rivista anarchica
anno 40 n. 350
febbraio 2010


scenari

La crisi mondiale
di Antonio Cardella

Immersi in un società comunque opulenta, tra ipermercati e cilindrate crescenti, noi occidentali fatichiamo ad avere coscienza delle crisi in atto.

 

Il fallimento del vertice di Copenhagen è paradigmatico del tunnel nel quale l’uomo contemporaneo, quello tecnologizzato e dal benessere diffuso, si è cacciato senza che riesca a intravederne la via d’uscita. Apparentemente, l’Occidente opulento ha tutto quello che può desiderare – salvo le parentesi rovinose delle sue crisi cicliche – ma al suo interno è corroso dalla progressiva espulsione di milioni di donne e di uomini dai cicli produttivi e di consumo e da conseguenti e crescenti dislivelli sociali che rendono precaria la vita delle comunità.
Tuttavia noi, che non patiamo i morsi di un’esistenza particolarmente difficile, continuiamo a coltivare i nostri orizzonti consolatori che ci rendono distratti e parzialmente impermeabili alla sofferenza che ci assedia. Abbiamo i super e gli ipermercati dove è possibile annegare le molte frustrazioni che ci affliggono, i viaggi esotici per le vacanze, le cilindrate crescenti per appagare le nostre vanità, e persino le parentesi caritatevoli che servono ad attenuare i nostri sensi di colpa.
Ma lo stato preagonico che attraversa la società borghese, dalla quale nel bene e nel male nessuno può onestamente chiamarsi fuori del tutto, ci impedisce di acquisire la piena consapevolezza di essere tagliati fuori da ogni possibilità di scelta, di essere emarginati rispetto ai luoghi e alle occasioni in cui si decidono i nostri modelli di sviluppo.
Senza averne piena coscienza, siamo vittime delle contraddizioni che le dinamiche del nostro modo di produrre ricchezza, assolutistico e autoreferenziale, ha determinato, con automatismi difficili da invertire senza provocare collassi planetari paradossalmente paragonabili a quelli che, in prospettiva, ci attendono se non riusciremo a fare qualcosa per evitarli.

Egoismo miope

Ebbene, queste contraddizioni attualmente incompensabili sono all’origine del fallimento del vertice di Copenaghen. A parte la politica di piccolo cabotaggio per ottenere qualche vantaggio contingente, tutti i protagonisti chiamati a trattare nella capitale danese sono consapevoli della gravità della situazione, sono tutti convinti che non si può più aggirare il problema, che la situazione dei paesi più poveri, se la si lascia incancrenire, si ritorcerà prima o poi (più prima che poi) su tutto quel mondo attualmente privilegiato il cui egoismo miope è all’origine del disastro.
E allora si cerca di correre ai ripari, per quel che si può naturalmente, sperando che in un futuro prossimo le incompatibilità tra la crescita e il degrado ambientale possano trovare soluzioni attualmente impensabili.
In questa prospettiva si apre una stagione nuova nei rapporti tra Cina ed USA, tanto che anche a Copenaghen si è sommessamente parlato di un direttorio sino-americano, che coinvolga i principali paesi responsabili dell’inquinamento ambientale,alla testa di un progetto di recupero virtuoso della sostenibilità dello sviluppo. Ma anche in questa direzione si affacciano ostacoli allo stato attuale difficilmente risolvibili.
Guardiamo la Cina. Da anni gli scienziati cinesi sono molto preoccupati per i danni economici e sociali che già si manifestano in gran parte del territorio.
La scarsità delle risorse idriche, dovuta alla diminuzione dell’acqua piovana, colpisce le fertili province del Nord, dove si prevede l’aggravarsi della situazione in un futuro prossimo per la siccità e le inondazioni. Nel Sud, l’innalzamento del livello del mare minaccia la regione del delta del fiume delle Perle, che scorre tra Hong Kong e Macao, centro nevralgico dell’economia cinese.
Nella parte orientale, fondamentali risorse idriche provenienti dal Fiume Giallo e dallo Yangtze si prevede si ridurranno significativamente a causa dello scioglimento dei ghiacciai del Quingai. Gli stessi scienziati cinesi avvertono che se la Cina non adotterà misure adeguate, nel 2050 le emissioni di gas serra raggiungeranno i 3,5 miliardi di tonnellate. D’altra parte, se si vorranno prendere provvedimenti che riducano significativamente tali emissioni, riducendole a 2,4 miliardi di tonnellate, il costo annuo dell‘operazione sarà di 438 miliardi di dollari per 20 anni, pari al 7,5% del Pil stimato nel 2030. Nello stesso studio, però, si sostiene che una riduzione efficace delle emissioni di CO2 da parte della Cina non sarà possibile perché il relativo know how prevedibilmente disponibile solo nel 2030 sarà troppo costoso per le disponibilità del paese.
Come la Cina cercherà di uscire da questa situazione annichilente è difficile da prevedere? Si parla dell’accesso ad un mercato internazionale delle tecnologie per la produzione di energia (soprattutto elettrica) da carbone pulito. Si parla anche di contatti discreti con i paesi del Golfo Persico per la fornitura di idrocarburi per compensare in parte la riduzione dell’utilizzazione del carbone sporco. Tutti provvedimenti di là da venire e di cui è difficile valutare l’efficacia.

Rivoluzione epocale

L’altro polo del direttorio, cioè gli USA, non è che abbiano prospettive molto più rassicuranti. Obama si è speso molto per accelerare l’immissione di energie pulite nel ciclo produttivo del paese, ma gli ostacoli che si oppongono a tali buone intenzioni sono ancora notevoli. Intanto, dal punto di vista tecnologico, molta strada bisogna ancora fare per risolvere adeguatamente i problemi connessi all’accumulazione ed al trasporto dell’energia eolica e solare. Poi vi sono le ragioni imprescindibili di non rallentare il ritmo produttivo della nazione che non è ancora uscita dalla crisi di sistema che ha travolto, direttamente o indirettamente, tutte le economie del pianeta.
Mettere adesso in essere un processo di riconversione dell’assetto produttivo significherebbe innescare un insostenibile rallentamento del tasso di crescita che avrebbe conseguenze esiziali non soltanto negli Stati Uniti.
Inoltre, a mettersi di traverso al piano energetico di Obama, ci sono le potentissime lobby petrolifere, che difficilmente si lasceranno marginalizzare, sostenute da ambienti politici (i repubblicani e parte degli stessi democratici) ed economici (ad esempio la Camera di Commercio, che può contare su 5 milioni di imprese).
Senza contare che un’inversione di tendenza, rappresentata dalla razionalizzazione del consumo di energia, significherebbe innescare una rivoluzione epocale nelle consuetudini di una popolazione, quella statunitense, adagiata da decenni sulla rassicurante convinzione che il suo sistema di vita sia il migliore possibile e non va cambiato per nessuna ragione al mondo. Certo anche in America si verificano segnali che denunciano l’insostenibilità del modello di sviluppo basato sul consumo di energia sporca.
I drammatici eventi climatici che hanno investito gli Stati che si affacciano sul Golfo del Messico (è ancora vivo il ricordo di New Orleans invasa dalle acque e investita da venti ciclonici) sono avvertimenti difficili da ignorare. Ma non sono ancora sufficienti ad innalzare il livello di guardia. Nell’immaginario collettivo anche questo momento di crisi del sistema si supererà. Anzi, secondo un recente rapporto della già citata Camera di Commercio, un innalzamento di 3°C della temperatura consentirà ad una parte del pianeta afflitta dal gelo di migliorare la propria condizione e di ridurre il numero di decessi per assideramento.
Come si vede, sono molte le ragioni del fallimento del vertice di Copenaghen e degli altri che lo seguiranno.
Tra difficoltà obiettive di coniugare sviluppo e salvaguardia dell’ambiente e scarsa consapevolezza dell’opinione pubblica mondiale, ci si avvita in un dibattito di parole alle quali è difficile far seguire fatti.

Antonio Cardella