A diciassette anni dalla strage di Capaci, prendiamo spunto da quel drammatico evento per riflettere su quello che accadde allora e su tutto ciò che sta accadendo oggi in Italia. Nel 1992 Giovanni Falcone divenne vittima sacrificale dagli apparati dello Stato che proprio in quegli anni si preparavano a ridefinire gli assetti di potere sconvolti di lì a poco dal terremoto politico di Tangentopoli e dalla caduta dei maggiori partiti di governo. Isolato e osteggiato dalle istituzioni che egli stesso rappresentava, così come tutti i funzionari, i magistrati o gli investigatori che negli anni sono stati ammazzati da Cosa Nostra (stessa sorte toccò a Borsellino pochi mesi dopo), Falcone divenne l’“eroe borghese” usato come scudo da tutti quelli per i quali egli rappresentava la “cattiva coscienza”, gli stessi che dopo la sua morte diedero vita al Movimento antimafia nel nome della legalità, della difesa delle istituzioni, dello Stato e dell’ordine costituito.
Nessuno ha mai posto l’accento su quella che, invece, è una realtà molto semplice: la mafia non è l’“antistato”, né un potere occulto o parallelo. Al contrario, le mafie sono strutture assolutamente compenetrate e assimilate al sistema di potere dominante. Se non ci fosse lo Stato non ci sarebbero neanche le mafie. E a dimostrazione di ciò si potrebbe fare un elenco infinito di politici, burocrati, funzionari che – in Sicilia e non solo – hanno avuto o hanno ancora rapporti organici con Cosa Nostra e le varie mafie. Non è un caso che lo stesso Falcone ebbe a dire, una volta, che i magistrati la mafia li ammazza prima dentro i palazzi del potere e poi fuori.
Negli ultimi anni, la retorica e l’esaltazione dello Stato, della legalità e delle forze di polizia come unico e solo antidoto al potere mafioso hanno spianato la strada a una concezione blindata della società in cui non c’è via di scampo: o stai dalla parte dello Stato e delle sue leggi, o sei un criminale. In questo modo, anche il dissenso e l’opposizione sociale sono entrate più facilmente nel mirino della repressione: se la legge dello Stato ha sempre ragione e se tutto ciò che non rientra nella legalità è di per se criminale, allora non c’è spazio per chi si oppone alle leggi sbagliate e alle tante ingiustizie che affliggono la nostra società. Il culto acritico della legalità in quanto tale ha dato, negli anni, i suoi frutti avvelenati: i centri di internamento per immigrati “irregolari”, le leggi sulla flessibilità che hanno precarizzato e disintegrato il lavoro, le leggi sulla sicurezza che hanno militarizzato le nostre vite restringendo pesantemente tutti gli spazi di libertà ed espressione. Fare antimafia non significa appiattirsi sulle leggi o sulle istituzioni.
La lotta alla mafia è, prima di tutto, lotta alle ingiustizie sociali perche la mafia prospera sul bisogno delle persone: è lotta per i diritti e la redistribuzione delle risorse. Lottare contro le mafie significa rifiutare la logica della delega senza cedere ai ricatti dei politici che chiedono i voti in cambio di promesse che non manterranno mai. Le mafie si combattono alzando la testa contro i quotidiani soprusi di tutti quelli che comandano: padroni, mafiosi, politici. Le mafie si combattono con la solidarietà di classe, con l’azione diretta, con l’internazionalismo delle lotte. Se non si capisce questo, le cose non cambieranno mai.
Testo del volantino diffuso sabato 23 maggio dal Coordinamento Anarchico Palermitano in occasione di un presidio informativo contro la criminalità del potere.
Gruppo “Alfonso Failla” della Federazione Anarchica Italiana.