguarda il ripristino di una foresta pluviale o il recupero della naturalità di un’area interessata da urbanizzazione. In sintesi, se si fermassero completamente tutte le attività in corso nel pianeta, prima di riportate a livelli di respirabilità l’atmosfera, di ridurre l’effetto serra, di ripristinare gli ecosistemi, di riacquisire livelli congrui di produttività biologica, di riassorbire l’inquinamento ci vorrebbero molte decine di anni e, per alcune condizioni, secoli.
Se non è possibile bloccare tutte le attività, sarebbe però necessario avviare un’azione volta a ridurre la popolazione planetaria e a modificarne i comportamenti. Le azioni promosse a livello internazionale – quali il protocollo di Kyoto sul clima, che prevede l’autoriduzione delle emissioni di gas serra da parte dei paesi aderenti, o la convenzione sulla biodiversità – hanno una fondamentale importanza a livello politico ma scarsa, scarsissima concretezza. Osservando i dati degli ultimi venti anni le emissioni sono aumentate, gli insediamenti raddoppiati in superficie, la biodiversità ridotta. Le condizioni complessive del pianeta, seppure in presenza di accordi e raccomandazioni internazionali, sono indiscutibilmente e significativamente peggiorate.

Il protocollo di Kyoto
Il protocollo di Kyoto ha stimolato l’aumento dell’uso delle fonti rinnovabili nella produzione di energia, concorso alla modificazione dei processi produttivi e dei comportamenti, e orientato le politiche energetiche di alcuni paesi. Risultati interessanti e inalienabili, ma insufficienti, in particolare quando, nello stesso periodo, gran parte del mondo ha decuplicato le proprie emissioni operando nei confronti dell’ambiente con brutalità e noncuranza.
Le ragioni della limitatezza dei risultati è da addebitare principalmente alla volontà comune ai paesi che aderiscono e praticano il protocollo, e perciò comunque stimabili, di intervenire sulla riduzione delle emissioni senza modificare i caratteri della produzione e del consumo. L’ipotesi perseguita da questi paesi, e dalla parte più “illuminata” della produzione e dei governi, è che si possa, attraverso l’aumento dell’efficienza dei cicli produttivi e della qualità ambientale delle merci, ottenere l’auspicata riduzione delle emissioni. Questa ipotesi è errata e l’attuale condizione planetaria ne è testimonianza. Il miglioramento dell’efficienza energetica dei prodotti ha aggiunto nuovi ambiti merceologici e incrementato il consumo di merci: il meccanismo del continuo miglioramento delle merci, previsto da tutti i regolamenti e i processi certificativi ambientali, è divenuto un ottimo strumento nei mercati saturi per la dismissione di merci ancora utilizzabili e per l’incremento delle vendite, dissipando in questa maniera tutti i vantaggi ambientali connessi al miglioramento dell’efficienza.
Anche per quanto attiene l’energia sussistono molti dubbi sull’efficacia di quanto in atto. Seppure in molti paesi del centro e nord Europa la quantità di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili sia aumentata, raramente si riscontra una corrispondente riduzione dell’uso delle fonti fossili: i consumi energetici totali sono aumentati e l’uso delle fonti rinnovabili è riuscito essenzialmente a rispondere all’incremento della domanda.
Per ridurre “l’impronta” dell’umanità è imprescindibile tendere alla riduzione della popolazione e dei consumi e quindi cambiare l’organizzazione economica e sociale contemporanea fondata sul perseguimento della continua crescita quantitativa.
Ambiente e società sono intimamente connessi: le trasformazioni degli ecosistemi, lo sfruttamento delle risorse, sono ancora oggi il mezzo principale per fare profitti e accumulare capitale. L’ambiente quindi non è solo il luogo dove si concretizzano le trasformazioni, ma il mezzo con cui si ottengono i risultati economici attesi. L’ambiente si riqualifica solo se si riduce la pressione antropica, e quindi si riducono la popolazione e i consumi, solo se si modifica il modello economico e sociale diffuso.
Se si vuole operare per la riqualificazione ambientale, è necessario riqualificare contemporaneamente le comunità insediate, in quanto esse sono oggetto degli interessi di mercato e soggetto in condizione di organizzare un altro modello; ridare agli individui e alle comunità il diritto di gestire il proprio territorio, di garantire la propria esistenza attraverso la conduzione corretta delle risorse locali; riportare i processi produttivi a rispondere alle effettive necessità delle comunità locali; sgravare le comunità locali dalle merci inutili, ciascuna con il suo bagaglio di energia, materia prima ed effetti negativi nell’ambiente; ridurre la concentrazione della produzione e della commercializzazione eliminando i monopoli, riducendo la mobilità delle merci e delle persone.

Comunità evolute, non autoritarie
Operare in questa direzione rende più diretto il rapporto tra individuo e ambiente in cui è insediato, anche attraverso la ricomposizione di quelle relazioni primarie alimentari, agricole, paesaggistiche, culturali che legano le modalità di vita alla produzione e all’ambiente locali. Per permettere tale riequilibrio, le comunità dovrebbero accedere direttamente alla maggior parte delle risorse necessarie alla loro sopravvivenza; ovvero dovrebbero avere un territorio di dimensioni e produttività adeguate al loro sostentamento e dovrebbero altresì adattarsi alle limitazioni di quel territorio per quanto riguarda sia il numero delle persone insediate, sia i prodotti in uso. Comunità, cioè, culturalmente evolute, socialmente non autoritarie, dotate di identità, aperte agli scambi, capaci di gestire le risorse e riqualificare l’ambiente.
L’aumento della densità, la concentrazione delle popolazioni, la mancanza di spazio definiscono al contrario modelli sociali insostenibili, e le aree metropolitane ne sono esempio tipico. In esse i cittadini non sono in condizione di fare quasi nulla direttamente; nessuna risorsa è disponibile a livello locale in quantità tale da soddisfare la popolazione insediata: acqua, alimenti, energia vengono importati spesso da molto lontano e i cittadini non hanno alternative al loro uso in quanto non vi sono terreni sufficienti a produrre gli alimenti, né falde o sorgenti in condizioni di dissetare, né strumenti con cui autoprodurre la propria energia. In esse si decompone la relazione primaria con l’ambiente, si centralizzano i servizi e le decisioni, il sistema sociale diviene verticistico.
I grandi insediamenti sono proprio la risultante del modello economico vigente che preferisce le macro-concentrazioni di popolazione per disporre di un mercato caratterizzato da grandi numeri di acquirenti, per obbligare gli individui a dipendere dalle merci prodotte, per garantirsi un bacino sovradimensionato di manodopera sotto-occupata o senza lavoro. È un sistema di controllo sociale basato proprio sull’impossibilità di accesso diretto alle risorse, è la concretizzazione di una società senza ambiente nella quale gli operatori economici trasformano per vendere e le persone, che divengono solo acquirenti, non possono praticare modelli alternativi non avendo le risorse, a partire dallo spazio fisico, per attuarli (…).

Adriano Paolella


Quel grido
censurato

Il 22 luglio 1987 la Rai trasmise il film di Giuliano Montaldo sulla tragedia di Sacco e Vanzetti. Chi ha visto la pellicola nell’edizione originale del 1971, sa che nella struggente scena finale, prima di salire sulla sedia elettrica, Bartolomeo Vanzetti (interpretato da un magistrale GianMaria Volontè) spezza il silenzio di quegli attimi con un ultimo grido di fiera rivolta: “Viva l’anarchia”. Quel grido, gli spettatori del 22 luglio 1987 non hanno potuto risentirlo, perché furtivamente cancellato da un miserabile intervento censorio della Rai che pensò bene di azzerare l’audio. Forse era troppo certa di poter contare sull’indifferenza generale.
Sospinto dal disgusto per quel povero furto con destrezza, il 5-6 settembre dello stesso anno raggiunsi Villafalletto, paese natale di Vanzetti. Gli anarchici cuneesi avevano voluto un convegno per denunciare che, sotto altra forma, quella scarica di 19mila volt di giustizia legale durava ancora dopo sessant’anni. Celebrato alla presenza degli amici pugliesi di Nicola Sacco, il convegno si svolgeva in un clima di sereno e non rabbioso minoritarismo. In fondo alla sala, seduto vicino ad una vecchia stufa, riconobbi Nuto Revelli che ascoltò in religioso silenzio tutti gli interventi senza smettere di fumare. Non osai rivolgergli la parola. Invece abbracciai il pinerolese maestro elementare Lorenzo Tibaldo, che era venuto a Villafalletto richiamato come me dalla devozione verso i due martiri, dal rifiuto della pena capitale, dall’odio per il razzismo già allora strisciante, dalla curiosità per il pensiero anarchico sempre deciso a dire che la libertà viene prima di tutto il resto e che non puoi sacrificarla sull’altare della dittatura proletaria. La complicità tra Lorenzo e me scoppiò gioiosa perché non avevamo per niente combinato di vederci.
Ma Lorenzo quel giorno deve aver contratto un debito interiore che è riuscito a pagare solo vent’anni dopo. Questo volume (Sotto un cielo stellato, Claudiana, Torino 2008, euro 19,50 con prefazione di Giuliano Montaldo) è dedicato ad una ricostruzione agile e rigorosa della biografia dei due assassinati: una meritevole fatica solitaria, che si aggiunge alla pubblicazione di una commovente antologia degli scritti di Bartolomeo Vanzetti (“Una vita proletaria”) edita nel 1987 dalla salernitana casa editrice Galzerano.
Dallo scavo che Tibaldo ha compiuto nelle copiose fonti inedite reperite presso l’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo e presso l’Archivio storico Famiglia Berneri/Aurelio Chessa di Reggio Emilia, esce un ritratto a tutto tondo di due personalità diverse. Bart si sentiva sposato con l’anarchia, mentre Nick aveva la moglie Rosina, il figlio Dante e la piccola Ines, nata durante la sua prigionia. In entrambi, però, colpisce la mirabile fusione fra fede politica e poesia che, attraverso i crolli della sofferenza, condusse il pescivendolo di Villafalletto e il calzolaio di Torremaggiore a scoprire un valore universale per la loro detenzione. Le tappe del loro calvario si trasformarono in un orgoglioso romanzo di formazione che avrebbe portato i due anarchici a diventare protagonisti, loro malgrado, di una titanica prova di amore per le libertà e per l’uguaglianza. E suggestiona il distillato limpido dell’umanità dei due condannati: possono parlare di sindacalismo, di violenza, di nazionalismo o di affetti famigliari, ma sempre sono capaci di spezzare le catene del loro tormentato isolamento e di trasmettere al mondo messaggi pacifici e secchi di straordinaria semplicità e singolare efficacia didattica.

Ancora prima di diventare eroe, Bartolomeo Vanzetti rivela già tutta la grandezza della sua moralità quando nel 1909 scrive alla sorella Vincenzina. “Sii educata verso i signori e i superiori, ma molto più educata e buona verso i poveri e i lavoratori. Coi primi sii fiera. Coi secondi umile”. Una robusta legalità interiore che sembra riecheggiare e tradurre i valori codificati dal Programma della Prima Internazionale del 1864: “Nessun diritto senza doveri e nessun dovere senza diritti”. Incisiva – e di bruciante attualità – la sua condanna del nazionalismo. “Gli umili sono tenuti nell’ignoranza delle virtù degli altri popoli, e sono avvelenati d’assurdo orgoglio da coloro che speculano sul loro patriottismo”.
Anche quando discute di violenza, Vanzetti pesa e alleggerisce le parole, sapendo che nel movimento anarchico c’è chi vuol affidare al militante rivoluzionario il dovere di indossare i panni di un implacabile missionario della vendetta proletaria e della violenza purificatrice: “Sempre più io credo che la violenza in quanto violenza non possa risolvere i problemi della vita. E più amo, più imparo che il diritto di tutti alla violenza, non va d’accordo con la libertà, ma comincia invece quando la libertà finisce”.
Memorabile l’estremo saluto che Nicola Sacco invia al figlio Dante: “Nel gioco della felicità non prendere tutto per te, ma scendi di un passo e aiuta i deboli che chiamano al soccorso, aiuta i perseguitati e le vittime, perché sono i tuoi migliori amici (..) In questa lotta della vita troverai molto amore e sarai amato”. Anche le gioie più intime della vita famigliare sono raccontate con la disarmante potenza dell’ingenuità: “…quando erano le nove rientravamo e Dante, a quell’ora, era sempre addormentato, allora lo prendevo tra le mie braccia per portarlo a casa e qualche volta Rosina mi aiutava a portarlo, e allora, quando lei lo teneva tra le braccia, ci fermavamo a baciare il suo visetto roseo”.
Pasticciere a Cuneo, confettiere a Cavour e a Torino, negli States Vanzetti fu sguattero, cavatore di pietra, bracciante agricolo, lavorante alle fornaci, manovale alle ferrovie e agli acquedotti. Tagliò il ghiaccio, spalò neve per le strade e carbone per le caldaie. In carcere, trascorse i suoi sette anni di agonia studiando accanitamente la Bibbia, “Il Capitale”, “I promessi sposi”, Spencer, Darwin, Tolstoi, Hugo, Mazzini e Labriola. “Singhiozzò” con Leopardi e trovò un’impolverata Divina Commedia. “Ahimè! I miei denti – commentò – non erano fatti per tal osso: tuttavia mi accinsi a rosicchiare disperatamente e, credo, non inutilmente”. Da Carlo Pisacane ricavò la convinzione che “il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero”.
Lesse inoltre Bakunin, Malatesta, Kropotkin, come Pisacane divorati anche da Bruno Trentin in Francia, da Giuseppe Di Vittorio a Cerignola, da Emilio Pugno a Torino, da Idolo Marcone a Vercelli: gli anni giovanili di non pochi tra i più robusti sindacalisti dell’Italia repubblicana furono caratterizzati dal retroterra di una formazione anarchica che faticò non poco a incontrare l’egemonia comunista, ma fu forse ingrediente sotterraneo e non secondario di molte delle più travagliate innovazioni, a volte feconde per il risorgimento sindacale, altre volte accolte con diffidenza sul terreno della politica. È proprio un caso che Trentin abbia voluto titolare l’ultima sua opera “La libertà viene prima”?
Dobbiamo essere grati a Lorenzo Tibaldo per questa impresa. Essa non è solo un doveroso tributo di giustizia postuma ai due anarchici, ma sa intrecciarsi con le mille forme che oggi assumono le lotte quotidiane per l’uguaglianza tra i popoli, per la tolleranza, per la sacralità della vita, per la dignità del lavoro. E Lorenzo mi perdonerà se confesso tutta la mia affettuosa invidia per questa sua opera che ho divorato e non cesso di coccolare tra le mie mani come solo un caro amico concede di fare con il suo ultimo nato.

Mario Dellacqua

P.S. Da quando ho appreso che, raccolte in una sola urna, le ceneri di Sacco e Vanzetti in viaggio per Villafalletto sono transitate sulla ferrovia Airasca-Cuneo, tutte le mattine guardo quelle stesse rotaie con altri occhi.