rivista anarchica
anno 39 n. 344
maggio 2009


immigrati

Tra stragi di Stato e disperate rivolte
di Maria Matteo

Facendo seguito al dossier da lei curato sullo scorso numero, Maria Matteo prosegue l’analisi del nuovo razzismo di Stato.


Tutto comincia a Lampedusa. L’isola che Maroni intende trasformare in un carcere per immigrati in attesa di deportazione.
A Lampedusa i cinque/seimila abitanti vivono di turismo e poco altro. Le tartarughe se la passano meglio della gente, perché hanno una clinica tutta per loro, mentre nell’isola non c’è un ospedale. Quando il mare è brutto i traghetti non arrivano e ti tocca arrangiarti con quello che c’è.
Lampedusa è la prima frontiera dell’Europa dei muri. Chi ci arriva ha passato e visto tutto: porta incisi nel corpo e nella testa il deserto, la violenza dei guardiani ai confini, che picchiano, stuprano, derubano. Poi viene il tempo dell’attesa davanti al mare.
Già il mare. Il 30 marzo se ne è mangiati 500 in una sola notte: così quei cinquecento hanno avuto l’onore di qualche riga in cronaca. Gli altri, quelli che muoiono tutti i giorni lungo le rotte della disperazione, a volte guadagnano un trafiletto, spesso nemmeno quello.
Il ministro dell’Interno di fronte ad una tragedia più vistosa delle altre ha reagito annunciando intensi pattugliamenti in mare. Nuove, più crudeli, tragedie si profilano all’orizzonte. Ricordiamo un’altra primavera, quella del 1997. Il 28 marzo di quell’anno la nave albanese Kater I Rades affondava nell’Adriatico: era stata speronata da una corvetta della Marina Militare Italiana, la Sibilla. Morirono 106 persone, colpevoli di fuggire alla guerra civile scoppiata nel loro paese.
Non fu un “incidente”. Il governo di centro sinistra guidato da Romano Prodi, in accordo con quello albanese, aveva decretato il blocco navale. Pochi giorni prima, la presidente della Camera, Irene Pivetti, allora in versione beghina leghista, aveva chiesto che i profughi venissero gettati a mare. Detto fatto: missione compiuta.
Dodici anni dopo il ministro dell’Interno è il leghista Maroni, che sta trattando con la Libia le condizioni per un nuovo blocco navale. La vita di tanti è disputata in un vero mercato di carne umana: le trattative le fanno nei palazzi del governo. Nell’indifferenza dei più, tra il plauso di troppi.

Una galera su uno scoglio

Torniamo a Lampedusa, arido confine di un’Europa che non somiglia a quella da supermercato e reclame TV: belle macchine, belle fighe, belle case, la cucina più amata, un imprenditore puttaniere come presidente, le veline in mutande, i ragazzi da copertina, il ferrari testa rossa. E poi Zidane, Ibra: anche arabi e zingari ce la possono fare. Corri, ragazzo corri: i tuoi ti hanno dato tutto quello che avevano, tu sei giovane, sei robusto vai là e manda qui un frammento di luci del varietà. Non sarà facile, lo sai già che non sarà facile, ma se arrivi poi un modo lo trovi.
Invece no. Tutto chiuso, solo Lampedusa, una galera su uno scoglio. Anche quelli fuori si accorgono della fregatura: alla fine sono sulla stessa barca di quegli stranieri tutti uguali che giorno dopo giorno, da anni e anni approdano qui. E pensare che avevano mandato in parlamento una di loro, eletta nelle liste del leghista Maroni, una terrona nella Lega Nord, sì nella Lega Nord, perché mica siamo mori, mica siamo negri. Siamo sul bordo, ma dentro, dentro, non fuori. Poi il bordo è diventato margine, terra di nessuno, non luogo dove stipare tutti in attesa della deportazione. Così il vento ha cominciato a cambiare anche a Lampedusa. Qualcuno si sta organizzando contro il ritorno all’isola-colonia penale, roba dei primi tempi dopo l’annessione all’Italia savoiarda.
Il 18 febbraio, tra gli immigrati stipati nel CIE, scoppia la rivolta e un intero padiglione va a fuoco. Un fuoco che, a poco a poco, si è esteso nei CIE della penisola. Le immagini di quel fuoco sono rimbalzate nelle prigioni per migranti ed hanno covato sotto la cenere. A fine febbraio il governo ha deciso per decreto di prolungare da due a sei mesi la detenzione nei CIE. (1)

Urla nel silenzio

Da allora è partita una disperata resistenza.
Nei CIE di Torino, Milano, Roma, Bari, Gradisca, Bologna, Trapani ci sono stati scioperi della fame, materassi bruciati, proteste sui tetti. A Bari per giorni quasi tutti hanno rifiutato il cibo: in tre si sono cuciti la bocca. Si, proprio così: con ago e filo a legare le labbra. A Trapani c’è stato un principio di rivolta quando un prigioniero si è tagliato con una lametta. A Bologna in due sono saliti sul tetto perché volevano uscire: uno l’hanno poi portato a Milano, dove è nuovamente salito sul tetto. Quelli che protestano o li deportano subito o li trasferiscono. Così le notizie rimbalzano, i contatti crescono, il filo rosso delle lotte si intreccia in ogni angolo della penisola.
Ma è la protesta di pochi: i più stanno a guardare, sperano di cavarsela, sono convinti che allo scadere del sessantesimo giorno usciranno. Poi non succede e allora qualcosa si rompe. A Torino un ragazzo che aveva aspettato buono buono i “suoi” sessantagiorni, quando questi passano e non lo liberano, comincia da solo uno sciopero della fame.
Sempre a Torino il 21 marzo il cortile del CIE si è sporcato di sangue. Il sangue di due tunisini che si sono incisi a fondo le braccia. Era il “loro” giorno: li attendevano le camionette che li avrebbero condotti al porto di Genova per imbarcarli a forza verso un paese dove non potevano né volevano più vivere.
Il video di quel sangue – fatto uscire di nascosto dalla prigione – è stato cancellato da youtube perché certe brutture non si devono vedere. Robe dell’altro mondo, il mondo separato dei “clandestini”, uomini e donne dichiarati illegali, rinchiusi in attesa di deportazione. Per loro soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. E, a volte, ci scappa anche il morto. Come a Torino, il 23 maggio scorso, quando un immigrato, lasciato senza assistenza, è morto di polmonite. A Roma un algerino stava male: è stato curato a manganellate ed è morto nella sua cella il 19 marzo. In entrambi i casi era la Croce Rossa a gestire il CIE, dove, come dissero la scorsa primavera alcuni immigrati rinchiusi in corso Brunelleschi, “Si sta come cani al canile. Gridi e nessuno ascolta”.
Ovunque, nelle gabbie per uomini e donne, si levano urla. Urla nel silenzio.
A volte capita la botta di culo. A Torino a fine marzo, approfittando della distrazione dei guardiani, in sette saltano il muro. Due ce la fanno: per gli altri la solita dose di calci e pugni.
Da qualche tempo c’è chi prova a mettersi in contatto, facendo girare numeri di telefono nei CIE: molti chiamano, raccontano le loro storie, chiedono una mano.
C’è uno che ha lavorato in provincia di Padova per dieci anni sempre nella stessa ditta: testa bassa e niente storie. Poi un giorno balordo, di quelli che capitano a tutti prima o dopo, beve un po’ troppo e fa una cazzata. Perde il lavoro, non ne trova un altro e così gli scadono i documenti. Chiuso nel CIE si chiede cosa farà in un paese di cui quasi non ricorda la lingua, che non sente più suo. A Milano ogni tanto la polizia fa il giro dei cantieri e delle officine e preleva il suo carico umano direttamente sul posto di lavoro. Il giorno dopo, i fortunati, quelli scampati alla retata, piegheranno ancor più la schiena. La propaganda racconta che nei CIE finiscono i delinquenti, ma la realtà è diversa, molto diversa.

Storie disperate

Tira aria grama non solo nei CIE.
Un ragazzino afgano, quattordici anni di guerra e miseria, entra in Italia sotto un camion: resta aggrappato per 13 ore. Poi cade. La vicenda colpisce, i giornali ne parlano, seminando un po’ di commozione usa e getta, oggi buona, domani già appassita. Nessuno, o quasi, ricorda che in Afganistan ci sono quelli dell’esercito italiano, che sono lì a fare la guerra. No, scusate. Fanno peace keeping. Sono lì, quelli italiani in particolare, per insegnare le tecniche ai poliziotti e la giustizia ai giudici. Roba che nemmeno Totò se la sarebbe sceneggiata. Non avrebbe avuto il coraggio di far ridere di fronte alle donne afgane chiuse in casa e stuprate per legge. Anche quella del piccolo afgano è una vicenda di tutti i giorni: basta scorrere le cronache per trovarne traccia, ma le storie che nessuno le racconta sono certo di più.
Questo primo scorcio di primavera ci regala un altro anticipo del pacchetto sicurezza. Qua è là, nelle periferie urbane già si mormorava di quel tale medico che aveva denunciato qualcuno, di un Pronto Soccorso dove era meglio non andare. In febbraio c’è la prima morta. Una ragazza nigeriana malata di tubercolosi, prostituta e clandestina, sta male, sta sempre peggio ma non va in ospedale, perché teme che da lì al CIE la strada sia diretta. Muore in mezzo ad una strada, così come era vissuta, merce a poco prezzo. Usa, getta e comprane un’altra.
All’inizio di aprile si diffonde la storia di Kante, Traore e Abu. Sono profughi della Costa D’Avorio, un paese che porta sin nel nome l’impronta della schiavitù coloniale. Kante è vedova: suo marito è stato ammazzato sulla porta di casa dalle milizie governative e lei è venuta in Italia, a Napoli, per cercare un futuro. Il 5 marzo va al Fatebenefratelli per partorire un bambino, Abu, figlio del suo nuovo compagno, Traore, anche lui esule in attesa del riconoscimento dell’asilo politico. Un parto tranquillo, un bel bambino. Kante è ancora in sala parto quando qualcuno dall’ospedale manda un fax in questura per segnalare la “clandestina”. Seguono 12 giorni di inferno burocratico, durante i quali l’ospedale sequestra Abu, non permette né alla madre né al padre di vederlo. Poi le carte raccontano la loro storia e l’ospedale rilascia il piccolo. È finita con un po’ di paura e tanta rabbia ma poteva andare peggio. Molto peggio. Tra poco, per legge, quelle come Kante dovranno scegliere tra un parto clandestino e il rischio di perdere il figlio. Forse l’Afganistan non è così lontano.

Ma non è una festa

A Milano la pioggia diresti che è una benedizione insperata: ti lava l’aria e l’asfalto è lucido come per una festa. Non sotto il ponte Bacula, però. Lì, tra le baracche dei rom, il fango si impasta con i rifiuti di una vita precaria, vita da baraccati, tra topi, razzisti e sbirri. Il 31 marzo la pioggia è impietosa. La polizia arriva in forze: fuori tutti, via da qua, non importa dove, non importa che ci sono bambini piccoli, non importa che siamo in un posto da bestie. Neanche qua potete stare. Lo scorso anno buona parte dei 250 zingari di Bacula venne sgomberata dalla Bovisa. Ma la Milano Moratti/De Corato i poveri proprio non li vuole da nessuna parte: brutta immagine per la città dell’Expò. Le baracche vengono abbattute, la gente rovista per recuperare qualcosa, poi si disperde nel ventre della metropoli. Restano in venti, fradici e senza un dove. Si prendono una casa fatiscente per passare la notte: gli uomini in divisa promettono di non toccarli sino all’alba, ma mentono. Aspettano che gli antirazzisti vadano via e poi entrano, picchiano e ributtano tutti in strada. Due bambini hanno meno di un anno. Fuori l’asfalto bagnato riflette e moltiplica le luci. Ma non è una festa.

Maria Matteo

1 (cfr. sullo scorso numero di “A” Un soldato per ogni bella donna).