rivista anarchica
anno 40 n. 352
aprile 2010


dibattito sindacalismo di base

Sindacalismo non classista
di Andrea Papi

Il mondo è cambiato. Il sindacalismo (anche quello di base e alternativo) non abbastanza. Prosegue il dibattito.

 

Gli articoli sulla crisi del sindacalismo di base pubblicati nei numeri precedenti (1), rappresentano un tentativo molto stimolante per cercare di comprendere lo stato delle cose per un’opposizione radicale al sistema di potere.
Tutti e quattro gli articoli mostrano una consapevolezza forte e, pur sottolineando cose differenti, sono complementari tra loro e pienamente condivisibili nella denuncia che fanno dello stato d’impasse in cui versa il sindacalismo di base. Splendidamente lucida ed efficace la spietata analisi di Maria Matteo sull’involuzione burocratica delle dirigenze, che nelle aspettative avrebbero dovuto invece portare una decisa innovazione rivoluzionaria e libertaria. Serenamente disincantata e puntuale la denuncia di Barroero sull’incapacità strutturale dei sindacati di saper interpretare e accogliere le esigenze dei precari, dei migranti, dei clandestini, di tutte le attuali categorie non garantite del mondo del lavoro. Malinconica la constatazione di Scarinzi dello stato di rassegnazione dilagante.

Quando nacque il sindacalismo...

Ma pur condividendo le carenze e i fallimenti che questi tre compagni lamentano, mi sembra che il loro porsi rispetto al problema che affrontano sia insufficiente per farci capire cos’è successo e sta succedendo. Rimangono infatti all’interno di una visione “tradizionale” che considero ormai obsoleta e superata dai fatti. Bisogna avere il coraggio di andare oltre, di non proporre più in forma aggiornata alcuni paradigmi che hanno contraddistinto la cultura sindacale.
La crisi vera e profonda, che fa da sostrato generatore di quella denunciata dai compagni, è di senso. Non mi riferisco al sindacalismo in quanto tale. Non lo penso e non lo credo, perché sono convinto che essere e fare sindacato abbia molte più possibilità di quelle finora manifestatesi. Ciò che è in crisi irreversibile sono i modelli, ideologici e strutturali, che sottendono all’immaginario culturale che definisce il sindacalismo, consolidatosi in più di un secolo di pratiche e finalità continuamente riproponentesi, le quali hanno incrostato nelle menti una teleologia del fare che sembra divenuta ideologia inamovibile, quasi un assioma. In primis il continuo ritualizzato riferimento al classismo.
Barroero per esempio parla in modo esplicito di … esaltare l’appartenenza ad una stessa classe…, la Working Class come la definisce, ma aggiunge subito … sia pur dai connotati da ridefinire (2), dimostrando in fondo di rendersi conto delle molte incongruenze che comporterebbe. Maria Matteo per un attimo appare più disincantata: …il lessico stesso della lotta di classe assume un sapore desueto… (3). Mentre Scarinzi nota che tra i compagni c’è chi …tiene botta facendo rilevare le difficoltà ed i limiti dell’attuale conflitto tra le classi… (4). Ma tutti e tre rimangono abbarbicati a una visione della lotta di classe, seppur consapevoli che vada rivista e aggiornata perché i vecchi schemi non reggono più. Si ha l’impressione di un immaginario desueto che non riesce a ritrovarsi, che arranca alla ricerca di una chiave di lettura nuova all’interno di paradigmi interpretativi sorpassati dai fatti.
Non è solo un problema terminologico, ma di senso che i termini dovrebbero esprimere. Quando il sindacalismo prese forma e si strutturò alla fine dell’ottocento, pur nelle differenti scuole e nelle diversità strategiche che espresse, si riconosceva in una visione comune della composizione sociale e delle categorie di riferimento. La geografia era abbastanza semplice da definirsi. Da una parte il nemico, i padroni proprietari del capitale che sfruttano rubando (avendo ben presente il motto proudhoniano la proprietà è un furto). Dall’altra i lavoratori, gli operai, sfruttati e derubati dai padroni. Gli uni e gli altri venivano raggruppati in due classi sociali contrapposte, definite dalla struttura economica, in lotta permanente tra loro. Tutto il resto ruotava attorno a questo conflitto irrisolvibile perché si riteneva che il perno strutturale fosse la proprietà privata.
Il sindacalismo sorse per organizzare la classe operaia, in modo che si potesse difendere dal furto e dall’aggressione padronali continui, oltre a trovar i modi e i metodi più efficaci per reagire e non soccombere, per sostenersi vicendevolmente tra compagni di status in una ginnastica di solidarietà continua. Lo sciopero fu identificato come il mezzo, vera e propria arma di lotta, per combattere il padronato e ottenere miglioramenti di condizioni, sia di lavoro che di vita. Siccome il centro di tutto il contendere era il rapporto di produzione e il profitto che ne ricava il padrone, perché il moloc da abbattere era la proprietà dei mezzi di produzione di cui il proletariato era stato derubato, l’intento dello sciopero era il sabotaggio della produzione per impedire ai padroni di ricavare profitto, per danneggiarli nel cuore stesso dei loro interessi. L’ala sindacale rivoluzionaria di ispirazione sorelliana arrivò persino a concepire lo sciopero generale come il momento clou che avrebbe scatenato la rivoluzione e in questa illusione portò seco molte altre tendenze sindacal-rivoluzionarie, che per decenni agirono in funzione, appunto, di scatenare lo sciopero generale.
Su questa visione generale all’inizio del novecento si innestò e diventò egemone culturalmente “la lotta di classe” di tipo leninista, secondo cui lo scontro inestinguibile tra le due classi che definivano la struttura economica della società, la borghesia (il padronato capitalista) e il proletariato (l’insieme degli operai dell’industria) doveva esser condotto, attraverso le dirigenze sindacali e di partito, in modo tale che il proletariato avrebbe sconfitto con la violenza la borghesia e si sarebbe impadronito del potere dello stato per gestirlo attraverso la dirigenza del partito. Per i decenni successivi la lotta di classe è stata ed è tuttora questa. E non può che essere così, altrimenti non si capirebbe a cosa servirebbe ragionare in termini di una classe che si organizza in quanto tale. Se si mirasse non alla presa del potere, ma alla eliminazione della divisione in classi, per ritornare ad una visione della società non più divisa, ma compartecipe e solidale in grado di autogestirsi, non si agirebbe secondo logiche di classe, ma di solidarietà al di là e contro di esse.

Un nuovo sistema di poteri

Nel frattempo molte cose sono successe e molte cose sono cambiate. La lotta di classe che ha vinto ha generato mostri: una feroce dittatura, non della classe proletaria, che non è mai stata al potere, ma della burocrazia del partito unico, che si è annessa tutto l’immenso potere dello stato eliminando ogni libertà e generando immani sofferenze materiali ed esistenziali, fino all’insuccesso totale per implosione data l’impossibilità di permanere. In Cina si è consumata l’aberrazione più grande: il partito unico è rimasto al potere e continua ad esercitare la sua cruenta ed efferata dittatura, al contempo sposandosi al capitalismo sul piano economico, mentre avrebbe dovuto esserne l’alternativa, generando livelli di sfruttamento e oppressione equiparabili allo schiavismo.
A sua volta il sistema di potere economico si è amplificato mostrando la sua intima vera natura. Oggi è impossibile ridurlo all’ottocentesca rappresentazione semplificatrice del binomio classista padronato che sfrutta proletariato. Ciò che abbiamo di fronte e decide delle nostre vite è un vero e proprio sistema di poteri proteiforme, che non ruota affatto attorno agli interessi della proprietà privata. Il fulcro del potere si è trasferito dal possesso della proprietà del capitale all’accumulazione e speculazione finanziarie e il sistema industriale è diventato un’appendice del sistema finanziario. Da diversi decenni non siamo più dominati dal capitalismo dei capitalisti, con cui credeva di dover fare i conti il movimento operaio, bensì dalle oligarchie finanziarie, che sovrastano il sistema produttivo condizionandolo ai propri interessi.
Lo stesso sistema produttivo non è più identificabile col tipo di fabbrica ottocentesco gestito dal padrone. Come sostiene Gallino (5), siccome l’impresa industriale è stata totalmente finanziarizzata, l’industria è diventata essa stessa un settore della finanza, imponendo di conseguenza ai dirigenti industriali una nuova concezione dell’impresa e del tipo di produzione. Non è più un blocco organizzativo unico, com’era la classica fabbrica, in cui ogni parte era legata alle altre, ma un fascio di attività, sia produttive sia finanziarie, connesse tra loro da contrattazioni temporanee, monitorate di continuo in modo da verificare il rendimento finanziario di ognuna di esse. Se un pezzo non riesce a stare al passo con la concorrenza e non rende finanziariamente viene ristrutturato o venduto o chiuso, fottendosene bellamente se crea disoccupazione.
La finanziarizzazione dell’industria è pure strettamente legata alla esternalizzazione della produzione su scala globale, cioè al controllo da parte di un unico management di molti luoghi di produzione e moltissimi lavoratori sparsi per il mondo. Se prima l’intero ciclo di produzione si svolgeva all’interno dell’unico blocco organizzativo, oggi si tende ad appaltarlo il più possibile a centinaia di fornitori esterni. La gestione aziendale si è trasformata in coordinatrice per assemblare fino a prodotto finito i pezzi prodotti da diverse differenti ditte appaltate in diverse parti del globo. Questo crea dipendenza di tantissime medie e piccole imprese a pochi centri d’interesse oligarchico che, per speculare il più possibile impongono condizioni di lavoro sempre peggiori, oltre a trascinarle con sé in caso di tracollo, com’è avvenuto con l’ultima crisi, o a sbarazzarsi delle ditte appaltate sgradite, com’è cronaca quotidiana, lasciando sul lastrico migliaia di operai.
Se aggiungiamo che il progredire dell’efficienza tecnologica favorisce l’aumento della produzione a discapito di salari e retribuzioni, che invece tendono a diminuire soprattutto rispetto alla capacità di spesa, ci si rende conto che una situazione di questo tipo, diffusa globalmente, strutturale ed endemica, è all’origine della costante precarizzazione del lavoro e della insicurezza nel mantenerlo, oltre a favorire lavoro nero e conseguente schiavizzazione delle categorie più deboli ed esposte. Inoltre permette agli oligarchi speculazioni e accumuli finanziari stratosferici, mentre è micidiale e mortifera per i livelli di occupazione.
Di fronte a questo scenario, idilliaco solo per l’esigua minoranza che ne beneficia lautamente, ma devastante per miliardi di esseri umani spinti sempre di più verso stati di povertà e indigenza, diventa indispensabile comprendere quanto ormai siano inadeguati gli strumenti di resistenza e lotta tradizionali espressi dalla sindacalizzazione. In primis lo sciopero, che continua a risultare efficace per un numero di situazioni sempre più esiguo. Come può infatti preoccupare l’oligarchia l’astensione dal lavoro di operai, lontani dai posti di comando, se ha già deciso di chiudere il sito dove lavorano? Come si dice in gergo “non gliene può fregar di meno”.
Risulta inoltre del tutto inadeguata e deprivata di senso la categorizzazione in un’unica classe sfruttata, supposta in contrapposizione a un’idea di padronato che non esiste più. La working class è ormai solo un eufemismo. Più che una classe è un universo variegato e sfaccettato, composto di una miriade di categorie a volte in conflitto tra loro. Se è vero che una classe si definisce in base agli interessi e alle condizioni oggettivi determinati dai rapporti di produzione, trovo che sia molto difficile riuscire a farlo assemblando, in modo confuso e arbitrario, operai, precari, migranti, schiavi, irregolari e quant’altro si muove nella galassia di bistrattati che popola l’universo lavorativo. Se possono trovare momenti unificanti non è certamente in base ad oggettivi interessi comuni, come recita l’ormai sorpassata litania del tradizionale sindacalismo classista. Al contrario lo sarà in una logica che mira al superamento delle divisioni categoriali e di classe per riappropriarsi di una dimensione di autentica dignità di cui ha diritto ogni essere umano, agendo in funzione di un nuovo umanesimo libertario, capace di agire al di fuori di ogni pretesa supremazia di classe, come recita la “lotta di classe”, in una logica di superamento di ogni differenza classista.

Andrea Papi

Note

  1. Cosimo Scarinzi, Fuoco e fiamme, A 348 – Maria Matteo, Lavoro senza rete, A 349 – Cosimo Scarinzi, Sul ruolo del sindacalismo alternativo, A 350 – Guido Barroero, Precarietà e sindacato: un incontro difficile, A 350.
  2. A 350, pag. 26.
  3. A 349, pag. 8.
  4. A 349, pag. 8.
  5. Luciano Gallino, Crisi finanziaria e disoccupazione, in La Repubblica, mercoledì 10 febbraio 2010.