rivista anarchica
anno 39 n. 343
aprile 2009


politica internazionale

Dietro il fallimento del liberalismo globalizzato
di Antonio Cardella

Note a margine del primo bilancio presentato da Barack Obama al Congresso.

 

Credo che le preoccupazioni sottese al rivoluzionario primo bilancio presentato al Congresso dall’amministrazione Obama a fine febbraio siano ben delineate dal viaggio che il nuovo segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha compiuto in Cina agli inizi dello stesso mese di febbraio. Il messaggio che Hillary doveva recare alla nomenclatura cinese era certamente la rassicurazione che l’era di Obama seppelliva per sempre la logica di contrapposizione conflittuale che aveva contraddistinto la politica di Bush; ma mirava soprattutto ad ottenere dalla maggiore potenza dell’area l’assicurazione che la Cina avrebbe continuato a mostrare fiducia nella possibilità che gli Stati Uniti sarebbero usciti dalla crisi salvaguardando gli ingenti investimenti esteri in titoli del Tesoro americano, i quali, nel caso specifico della Cina, raggiungono la cifra stratosferica di quasi 2 miliardi di dollari.
Perché la vera incognita per il superamento di questo difficilissimo momento che l’America attraversa è se la crisi globale dei mercati finanziari e quella conseguente delle economie reali non induca i maggiori creditori esteri degli Stati Uniti, tra cui la Cina, appunto, ma anche l’India e il Giappone, a richiedere il rimborso anche parziale dei rispettivi investimenti in titoli garantiti dal Tesoro americano.
Certo la logica vorrebbe che in periodi di normalità non si giocasse a compromettere la stabilità economica dei Paesi sui quali si è investito, perché ciò comporterebbe un declassamento dell’investimento stesso; ciò in periodi normali, ma il nostro è un periodo che di normale non ha proprio nulla e la sollecitazione a tirare i remi in barca è forte. Le suggestioni autarchiche e protezionistiche emergono chiare nelle misure che i singoli Stati, tra contraddizioni e in dispregio di trattati internazionali consolidati, minacciano di prendere per tentare di superare le difficoltà interne. La stessa Unione Europea esita ad applicare con rigore la norma che impedisce al denaro pubblico dei singoli Stati di correre in soccorso dei settori economici in crisi e di elevare barriere protezionistiche per ostacolare la libera circolazione dei capitali, delle merci e dei servizi.
Ma il fallimento del liberismo globalizzato rende queste norme assai precarie e incapaci a fronteggiare il disastro provocato dalla così detta economia di mercato.

Gigantesco piano di investimenti

Ma torniamo oltre Oceano per vedere le principali voci del bilancio presentato al Congresso da Barak Obama.
Certo, a giudicarne gli indirizzi, non si può non rilevare una grande discontinuità con gli otto anni della gestione Bush. Obama si fa carico della necessità di realizzare un’America meno squilibrata dalla parte dei poteri forti e delle lobby finanziarie e monopolistiche che hanno fatto il bello e il cattivo tempo in mezzo secolo di un’economia priva di controlli e completamente deregolata. Lo fa ipotizzando un gigantesco piano di investimenti destinati prevalentemente a riformare il sistema sanitario, a incrementare la ricerca scientifica e a sovvenzionare tutte quelle attività industriali che attuino tecnologie volte soprattutto a tutelare l’ambiente e a non favorire gli sprechi energetici. Si tratta di un piano gigantesco di impiego di risorse pubbliche tutte finalizzate ad ottenere, nel medio periodo, una ripresa armonica della vita economica della nazione.
Debbo confessare che non riesco ad orientarmi nella girandola di cifre che sono trapelate nelle 134 pagine della proposta di bilancio da presentare al Congresso. Non mi oriento perché non mi è del tutto chiaro come un Paese gravato da un passivo di bilancio di 1760 miliardi di dollari (ai quali vanno aggiunte le stratosferiche spese impiegate nella guerra all’Iraq, tenute da Bush fuori dal bilancio dello Stato), come faccia una nazione così indebitata a prevedere per il 2010 una spesa di 3552 miliardi di dollari.
D’accordo, si tasseranno i redditi più alti, ma intanto il limite al di là del quale si inaspriranno le tasse è fissato a 250 mila dollari annui, il che riguarderà tra il 3 e il 4% della popolazione attiva, il cui gettito, tra l’altro, è difficilmente quantificabile considerato che non si tratta di redditi fissi e, quindi, assai variabili in relazione alle diverse congiunture.
Ma vi sono altre due incognite che peseranno come macigni sul piano Obama.

Il ruolo dell’industria bellica

La prima è costituita dalla struttura economica della società americana, una società caratterizzata da giganteschi monopoli, da lobby e da gruppi di potere potentissimi con i quali il piano di Obama dovrà fare i conti. Il settore della sanità, ad esempio, è dominato da catene di cliniche private, da monopoli farmaceutici e da colossi assicurativi che, sino ad oggi, hanno lasciato fuori dall’assistenza sanitaria oltre 50 milioni di cittadini. È difficile prevedere come reagiranno quando concretamente saranno loro sottratti un potere e dei profitti immensi.
Bisognerà vedere se i 250 miliardi di dollari destinati al salvataggio di colossi bancari quali la Morgan, la Goldman Sachs, la Merrill Lynch, saranno adeguati alla bisogna, considerato che è difficile dire se i loro armadi sono privi di altri scheletri.
Occorrerà infine valutare le reazioni dell’industria bellica, l’unica, sino ad ora, a non essere investita dalla crisi, ma che vedrà ridimensionati drasticamente gli investimenti previsti per i prossimi anni.
L’altra incognita è costituita dalla squadra che Obama ha scelto per attuare il suo piano. Per limitarci ad un solo esempio: Larry Summers, il più ascoltato economista del presidente, è lo stesso Summers che nel 1999, con l’esplicita approvazione di Robert Rubin, altro consigliere economico ombra di Obama, abolì la Glass Steagall, una norma che separava i percorsi delle banche commerciali, che acquisivano e investivano i soldi dei risparmiatori in prodotti non speculativi, dai percorsi delle altre banche d’affari.
Aggiungiamo per inciso e per concludere che non abbiamo sentito dal nuovo presidente una sola parola sulla riforma del Fondo Monetario Internazionale e sulla Banca Centrale, organismi egemonizzati dagli Stati Uniti, che sono stati all’origine di disastri quali quelli del Sud Est Asiatico negli anni Novanta.

Antonio Cardella