rivista anarchica
anno 39 n. 346
estate 2009


strage di Stato.2

Napolitano, Pinelli, Calabresi. E noi
di Massimo Varengo

Tra “pacificazione” e memoria, archivi negati e “servizi deviati”, la commozione del presidente della repubblica per Pinelli. Come interpretarla?

Il presidente della repubblica nata dalla resistenza antifascista – di una repubblica che annovera come presidente della camera dei deputati uno che è stato delfino di Giorgio Almirante, sottosegretario della repubblica di Salò e, in tale vece, responsabile della fucilazione di partigiani – ha deciso di porre il sigillo su una delle vicende più emblematiche e significative della storia di questo lungo secondo dopoguerra italiano. Invitando Licia Rognini e Gemma Capra al Quirinale, in occasione della giornata in memoria delle vittime del terrorismo, ha inteso sancire la ‘pacificazione’ non tanto tra due vedove, quanto tra due eventi ricollegabili ad un unico tragico fatto, la strage di piazza fontana del 12 dicembre 1969. Ma ‘pacificazione’ di che?
Il commissario Calabresi, assassinato nel 1972 e la cui morte è ancora avvolta nel mistero, nonostante i contorcimenti giudiziari ed investigativi che hanno voluto trovare in Sofri, Pietrostefani e Bompressi, dirigenti di Lotta Continua, i responsabili, è stato più volte omaggiato in un crescendo di iniziative governative e clericali – dai busti alle lapidi, dai francobolli alla proposta di beatificazione e alla fiction televisiva – quasi che gli uomini dello Stato si siano voluti far perdonare il sostanziale isolamento del loro funzionario a fronte di una campagna politica che aveva individuato in lui l’elemento su cui fare pressione per fare sì che verità sia sull’omicidio di Pinelli sia sulla strage di piazza Fontana venissero finalmente fuori. Affermare che Calabresi fosse il responsabile della morte di Pino voleva dire costringere almeno uno tra i poliziotti e carabinieri, presenti in quella stanza di via Fatebenefratelli, il più significativo, a risponderne sul piano giudiziario e conseguentemente politico.
Poi con il tempo la personalizzazione ha avuto il sopravvento, e questo è valso sia per gli uomini dello Stato sia per chi continuava a lottare per inchiodarli nella loro responsabilità. Ha fatto comodo a molti, dal questore Guida ad Allegra, dal tenente Lograno ai brigadieri Panessa, Caracuta, Mainardi e Mucilli, nascondere le proprie responsabilità dietro il commissario, come ha fatto comodo a molti politici e ministri.
Ma il continuo ed interessato omaggio alla memoria di un corresponsabile della morte di Pinelli non è riuscito ad occultare la realtà di un omicidio infame: il ricordo di quella notte tra il 15 e 16 dicembre 1969 è rimasta viva nella memoria di molti, anno dopo anno, nonostante sentenze ipocrite e strumentali come quelle del giudice D’Ambrosio, vicino al PCI, che ha dovuto inventarsi un incredibile e fantasmagorico ‘malore attivo’ per trovare una via d’uscita ad un processo che non poteva avvallare un inesistente suicidio né tanto meno accusare la polizia e gli uomini dello Stato di omicidio. Il ‘compromesso storico’ tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, a salvaguardia dell’ordine capitalistico contro i movimenti di opposizione, non doveva trovare intralci: la strage di piazza Fontana, l’omicidio di Pinelli, dovevano essere depotenziati; lo Stato doveva essere assolto, doveva essere eliminato ogni possibile collegamento tra la strage con il suo corollario di tentativo di colpo di stato e la reazione successiva sia di chi imboccò la lotta armata, sia di chi rimase sul terreno della lotta autogestita ed autorganizzata: l’opposizione extraistituzionale non doveva avere alcuna forma di riconoscimento.
E se per piazza Fontana, la madre di tutte le stragi di questo paese violentato, un timido, parziale, riconoscimento di responsabilità di parti dell’apparato statale, con fascisti e servizi segreti americani c’è stato – pur nel silenzio di una stampa sempre più asservita – per l’assassinio di Pinelli occorreva fare qualcosa.
Ci voleva Napolitano, già militante eminente del Partito Comunista, già ministro dell’interno nel governo ombra del PCI e poi ministro dell’interno nel governo Prodi, uomo sicuramente a conoscenza di tanti sedicenti misteri della storia italiana, a porre rimedio.
Già era stato a Budapest ad inchinarsi sulla tomba di Imre Nagy, ammazzato dai sovietici a ridosso della rivolta operaia d’Ungheria del 1956, quella rivolta insultata e stigmatizzata dall’apparato del PCI, cui Napolitano faceva parte: senso di colpa o opportunismo politico?
Ora è la volta di Pino Pinelli, di cui “va riaffermata e onorata la linearità sottraendola alla rimozione e all’oblio” perché Pinelli “fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa assurda fine”. E si commuove il presidente anche se “non si riapre o si rimette in questione un processo (quello di D’Ambrosio, nda), qui si compie un gesto politico e istituzionale”.
Come per Nagy: senso di colpa o opportunismo politico?
Perché commuoversi se non si hanno avute responsabilità, di qualsiasi tipo e forma?
È lo Stato, nella persona del suo Presidente, che si commuove di fronte ad un suo omicidio, ad un omicidio di Stato? O la persona Napolitano che si commuove per le responsabilità che ha avuto il Partito Comunista nella costruzione opportunista di una verità che si è preteso storica? Ci piacerebbe saperlo.

Roma, Palazzo del Quirinale, maggio 2009. Ricevimento
dei familiari di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi,
da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Ma quale terrorismo?

Ma c’è un altro aspetto, non secondario, della vicenda sul quale occorre riflettere.
L’invito a Licia Pinelli è avvenuto nell’ambito della Giornata della Memoria per le vittime del terrorismo. Dando per acquisito l’uso del termine ‘terrorismo’ come sinonimo di violenza, anche se mirata, contro le persone, si tratterebbe di capire di che tipo di terrorismo sia rimasto vittima Pinelli, dato che era in totale balia di poliziotti e carabinieri. Considerata la situazione, l’unico terrorismo che ci pare plausibile è quello dei suoi carcerieri (il fermo di Pino era illegale, oltre i tempi consentiti dalla legge stessa), diventati poi torturatori e carnefici. Terrorismo di Stato, in buona sostanza.

Il ‘Corriere della Sera’ del 9 maggio dedica un’intera pagina alle 379 vittime del terrorismo. Se ne spulciamo l’elenco alcuni nomi danno da pensare: Giorgiana Masi, ad esempio, assassinata da un proiettile sparato dalle forze di polizia, il 12 maggio 1977 a Roma, di che terrorismo è stata vittima?
E di cosa sono stati vittime i non contemplati 254 assassinati dalle forze dell’ordine dal giugno 1974 al giugno 1989, in seguito all’applicazione della famigerata Legge Reale che dilatava praticamente all’infinito l’uso della violenza armata da parte di polizia, carabinieri, ecc.?
Di fatto, e dobbiamo riconoscerlo, con la convocazione al Quirinale di Licia Pinelli, la tragica morte di Pino è ritornata in piena luce con aspetti, se si vuole anche sorprendenti; come definire altrimenti il servizio del TG1 che ha trasmesso un filmato dell’epoca in cui si ricostruiva il violento interrogatorio cui Pinelli sarebbe stato sottoposto e addirittura la sua defenestrazione ad opera dei poliziotti presenti? Evidentemente la consapevolezza di quello che è realmente accaduto in quella stanza del quarto piano è molto più diffusa di quanto si pensi, talmente diffusa da avere bisogno di un riconoscimento istituzionale, che pur muovendosi sul terreno dell’ambiguo e del non detto, assume sostanzialmente la responsabilità, almeno oggettiva, della sua morte.
La Presidenza della Repubblica dice di voler “chiudere un’epoca di contrapposizione”, “dare un segnale di pacificazione”, in realtà vuole chiudere tutta una storia in un baule e gettarlo via insieme alla chiave.
In un paese che non ha fatto ancora i conti con i suoi misfatti dell’epoca coloniale in Africa, con i criminali bombardamenti di Barcellona, con i massacri nei territori occupati in Grecia e Jugoslavia; in un paese che non ha mai fatto realmente i conti con il fascismo – la cui logica gerarchica continua a riproporsi senza soluzione di continuità, nelle forme nuove della ‘democratura’– possiamo realmente pensare che le istituzioni, qualunque esse siano, abbiano interesse alla verità storica, ad una memoria condivisa? Ma se è vero che la Storia – quella ufficiale – la scrivono i vincitori, noi continueremo a non considerarci mai vinti.

Massimo Varengo