rivista anarchica
anno 39 n. 346
estate 2009


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Riprendiamoci l’urgenza

Qualche riflessione disorganica in margine ai rapporti fra canzone popolare e canzone pop.

Willy de Ville a Sanremo durante la conferenza stampa del Club Tenco mi apparve pallidissimo, spettrale, terreo… ancor peggiore sensazione mi avrebbe fatto poi sul palco: quella di un uomo al confine della notte, un uomo finito. Forse perché l’avevo visto qualche anno prima esibirsi in un grosso auditorium milanese in perfetta gaglioffa forma, divertito, divertente e clownesco. Lì mi sembrava agitatissimo e in stato confusionale. Cantò senza la sua consueta verve, senza quell’aria da simpatico profittatore. Alla conferenza stampa di qualche ora prima per la maggior parte del tempo aveva farfugliato, più che rispondere, qualcosa di poco comprensibile in relazione alla propria vita artistica e personale. In quella stessa occasione però alcune sue parole mi si sono stagliate in testa e mi fanno tornare spesso presente quel fumoso intervento.
Non so più quale fosse precisamente la domanda alla quale rispondeva, qualcosa che riguardasse i punti di riferimento del suo percorso musicale, i suoi miti, i dischi cui tornava più spesso – gli amici del Tenco, con la loro preziosa documentazione, potrebbero venirmi in soccorso, ma mi è cara anche la selezione operata dalla mia memoria – la risposta fu di commovente rigore. Snocciolò uno dopo l’altro i nomi di una serie di mostri sacri del blues arcaico, del blues delle origini quello del delta del Mississipi e del blues Texano. Potevano essere i nomi di Robert Johnson, di Big Bill Broonzy, di Cisco Houston, di Leadbelly, di Blind Lemmon Jefferson, di Bukka White… ma avrebbero potuto essere tanti altri, il calendario dei “santi” brutti sporchi e cattivi della cosmogonia musicale dei neri d’America dura senz’altro almeno un anno e la scelta di pochi nomi è sempre ardua.
Ma questo poco importa, più interessante era l’aria sciamanica con cui questi nomi venivano ripetuti: un rosario di suoni arcani, una giaculatoria sospesa fra la grazia, il rispetto, la devozione e il timor panico, un bengala nel buio, una preghiera cui aggrapparsi. E poi ancora Willy aggiunse che erano nomi di musicisti tutti morti, che di quella generazione sopravviveva solo un estremo rappresentante e che lui non osava pronunciarne il nome (B.B. King, forse?), spaventato all’idea di mettere un vivente – per quanto una leggenda vivente – fra tante altre leggende, vive solo nei loro dischi.
Un musicista, diventato lui stesso punto di riferimento per una giovanissima generazione, membro effettivo permanente di quell’eterogenea galleria di star sghembe che va da Tom Waits a Goran Bregovic, confessa una dedizione religiosa a un gruppetto di musicisti di strada cenciosi, quasi tutti morti in malo modo e in miseria, tutti vissuti in malo modo e in miseria. Il musicista partito decisamente dal Punk, il Lou Reed dei chicanos, aveva in testa fin dall’inizio della carriera, come modelli di riferimento dei marginali, trattati al loro tempo come relitti sociali, indesiderabili.

Senza alcuna ironia

Ecco il punto cui volevo arrivare: oggi immagino con molta difficoltà, al di là di certe roboanti dichiarazioni, i protagonisti del nostro Show Business snocciolare con altrettanta naturalezza i nomi di Giovanna Daffini, suo marito Vittorio Carpi, Teresa Viarengo, Peppino Marotto, Rosa Balistreri, ecc.
Cara grazia se ogni tanto – per merito di Capossela, De Gregori e pochi altri – il nome di Matteo Salvatore e qualche canzone di monda, si salvano dall’oblio. Cara grazia se la Taranta, la Pizzica, e quanto – sotto i più svariati nomi – attiene alla cultura popolare e alla terribile memoria di dolore e sfruttamento delle mie zone, la penisola salentina, la zona più a sud delle Puglie, è diventata universalmente nota come una sorta di “musica da discoteca” intellettuale, di House music acustica. Cara grazia, lo ripeto senza alcuna ironia, a me fa piacere, chi fa questa musica lo fa il più delle volte con cognizione di causa e vero amore della materia che tratta.
Quello che però disgraziatamente non è mai avvenuto e non sento avvenire nemmeno in questi tempi estremi, in cui l’interesse per la musica popolare sembra essersi risvegliato, è il passaggio di consegne di quel modo particolarissimo di intendere l’artigianato musicale (voglio definire così il mestiere di fare musica e cantarla fuori dai conservatori e dalle istituzioni classiche). È un quid che è di difficilissima definizione, ma che se dovessi finire per racchiudere in una parola sarebbe urgenza.
Ecco forse il maggior problema della nostra musica pop, nei suoi moduli espressivi c’è poca urgenza. Di una medesima urgenza invece brilla la musica popolare delle Ande, del Delta del Mississipi, della contea di Cork o della bassa mantovana. Urgenza nei canti di lavoro e nelle serenate per convincere una bella ad affacciarsi alla finestra, urgenza nella pizzica suonata per scacciare la maledizione, entrata con un fantomatico veleno, dal corpo di una raccoglitrice di tabacco e urgenza nel canto paraliturgico di una passione di Cristo in chiave tutta contadina (“povero cristo, quante tasse che hai da pagare”), urgenza nel lamento per la prostituta morta sotto le grinfie della polizia a Milano o del delinquentello condannato a una vita di galera.
Tutto il mondo è paese: questi stessi sono i temi cantati dalla milonga uruguayana, dal rebetiko degli spacciatori dei bassifondi d’Atene, dal cantastorie pavese. Identica poi è l’urgenza che rende indistinguibile il musicista dal suo pubblico. Musicista e pubblico nel mondo popolare sono nella stessa barca, spesso sono entrambi lavoratori che devono sacrificare ore di sonno o frammenti di salario per inventare, suonare o anche solo ascoltare, ricordare e ripetere musiche e parole. In queste condizioni ciò che non è necessario non sopravvive.

Io sono però convinto che...

Ma cos’è il necessario in musica? Come suona la necessità? Che voce ha l’urgenza?
È difficile dirlo, perché l’urgenza varia ogni volta, a volte si presenta con più d’un volto, contemporaneamente.
Io sono però convinto che se la musica angloamericane è divenuta totalmente egemone nel resto del mondo ciò è dovuto molto all’imponente macchina pubblicitaria che l’ha imposta, ma un bel po’ anche al rapporto virtuoso che ha intrattenuto con l’urgenza espressiva dei suoi archetipi popolari. L’amore della musica tradizionale e in particolare del blues è stata quasi una garanzia per i musicisti statunitensi e per quelli inglesi… è noto che i Pink Floyd derivassero il loro nome proprio dai due diversi nomi propri di bluesman (Pink Anderson e Floyd Council) particolarmente amati da Syd Barrett, e che le loro evoluzioni psichedeliche, quell’odore di progressive così evidente nell’intenzione di costruire dei dischi a tema, vere e proprie suite di musica intellettuale, abbia saputo tenere i piedi per terra, anzi immersi in certo limaccioso fango del delta del blues.

Ma è pure vero che se c’è un denominatore comune al caos sonoro, al rumorismo violento e sgraziato, alla rabbia vocale e proletaria del Punk rock – che è agli antipodi dalla concezione musicale aristocratica dei Pink Floyd – questo è ancora una volta il blues, e se per caso qualche Punk ha voluto esplorare altri terreni – Clash docet – se li andò a cercare nel Reggae, genere non meno marginale di un’altra generazione di dannati della terra, uomini urgenti.
Fu probabilmente l’urgenza anche a casa nostra che, rivestita da una certa grazia alla moda, rese così evidente la rivoluzione del “Volare… O… O…” di Modugno al Festival di Sanremo del 1958, e che contemporaneamente era già presente anche nei ritmi nuovissimi, eppure ancorati alla tradizione, di Carosone e a quei buffi tipi di gangster nelle canzoni di Buscaglione, che si beffavano garbatamente dell’Italia più che perbenista del tempo.
Più complesso è rintracciare le infinite vie per le quali quest’urgenza s’è persa e ritrovata nell’epoca d’oro della canzone d’autore in Italia. Enorme e controversa è stata la difficile integrazione fra il canto popolare e la (cosiddetta) canzone di protesta, o canzone esplicitamente e tematicamente sociale, che ebbe dopo i Cantacronache (1958-1964) uno sviluppo straordinario nella straordinaria storia del Nuovo Canzoniere Italiano, dell’Istituto Ernesto de Martino, delle etichette quali I Dischi del Sole e Zodiaco. È storia complessa, una storia d’amore con le sue generosità e le sue gelosie, ed è una storia cui torno spesso, anche perché in un certo qual modo mi ci sento coinvolto. Ma c’è stato e ci sarà ancora tempo e modo.
Il tema invece su cui s’interrogano queste righe è la mancanza del modulo espressivo dell’urgenza nel pop italiano. Il ruolo tutto sommato rassicurante cui – a parte poche eccezioni – approdano i rocker nostrani. Quel minimalismo dei sentimenti, quell’afflizione senza catarsi che sembra chiedere più carezze e barbiturici che rivolte (e non dico rivolte politiche, dico rivolte esistenziali). Il linguaggio del corpo – una volta provocatorio e liberatorio – ridotto a contorsione, a isteria.

Segno allarmante

Questo è un peccato nemmeno troppo originale, che non è solo del mainstream televisivo, dunque non possiamo imputarlo tutto ai dissennati consigli di qualche manager occhiuto. Non è l’attenta creazione ad uso del pubblico di un divo da consumare in fretta, che non faccia porre troppe domande. Se mai questo è potuto avvenire in passato, l’attuale crisi del mercato musicale e i pochi soldi che ci sono da fare coi dischi renderebbero oggi grottesco uno sforzo del genere.
Il fatto è che la stessa mancanza di urgenza che si sente per radio, la si può distinguere nei club in cui suonano i gruppi e i solisti della scena Rock Indipendente (e anche in qualche circolo dedito alla nuova musica d’autore).
Questo mi pare un segno particolarmente allarmante e vorrei essere smentito e magari insultato da qualcuno che senta e rivendichi l’urgenza di mandare a quel paese me e la mia sordità, che mi dica come quello che si sta muovendo nelle cantine di questo paese è invece la verità di una nuova onda sonora in grado di travolgere il mondo e di non sputare solo in faccia sé stesso.
Questo è l’accorato appello di chi non vorrebbe veder le vite spericolate trasformarsi in vite depresse. Senza nulla voler togliere a Vasco Rossi, che molto stimo sia come animale da palco sia come poeta della sua generazione, intendo in conclusione riprendere il titolo di una sua canzone diventato archetipico per molte generazioni a partire dalla mia (avevo 11 anni quando Vita spericolata fu cantata al festival di Sanremo dell’83).
Io suggerisco e quasi imploro di riprendere urgentemente in mano la canzone popolare come un talismano da usare ciascuno a suo modo – con le chitarre acustiche, le sequenze campionate, i bonghi o i theremin – perché nel presente e nel futuro della canzone italiana vi sia magari un po’ meno di spericolatezza ma un po’ più di vita.

Alessio Lega
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