rivista anarchica
anno 40 n. 350
febbraio 2010


ecologia

Il cielo sopra Copenaghen
di Adriano Paolella

L’incapacità dei governi di affrontare i mutamenti climatici si è palesata in tutta la sua pericolosità al recente incontro nella capitale danese.

 

L’“Accordo” ovvero l’arrestabile ascesa delle temperature

I contenuti dell’“Accordo di Copenaghen”, siglato il 19.12.09 dai rappresentanti di centinaia di nazioni, non sono vincolanti, non determinano gli impegni dei singoli governi e quindi non impongono l’immediata attuazione di strategie complessive condivise.
Gli abitanti di Tuvalu, isole del Pacifico che sostituiscono la quarta più piccola nazione del mondo con 26 kmq di superficie e 11.500 abitanti, sono molto arrabbiati: il previsto aumento del livello del mare coprirà integralmente i loro territori “non abbiamo nessun posto dove andare, nessuna montagna dover rifugiarci”.
Molte nazioni, ed in particolare quelle africane che maggiormente risentono degli effetti negativi dei cambiamenti climatici, sono insoddisfatte: “il tetto massimo di una crescita del riscaldamento globale di 2°C significherebbe un calo del 25% per i raccolti e la fame per il 44% della popolazione del Mali entro il 2020”.
Molte nazioni, quelle che nulla hanno fatto per il contenimento delle emissioni, e tra esse l’Italia, evidenziano nelle loro dichiarazioni tutti i limiti dei trattati internazionali sul clima e sono soddisfatte.
Ma sembra che ci sia da essere contenti perchè i rappresentanti dichiarano nell’Accordo: “Noi sottolineiamo che il cambiamento climatico è una delle più grandi sfide del nostro tempo”. Così dicendo ammettono che siano in atto dei cambiamenti climatici, che siano di origine antropica e che possano essere evitati modificando il modello produttivo. Se questo è un dato che qualunque comune mortale ha potuto constatare già da tempo, per i governi è stata una acquisizione recentissima. I governi ci hanno messo quasi trenta anni per ammettere l’esistenza di un fenomeno che da più di quaranta anni è stato individuato e con i cui effetti miliardi di persone si confrontano quotidianamente da un ventennio.
Ed è questo l’aspetto più deprecabile dell’incontro ma anche quello che mette in risalto l’effettiva strategia attuata dai governi di tutto il mondo: prendere tempo.

La conferenza di Copenhagen è il 15° incontro internazionale cui i rappresentanti della maggioranza degli stati del mondo si riunisce per coordinare strategie congiunte al fine di affrontare e ridurre i cambiamenti climatici e mitigarne gli effetti.
Queste conferenze, chiamate Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), si susseguono da anni ed il loro obiettivo attuale è strutturare un accordo internazionale che possa sostituirsi alla Convenzione di Kyoto. La convenzione, sebbene avviata negli anni novanta, è divenuta operativa solo nel 2004 al termine di un percorso lungo, articolato, stressante che ha reso possibile l’adesione della Russia e permesso così finalmente di raggiungere la quota 55% delle emissioni totali da parte delle nazioni aderenti (clausola questa inalienabile per l’attivazione).
La convenzione prevedeva che vi fosse una riduzione complessiva del 5% delle emissioni rispetto al 1990. Attualmente molti paesi firmatari della convenzione, e l’Italia è tra questi, hanno aumentato significativamente e non ridotto le emissioni. Ciò ha avviato una continua richiesta di proroghe, di adeguamenti, di modificazioni agli obiettivi che consentissero la possibilità di non rispettare quanto stabilito.
La Convenzione non ha raggiunto gli obiettivi che si era posta. Questa constatazione semplice e palese dovrebbe evidenziare l’incapacità complessiva degli stati nell’affrontare e risolvere il problema e stimolare l’individuazione di nuove forme di azione.
Ma invece non è così. Gli stessi stati che hanno impiegato venti anni per dichiarare che il problema climatico esiste, che hanno impiegato venti anni per rendere operativa la convenzione, che hanno impiegato venti anni per non rispettarla ora definiscono che il prossimo concreto, effettivo, irrinunciabile, unico possibile obiettivo è quello di non superare di 2°C la temperatura attuale.
Attraverso questa dichiarazione l’“Accordo” fa un passaggio culturale fondamentale, dando per scontata l’inevitabilità dell’aumento e l’impossibilità di intervenire su questo. Ciò è una ideologizzazione del dato, un dogma ed una normalizzazione di un fenomeno che al contrario è evitabile, insostenibile, tragico.

Il percorso infinito ovvero rendere normale l’impossibile

Gli scienziati hanno detto che i 2°C sono la soglia per evitare i più disastrosi impatti derivanti dai cambiamenti climatici, ma non hanno assolutamente detto che non vi siano impatti con l’aumento dei due gradi, tant’è che superati gli 1,5°C di aumento già molte isole saranno ricoperte dal mare e che fino a pochi anni fa il solo aumento di 0,5°C medio planetario era considerato una tragedia.
Non solo ma è già noto che questo obiettivo è irraggiungibile: alcuni scenari mostrano che le attuali politiche porteranno ad un aumento minimo di 3°C in brevissimo tempo ma si parla di 4-5°C (saranno sempre i soliti catastrofismi ambientalisti).
Ma per i governi questo non è un problema. Con il rilancio di nuovi obiettivi si è messo in moto di nuovo un mondo di confronti e discussioni, modelli e scenari, ricerche e progetti: si è in sintesi distratta l’attenzione, allungati i tempi, condotto il dibattito.
Nuovi obiettivi si susseguono a proroghe e insuccessi rincominciando ogni volta dall’inizio come se il passato e le responsabilità fossero connesse ai singoli leader e che questi non si susseguissero in una continuità di interessi e di comportamenti che è monolitica e inossidabile.
E così quando gli scienziati chiedono che il picco massimo delle emissioni si registri nel 2017; l’“Accordo” dichiara che il picco debba essere raggiunto “il più presto possibile”: ovvero non dice quando.
I governi nel loro susseguirsi all’interno dei tavoli internazionali hanno sempre attuato la medesima strategia: gestire il problema dei mutamenti climatici nell’ambito della normalità, traslare nel tempo le scelte, non evidenziarne la gravità, non prendere impegni cogenti, il tutto per conservare i meccanismi economici e sociali vigenti e consentire ad essi di adattarsi al cambiamento delle condizioni globali.

Del resto gli effetti dei riscaldamento e delle misure che si dovrebbero avviare possono scardinare gli attuali equilibri economici e militari del pianeta. Ad esempio la Cina, il maggiore emettitore di gas serra con 6,8 mld di t/anno, sostiene che, emettendo pro-capite molto meno di altri stati (Cina 5,5, Stati Uniti 21, UE 10,2, Russia 11,9 t/anno pro-capite), l’intervento di riduzione penalizzi ingiustamente la propria produzione. La Cina è la “fabbrica del mondo” e pensa agli enormi profitti derivati dall’avere messo a disposizione manodopera ed energia praticamente gratuiti; gli Stati Uniti e l’UE pensano a tutti i loro imprenditori che producono in quel paese a bassissimi costi e senza vincoli ambientali e sociali ottenendo così profitti impensabili in altro modo. Gli esiti sono che i cinesi lavorano in condizioni disumane, distruggono il loro ambiente ed alterano profondamente quello globale, danneggiano la loro salute, e che il mondo è pieno di immondizia cinese in forma di prodotti inutili, inutilizzabili, iniqui, tossici, inquinanti. Ma questo è l’interesse dei produttori, dei mercanti, e delle nazioni che li proteggono.
Al caso della Cina si possono aggiungere tanti casi quante nazioni esistono, ciascuna mossa da una propria motivazione più connessa all’apparato produttivo, al potere, alla vendita di risorse che al benessere della popolazione. Vi sono delle eccezioni di grande qualità ma è davvero impossibile ipotizzare che tale connivenza, tali comuni interessi possano condurre ad una soluzione.

La volontà di non di imporre comportamenti e scelte che andrebbero proprio contro gli interessi privati che i governi rappresentano risulta evidente come evidente appare il desiderio di trovare soluzioni all’interno dei meccanismi propri della società di mercato e della struttura produttiva energivora, consumistica, centralizzata esistente. E quindi in parallelo ai fallimenti politici si ipotizza e si persegue il commercio delle emissioni ovvero un sistema di mercato in cui le aziende possono acquisire il non emesso di altre aziende, vendere il proprio, recuperare con forestazioni o mantenimenti di foreste le proprie emissioni. Un sistema molto complesso, generato dal Protocollo di Kyoto, che indugia su tecnicismi contabili che alla fine consolidano quanto in essere, arricchiscono i potenti, fanno diventare risorse i beni comuni e li privatizzano espropriando le comunità locali. E quindi in parallelo sempre più frequentemente viene individuata nell’energia nucleare la soluzione per ottenere grandi quantità di energia che non emette CO2 e che potrebbe consentire la sopravvivenza dell’attuale modello produttivo.
Gli stati hanno un preciso interesse, quello di gestire il mutamento derivato dalle modificazioni climatiche come un processo “normale” che non abbia necessità di interventi straordinari e questo al fine di lasciare immutate le stesse caratteristiche del mercato e gli stessi interessi che li sostengono.
Le parole risolutive non vengono mai pronunciate: prima tra tutte ridurre. Ridurre i consumi, gli spostamenti delle merci e degli individui, ridurre la quantità delle merci, ma anche gestione diretta delle risorse, autonomia delle comunità, autoproduzione energetica, mercati locali, decentralizzazione della produzione. Tutte eresie queste, evocazioni di incubi in quanto risolverebbero i problemi ma disfarebbero il mercato globale.

Tempo scaduto ovvero pratichiamo un altro modello

Di tempo per cambiare ce n’è già stato in abbondanza ed è necessario misurarsi con il tempo e con l’irreversibilità delle situazioni. Non si può ipotizzare che da domani quanto non fatto fino ad oggi possa essere recuperato; non è possibile ipotizzare che questi almeno trenta anni di consapevolezza sui disastrosi effetti dei mutamenti climatici ed inattività dei governi non abbiano condotto già danni irreversibili; non è possibile ipotizzare che le persone che fino ad oggi si sono presi, e mantenuto saldamente, la delega per la risoluzioni dei problemi e che fino ad oggi nulla hanno fatto improvvisamente riescano a ideare e praticare soluzioni plausibili.
Ma se si volesse cercare di togliere la delega, di riprendersi il diritto di gestirsi il proprio futuro a livello locale assicurandosi condizioni globali che lo possano garantire è necessario che si avvii una pressione molto ma molto più significativa di quella fino ad oggi attuata.
È necessario che il tema dei mutamenti climatici sia alla base della critica sociale uscendo dalla condizione di nicchia in cui è stato relegato e divenendo tema fondamentale per la composizione della nostra futura esistenza.
Se si auspica l’autonomia delle comunità e degli individui, la possibilità di questi di scegliere il proprio destino, è necessario eliminare i rischi che fenomeni globali innescati da speculazioni destrutturino le condizioni dell’ambiente e rendano impossibile ogni modo di vita al di fuori di quello definito dal modello praticato.

Ogni artificializzazione dello spazio fisico dell’ambiente, del territorio, allontana le comunità dalle risorse e rende sempre più problematica la possibilità di una autonomia produttiva e sociale delle stesse. Ogni concentrazione produttiva, ogni forma di mercato globale riduce le relazioni tra gli individui, le capacità tecniche degli stessi, aumenta al contrario il peso economico, politico, culturale dei monopoli, i profitti, il potere delle minoranze.
E non vi è energia rinnovabile che possa sostenere questo modello produttivo, non vi è fotovoltaico, solare, eolico che possa produrre le quantità di energia richiesta dalla produzione di merci inutili. Non vi è energia rinnovabile che possa sostenere tale modello né per i costi, né per gli impatti ambientali che esso comporta, né per i caratteri tecnici di produzione, distribuzione e consumo.
Un mondo ad energia rinnovabile è un mondo a consumi limitati e ridotti connesso all’autoproduzione ed alla gestione diretta dell’energia da parte delle comunità; esattamente il contrario di quanto si sta ipotizzando delle nuova stagione delle centrali nucleari e delle piccole integrazioni dei campi di macro eolico.
L’attuale modello economico e sociale ha bisogno di questo tipo di energia: energia fossile, nucleare, la cui produzione sia concentrata, monopolizzata, quantitativamente eccedente. E tutto questo anche se inquina, danneggia la salute, aumenta il rischio di esistenza per milioni di persone.


I mutamenti climatici sono uno dei punti più evidenti dell’incongruità del modello economico industrializzato e globale; sono il fenomeno che manifesta la sua incapacità di abbandonare i meccanismi che lo hanno caratterizzato, di interessarsi direttamente del benessere delle persone piuttosto che delle merci attraverso cui raggiungere il benessere. I mutamenti climatici sono la dimostrazione che il mercato non risolve tutti i problemi, non risponde alle esigenze, non porta benessere.
Questa dimostrazione che è percepibile facilmente da tutti non ha portato quella reazione da parte degli abitanti del pianeta che i temi ed i rischi farebbero prevedere.
Un sonnolento silenzio critico che trova le sue origini nella profonda, seppur non dichiarata, condivisione da gran parte delle sinistre parlamentari o meno e dei sindacati del modello praticato; dalla condivisione che questa economia garantisca il benessere e che esso possa essere raggiunto attraverso la continua crescita del Pil, degli scambi, della produzione industriale. Tutte pietre tombali per il clima.
Questo è male ma è anche bene perché è evidente che se un cambiamento vi può e vi deve essere esso non può che avvenire in ottica antiautoritaria, decentralizzata, fuori dal mercato, autonoma, in sintesi libertaria.
Lo spazio per l’elaborazione di teorie e pratiche sostenibili è tutto raccolto in questo ambito.

Adriano Paolella