rivista anarchica
anno 39 n. 347
ottobre 2009


politica

La dipartita del socialismo
di Andrea Papi

Fare i conti con la fine del socialismo deve significare per gli anarchici affrontare tutta una serie di miti e di illusioni, sulla base dell’esperienza storica.

Se avesse ancora senso il vecchio detto “socialismo o barbarie”, riferimento di qualche decennio fa per la sinistra nel suo complesso, oggi non potremmo che dire “barbarie e solo barbarie”, perché il “socialismo” è deceduto. Lo è da un pezzo, almeno dal 1989 con la simbolica caduta del muro di Berlino, ma la sua definitiva ed effettiva dipartita dovrebbe esser risultata finalmente chiara con la più che nettissima sconfitta alle ultime elezioni europee del giugno scorso e col fallimento, che dico la disfatta totale, della manifestazione anti/G8 a L’Aquila ad inizio luglio. L’uno, quello elettorale, riguarda la componente istituzionale, residuo bellico contemporaneo del fu socialismo riformista, che nelle intenzioni avrebbe dovuto erodere lo stato borghese dall’interno fino a trasformarlo in uno stato socialista. L’altro, oggi definito eufemisticamente radicale, men che residuo bellico del rivoluzionarismo fine ottocento/prima metà del novecento, che nelle intenzioni avrebbe dovuto abbattere il capitalismo a furor di popolo e instaurare di forza lo stato socialista.
Mi rendo conto che parlarne ora può apparire obsoleto, se non addirittura scontato, perlomeno se si guarda la cosa dal punto di vista della notizia. Nonostante sia trascorso solo qualche mese, a livello della percezione istintuale può infatti apparire che la distanza di tempo sia molto maggiore, perché ormai l’assetto geo/politico/sociologico vigente dà l’idea di aver espulso completamente il corpo delle tematiche di cui sto parlando. Dentro il sentire collettivo è già acqua passata e l’emergenza della crisi che stiamo vivendo sembra indicarci che bisogna guardare a ben altro, ai problemi non eludibili del quotidiano che incombe. Ma paradossalmente proprio questa condizione critica generalizzata mi suggerisce che invece ha senso parlarne, perché il fatto di calarsi solo nel presente, costretti ad escludere dalle nostre coscienze la proiezione di un futuro diverso, è indissolubilmente legato a quella che ho definito “la dipartita del socialismo”.
Già la disfatta della manifestazione a L’Aquila, ammessa dagli stessi organizzatori, neppure a suo tempo fece notizia. Poche parole nei tg e poche righe sui quotidiani il giorno dopo. Non ci sono stati scontri (e come potevano con la sovrabbondanza di poliziotti che c’era?) e quindi non interessava. Ma il problema vero è che le motivazioni di quella manifestazione interessavano ancora meno. Sul piano della trasmissione dei contenuti erano nulla. C’è qualcosa di realistico in tutto ciò, che va guardato con disincanto e deve indurre a riflettere. In fondo quei manifestanti riproponevano la stessa manfrina trita e ritrita di dieci anni prima a Seattle, quando prese avvio la contestazione al globalismo liberista. Solo che allora era una novità dirompente, che da allora non ha trovato il modo d’innovarsi, per cui non ha neanche avuto bisogno di essere sconfitta; anno dopo anno in questo decennio ha autogestito il proprio veloce afflosciamento. Ma ciò che m’interessa veramente mettere in evidenza è che questo afflosciamento c’è stato perché in qualche e varia maniera anche quella contestazione è legata all’”universo” socialista, che come ho sottolineato è dipartito.
Parlarne serve, perché ho la netta impressione che si parli di crisi della sinistra, quando se ne parla, avendo presente soltanto il quadro delle continue ultime sconfitte elettorali, per cui si dice che la sinistra è in grande sofferenza semplicemente perché sta sparendo dai parlamenti o, quando riesce a rimanervi, si sta via via progressivamente riducendo un’elezione dopo l’altra. Il problema vero in realtà è ben altro e sta a monte della diminuzione di visibilità mediatica di cui soffre sempre di più. Ed è che a livello dell’immaginario collettivo non rappresenta più da un pezzo il mitico “Sol dell’avvenire”. La crisi in cui versano la sinistra nel suo complesso e il socialismo come faro di luce utopico non è contingente, legata cioè a una fase per cui avrebbe solo bisogno di un riassestamento, bensì è una crisi di senso del suo stesso esistere.

La questione sociale

La visione del mondo storicizzata che la distingue non solo non rappresenta più l’agognato sole di un avvenire radioso, ma neppure un’alternativa possibile al presente, ma neppure qualcosa che in qualche modo possa essere desiderabile per le masse che soffrono. A voler essere ottimisti, al massimo viene identificata come schieramento politico, che per convenzione continua ad esser definito di sinistra, che nella scacchiera del sistema politico dominante si contrappone ad un altro schieramento politico che, sempre per convenzione, continua ad esser definito di destra. Ma è sempre più confuso e sempre meno distinguibile che cosa differenzia veramente l’uno dall’altro, se non le dichiarazioni dei rispettivi leader di volta in volta sbandierate dalla diffusione mediatica, ormai quasi per nulla connotative. La sinistra recepita dall’immaginario collettivo oggi è esclusivamente un pezzo del sistema vigente, generatore a sua volta di continui problemi di difficile soluzione, da cui bisogna difendersi o farsi proteggere.
Non a caso sto usando “sinistra” e “socialismo” indifferentemente, come fossero una cosa sola. Sto infatti parlando non a livello analitico, ma della percezione collettiva che se ne ha e, rispetto a questa, l’una e l’altro sono indissolubilmente legati. La sinistra storicamente sorge fin dalla rivoluzione francese per porre la “questione sociale”, da cui il termine socialismo, come prioritaria rispetto a qualsiasi altra e s’identifica in un controllo sia dell’economia sia della gestione politica da parte dell’intera collettività, ripudiando la concorrenza e l’individualismo economici e i controlli politici di decisione monocratica; tutto ciò che riguardava l’insieme sociale doveva dipendere da esso nelle forme che riusciva a produrre. Per cui sinistra e socialismo in senso lato si appartengono e vivono da sempre un percorso simbiotico e interdipendente.
Naturalmente in seno a questa interdipendenza sono sorte una molteplicità di scuole e di visioni spesso anche contrapposte e in guerra feroce fra di loro. Ma quello che qui interessa è che nella percezione collettiva si sono imposti alcuni caratteri distintivi che, in varie maniere, continuano tuttora ad identificarla. È stata la componente autoritaria, sostenitrice della conquista del potere statale e dell’uso di strutture gerarchiche per governare la società, ad aver conquistato l’egemonia culturale ed esser riuscita ad emarginare la componente libertaria, sostenitrice al contrario di una gestione diretta dal basso di tutto ciò che riguarda l’insieme sociale. Così il socialismo percepito nell’uso comune è quel movimento che, pur con una serie di scuole diverse all’interno, propugna lo stato operaio e un’economia collettivizzata gestita da un’oligarchia proletaria, organizza il partito degli operai e sostiene il sindacato di classe. Comunque si occupa prioritariamente dei problemi del proletariato perché lo considera il centro attorno a cui ruota tutta la società.
È questa la visione di riferimento ed è questa che ha fallito, soprattutto a causa delle realizzazioni messe in campo, sia dove ha preso il potere con la violenza rivoluzionaria sia dove si è mosso sul piano delle riforme interne allo stato borghese. Il suo fallimento, totale e senza possibilità di soluzione, ha fatto sì che il mitico “sol dell’avvenire” su cui aveva costruito le sue glorie è oggi considerato, sottolineo giustamente, un’aberrazione che apre facilmente la strada al totalitarismo. Ma non si sono sgretolati solo i miti della presa del potere rivoluzionaria da una parte e della sua conquista riformista dall’altra. Anche il mito della funzionalità della gestione collettiva dell’economia contrapposta alla proprietà privata e, soprattutto, il mito della soluzione finale che, nell’illusione socialista, avrebbero dovuto regalare alla società la felicità collettiva.
Purtroppo in questo sgretolamento di miti c’entra fino in fondo anche l’anarchismo che, seppur con ricette antitetiche a quelle autoritarie egemoniche, è ampiamente collegato a questa visione. Ha poca importanza che combattiamo da sempre la presa del potere politico perché giustamente riteniamo lo statalismo e le strutture autoritarie in genere nemici della vera emancipazione. Dai tempi di Bakunin però parliamo di abbattimento dello stato e del potere centralizzato, invece del suo possesso, propugnando l’assenza totale di ogni forma di potere e di dominio. Bellissima formula idealistica, troppo semplicistica e frequentemente vissuta in modo dogmatico, che, detta e pensata in modo così astratto, comincia a far acqua da tutte le parti.

L’importanza del post-strutturalismo

Ci siamo mai chiesti seriamente, fino in fondo, perché nei momenti più importanti della nostra storia non siamo mai riusciti veramente a fare completamente a meno di forme di potere, come auspica quella formula di riferimento imprescindibile, arrivando perfino a partecipare al governo nella Spagna del ’36? Di risposte giustificative ce ne siamo date tante, ma nessuna riesce a spiegare fino in fondo il senso profondo del perché. Non sarà perché quella formula, nei termini e nei significati in cui si propone, è stata pensata così perché non conoscevamo la natura profonda del potere? Come si può poter combattere ed abbattere un nemico quando non lo si conosce veramente? Se non risolviamo questa problematica, ammesso che ci riusciamo, non potrà che succedere che ogni volta che riusciremo a conquistarci la possibilità di misurare le nostre capacità nei fatti dovremo fare i conti col fantasma di un potere che non vorremmo, non visto ma presente.
Da questo punto di vista hanno molte ragioni coloro che si definiscono post-anarchici a suggerire che bisogna cominciare a tener nel debito conto le analisi dei pensatori post-strutturalisti. Bisogna diventare consapevoli, come sottolinea in particolare Foucault, che diventa impossibile combattere a fondo il potere se ci si limita ad identificarlo nelle strutture gerarchiche di comando/obbedienza, come fosse solo un’imposizione dall’alto e non una componente che definisce la stessa qualità delle relazioni sociali. La realtà è sempre più problematica e complessa delle formule che ci fabbrichiamo nell’illusione di definire una coerenza a priori. Se vogliamo veramente combattere il potere come senso della dominazione dell’uomo sull’uomo non possiamo perciò più limitarci a scontrarci con le strutture di comando, nel tentativo di abbatterle perché siamo convinti che così saremo liberi, continuando stancamente a riproporre i soliti obsoleti rituali stereotipati dello scontro col nemico. Questo ormai è solo infantilismo politico, se non addirittura cretinismo per dirla alla Berneri.
Del resto la logica dell’abbattimento delle strutture di comando, al posto della loro conquista, è una visione strategica derivata dal e perfettamente integrata nel finalismo della soluzione finale che contraddistingue tutta l’impostazione del socialismo. Fusi nel mito della rivoluzione, sempre più di là da venire, che prendendo autoritariamente o abbattendo libertariamente il potere e la sua istituzionalizzazione, lo stato, ci siamo immaginativamente estasiati nell’illusione della futura annunciata liberazione, quasi atto taumaturgico capace di eliminare d’incanto tutte le catene. Eppure ogni volta che c’è stata rivoluzione, momento finale tanto agognato, anche quando eravamo presenti, non solo non c’è stata libertà, ma si è sempre formata nuova oppressione. È ora di abbandonare la logica e l’aspirazione del momento finale perché non esiste.
Il socialismo, che ha forgiato l’immaginario collettivo di miti, parole d’ordine, dottrine e illusioni annegate nel sangue di chi si è sacrificato eroicamente, è morto e non ha più nulla da dire alle masse oppresse, che non a caso lo stanno abbandonando pur essendone le depositarie. Ora spetta anche a noi anarchici scrollarcelo di dosso e liberarci del suo fardello, ormai obsoleto e incapace di offrirci chiavi di lettura e possibilità di soluzioni. Dobbiamo senza dubbio tornare seriamente alla “questione sociale”, che a suo tempo lo ha generato, perché continua ad esser lì il nocciolo della possibile liberazione dall’ingiustizia e dall’oppressione. Ma lo dobbiamo fare in forma del tutto nuova, spurgati di tutte le mitologie, le astrazioni e le illusioni che fino ad ora ci hanno tenuti inchiodati nell’impotenza e in una marginalità ghettizzante.

Andrea Papi