rivista anarchica
anno 39 n. 344
maggio 2009


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Nomi diretti
e nomi differiti

 

1. Il primo capitolo di Tutti i nomi di José Saramago (1997) si conclude dichiarando il nome del protagonista, “signor José”. All’inizio del secondo ci viene poi detto come sia del tutto vano chiedersene il cognome. Data l’“irrilevanza del personaggio” – questa è la tesi proposta – , a detto José Tal dei Tali non servirebbe a niente “pronunciare il nome completo, visto che gli interlocutori trattengono nella memoria solo la prima parola, José”. È evidente che qui – oltre a proporre in forma metaforica la propria modestia – , José Saramago coinvolge un intero mondo di valori in virtù del quale ciascuno di noi viene chiamato dagli altri in rapporto al giudizio – spesso definitivo e senza appello – che ci appioppano.
In Agostino e ne La disubbidienza – due romanzi che Alberto Moravia pubblicò rispettivamente nel 1944 e nel 1948 – , il nome del protagonista è dichiarato, invece, nella prima frase. Gli dei hanno sete di Anatole France – pubblicato nel 1916 – ha addirittura il nome e il cognome del protagonista – un protagonista che soltanto alla fine si potrà definire “secondario” rispetto ad altre figure più pregnanti – come prime due parole. Ho scelto più o meno a caso pescando nella mia biblioteca tra i pochi romanzi a portata di mano.
Leggo Vietato giocare con la palla di Antonio Steffenoni (Carte Scoperte, Milano 2008). Fin dalla prima pagina nessun lettore può farsi venire dei dubbi su quale sarà il protagonista principale, ma il cognome di costui lo verrà a sapere soltanto a pagina 81, mentre per il nome proprio dovrà aspettare pagina 181. Mi dico che, presumibilmente, questa differenza è significativa: sul piano dell’evoluzione delle tecniche narrative, certo, ma anche sui piani – correlati – della considerazione che lo scrittore ha del suo compito nonché delle attese che, premiate o meno che siano, vengono ad ingenerarsi nel lettore.

2. Nei casi letterari che ho utilizzato come termini di confronto, gli autori sono sottostati ad una sorta di imperativo che voleva il lettore dotato di tutta un’attrezzatura di base con la quale affrontare una vicenda il cui inizio, il cui svolgimento e la cui conclusione risultano piegati integralmente all’artificio narrativo. Il narratore è un deus ex machina pietoso e già tramite i nomi infonde certezze nell’animo dei suoi lettori. Per questo li dichiara subito. Un ritardo potrebbe allontanarli dal lettore, infragilirglisi tra le dita, sfumare, retrocedere nell’impalpabile, vietare l’accesso alle pronte identificazioni. Con le eventuali e nefaste conseguenze di perdere il lettore.
Steffenoni appartiene invece ad uno stuolo di scrittori – più recenti, eredi forse più diretti di tante riflessioni sulle strutture letterarie e di tanta sperimentalità – che riposa sull’assunto della necessità di una maggior coerenza tra narrazione e loro contesti. Se dobbiamo aspettare ottanta pagine per sapere il cognome del protagonista innanzitutto é perché nessuno si chiama da sé e, poi, perché soltanto qualcun altro dei protagonisti potrebbe avere l’occasione di chiamarlo per nome (o per cognome) nelle circostanze opportune. Se le circostanze non ci sono le si aspetta pazientemente, senza che nessuno – neppure l’autore, si noti – sembrerebbe poter intervenire per sopperire alla mancanza. Ovviamente, l’autore – a maggior ragione in un romanzo scritto in terza persona singolare – lo potrebbe fare: così come dice che il protagonista aveva capito questo e quest’altro, era andato, era tornato, aveva fatto, detto e provato come sensazioni, così come gli è entrato nella testa per scavare nel non detto, avrebbe potuto spiattellarne il nome. Invece non l’ha fatto e lo ha – per così dire – capitalizzato insieme ai segmenti di vicenda che astutamente ha articolato uno sull’altro.
Da un lato, allora, sono portato a considerare questa soluzione narrativa un mero espediente in più nella lotta darwiniana per la differenziazione della merce narrativa. Dall’altro, tuttavia, mi dico che, nella consapevolezza o meno dell’autore – parlo di tutti – , questa soluzione narrativa riflette comunque atteggiamenti e valori: assegnati al modo di scrivere, al romanzo ed alla sua funzione sociale, al personaggio ed ai gradi di credibilità della rete di relazioni in cui l’autore l’ha cacciato.
Un personaggio senza nome, insomma, mentre accumula attenzione – se l’autore vince la sfida con il lettore –, media una rappresentazione della realtà leggermente meno certa e meno fittizia, contribuendo, forse, alla demistificazione di almeno un caposaldo della concezione borghese del romanzo.

3. Uno dei casi di speculazione più tenace nei confronti del nome proprio di protagonista – un caso “seriale” – è quello dell’ispettore Morse escogitato da Colin Dexter. Da L’ultimo autobus per Woodstock (1975) a Sipario per l’ispettore Morse (che, a dire il vero, l’autore aveva intitolato Il giorno del rimorso) (1999) è tutto un imbarazzato fuggi-fuggi dal proprio nome. Morse è uno di quelli che sentono la scelta dei genitori come un macigno da cui mai ed in nessun modo potersi liberare. Alle numerose fanciulle che gli capita via via di amare concede soltanto il proprio cognome. Tuttavia, ne Il passo falso (che, a dire il vero, l’autore aveva intitolato La morte è ormai la mia vicina: ogni tanto ho pietà per lo “scrittore di successo”, pieghevole a qualsiasi violenza del mercato), Morse, prima, parla con melanconia dei propri genitori – che “non ebbero mai una vera opportunità in vita loro” e che lo ricattavano moralmente standogli sempre alle costole ed esortandolo ad applicarsi più che poteva – , e, poi – alla conclusione di una lettera al proprio amato collaboratore, il sergente Lewis, ed a conclusione del romanzo stesso – , si firma Endeavour (“Sforzo”, “Tentativo”), fra parentesi Morse, rivelando finalmente, con il nome, una cultura non sua, ma imposta, subita, e ineludibile.

Felice Accame

P.s.: Ovviamente, anche la scelta di un cognome è una scelta delicata. Steffenoni perde la sfida con il correttore di bozze allorché battezza “Cazzotti” una famigliola collaterale, comparsa trascurabilissima nell’economia complessiva della sua narrazione. Per tre volte, infatti, il testo (alla sua seconda edizione) ne riporta il nome con l’iniziale minuscola.