Tanto non arriva
Per tutta una serie di motivi (un intreccio complicato di storie di tempo e soldi che mancano e problemi familiari che pesano, o forse e più semplicemente perché è successo) mi sono perso del tutto l’attività di Egle Sommacal nelle sue collaborazioni più grosse ed importanti, quelle grazie alle quali si è saputo ritagliare un posto di un certo rispetto nei giri musicali e nelle pagine delle riviste specializzate. Egle per me insomma è “rimasto” il George Harrison defilato e sfuggente dei Detriti di una volta, poi c’è un buco nero fino al suo stupefacente cd di chitarra sola “Legno” di un paio di anni fa. Mi dispiace non avere mai ascoltato i Massimo Volume e gli Ulan Bator, ho la sensazione amara di essermi perso qualcosa. Peccato. Magari rimedierò, le occasioni non mancheranno.
Per dirvi dello “stile” di Egle potrei aiutarmi con un filmato: una cosa semplice, una telecamera fissa a raccontare al rallentatore il movimento del corpo e delle braccia mentre lui si avvicina alla chitarra e la afferra. Un gesto povero, banale, direte. Eppure in quella manciata breve di secondi c’è una storia fitta (un po’ come quella di Luciano Margorani, altro chitarrista di cui vi ho raccontato un paio di mesi fa, e di chissà quali e quanti altri): sono anni di ascolti e ricerche e viaggi, sono lavori in corso continui di scavi e curve nella memoria, fame mai spenta di ispirazione, curiosità che si trasforma in attrazione e poi in innamoramento sempre sul confine dell’ossessione, sono incontri reali oppure immaginati divenuti illuminazioni improvvise come lampi nella tempesta. Una parola come “autodidatta” comprime tutto questo in sole cinque sillabe da pronunciare in fretta, quasi fosse un errore o ben che vada un ripiego accettabile sì ma solo a denti stretti e sottovoce. Autodidatta a volte significa non avere un maestro a pagamento per un tot di ore al giorno, ma essere inseguiti ovunque da uno, due, dieci, cento spettri, anche fin dentro al sonno. Ricordatevelo, la prossima volta che assisterete al concerto del musicista di formazione solida ed ufficiale, medaglie al petto e curriculum chilometrico che nemmeno quelli dello staff degli assessorati leggono più, preparatissimo e ben pettinato ma “inspiegabilmente” comunicativo come un banco di surgelati al supermarket.
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Egle Sommacal |
Sin dal primo ascolto “Legno” (Unhip, 2007; segnalato su A334) risvegliava lo spirito del vecchio John Fahey, che sembrava abitare lì dentro con un sorriso compiaciuto, lo stuzzicadente all’angolo delle labbra a distorcerne la curva in un ghigno beffardo: un po’ fantasma infestante, un po’ santino con il lumino acceso sotto, un po’ post-it giallo con una nota scritta sopra in fretta sì ma importante e da non dimenticare. Egle ha evidentemente bevuto alla fonte di Fahey ma sa filtrare le suggestioni del grande vecchio attraverso una stupefacente capacità di invenzione: il bellunese/bolognese ha imparato l’arte, ma usa le sue dita e la sua testa, non quelle del maestro. Il bello di Egle, e la sua forza, sono il bilanciamento perfetto tra la premeditazione dei suoni e la spontaneità dell’esecuzione: il suo tocco sembra indeciso tra innovazione e tradizione, o per meglio dire in equilibrio precario tra originalità e citazione, ma lui esce sempre bene da queste passeggiate traballanti sulla corda tesa, a volte con un salto mortale verso il cielo.
Da “Tanto non arriva” (Unhip, 2009 – distr. Audioglobe) ci si poteva ragionevolmente aspettare una conferma, un già sentito confortante e rassicurante. E invece no. E’ altro, è tutt’altro. Intanto c’è qualcun altro e qualcos’altro qui dentro, tutta una diversa maniera di ragionare, di organizzare i suoni. Egle c’è, è chiaro, e c’è la sua chitarra elettrica subito riconoscibile, ogni tanto bacchetta magica e ogni tanto fucile, spaesata in ogni stanza e con quella sua voce d’ombra. Chitarra che sembra nascere da sotto l’orizzonte o da un punto imprecisato eppure saltella sempre lì in evidenza, come a giocare sui mille e mille grigi del crepuscolo. Però qui ci sono anche delle altre voci, voci diverse: un paio di sax, una tuba e un bombardino un po’ dappertutto, in un pezzo anche una tromba. Ancora, possono venire in mente Fahey e gli esperimenti di gruppo (chitarra più piccola orchestra di fiati) di metà anni Settanta come “Old fashioned love” e “Of rivers and religions”, ma le somiglianze sono pallide. Questo è proprio un altro posto, c’è odore di cose nuove non ancora sentite, ci si stupisce un po’ ogni volta che un pezzo finisce e ne ricomincia un altro che ha una sfumatura diversa. Ecco, mi è difficile raccontare dove siamo, per questo disco forse non ho abbastanza fantasia: per fare un paio di nomi di dita di riferimento potrebbe essere una versione meditativa e pensierosa del “Requiem per come-si-chiama” di Marc Ribot registrato sotto i portici a Bologna col batterista che ha perso l’aereo, o una foto informale di Fred Frith che suona il blues in cantina con i ragazzi di una banda di paese, scelti tra quelli più strani e introversi, quelli che alla scuola normale sono i più scontrosi e scelgono l’ultimo banco ma che in segreto soffiano nelle ance i loro sogni.
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Egle Sommacal |
Il vecchio John Fahey c’è sempre, sta un po’ sullo sfondo in un angolo seduto comodo barba lunga e sempre la stessa vecchia t-shirt a sorridere con un bicchiere di quello buono in mano, ma Egle non si lascia catturare da una foto né dai fantasmi, ché il suo viaggio prosegue. Vedremo dove si fermerà la prossima volta: certo, sarà ancora lontano, anche da qui. Chissà. Intanto godiamoci questi panorami, guardiamoci attorno: questo è un lavoro affascinante e ricco di emozioni, uno di quelli che non invecchiano o che comunque invecchieranno bene. Un lavoro carico di tristezza e disillusione, un blues che porta sulle spalle tutto il peso del mondo eppure così leggero e solare da sciogliere i muri che tengono lontana l’aria. Adesso smetto di raccontare per ritornare ad ascoltare.
Contatti: trovate Egle Sommacal da qualche parte su myspace.com; sul sito di Unhip www.unhiprecords.com potete scaricare gratuitamente qualche pezzo suo e/o tratto dai vari dischi e cd pubblicati dall’indie bolognese.
Marco
Pandin
stella_nera@tin.it
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“Duemila papaveri rossi”
2 cd con libretto
I due cd contengono 37 canzoni di Fabrizio de André
interpretate da musicisti e gruppi indipendenti.
Una iniziativa a sostegno di "A" delle Edizioni stella*nera.
Una copia 15 euro
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Paola Sabbatani e Roberto Bartoli
“Non posso riposare” cd+dvd
Un cd e un dvd, dodici canzoni da ascoltare e un documentario realizzato da
Mario Bartoli e Giangiacomo De Stefano (Va.C.A. Vari Cervelli Associati).
Una co-produzione Editrice Bruno Alpini, Aparte e stella*nera.
Una copia cd+dvd 15 euro
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