rivista anarchica
anno 40 n. 354
giugno 2010


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Il patchwork
della storia

 

1. Allorché Agamennone tornò dalla guerra di Troia, la consorte Clitemnestra aveva qualche problema a corrergli incontro festosa e giuliva. Aveva un amante di nome Egisto, con il quale decise che era meglio – molto meglio per tutti – togliere di mezzo più con le cattive che con le buone il prode marito. Detto e fatto. All’epoca, Oreste era un bambino. Più tardi, però, vendicherà il padre, ammazzando sia la mamma che l’Egisto. Roba da Odissea e tragedie greche varie.

2. Quirico è considerata versione plebea di Ciriaco, sta per il Signore con la S maiuscola, come qualcosa che gli appartiene.

3. Filopanti significa amore universale.

4. Giuseppe Barilli (1812-1894) fu un matematico italiano dai curiosi interessi e non privo di impegno civile. Tra il tanto d’altro, si occupò di fuochi fatui e di fusi orari. Propose una suddivisione ideale del pianeta in fusi corrispondenti ai 24 meridiani – un’ora diversa a ciascun fuso, con identità, però, dei minuti e dei secondi. Partecipò alla costituzione della Repubblica Romana, fu autore del decreto con cui, il 9 febbraio del 1849, venne dichiarato morto e sepolto il potere temporale dei Papi. Al momento opportuno, ovviamente, dovette darsela a gambe: si rifugiò prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, tornò in Italia dove il rifiuto di giurare fedeltà alla monarchia gli costò la cattedra e morì povero in canna. Non so quando e non so perché, ad un certo punto della sua vita, scelse uno pseudonimo: Quirico Filopanti – quello del viale di Bologna è lui, come quello della statua in una piazza di Budrio, come quello dell’asteroide 21687.

5. Emilio Colombo (1886-1966) fu un ferroviere iscritto all’Unione Sindacale Italiana – anarcosindacalista, ammira Francisco Ferrer e Georges Sorel, ha rapporti con Corridoni, i De Ambris, la Rygier –, poi un disoccupato perseguitato dal fascismo, poi un partigiano comunista – sarà capo della polizia nella breve avventura della Repubblica dell’Ossola – e infine un comunista scomodo – critico nei confronti della linea del partito, guardando un po’ a Stalin ed un po’ a Mao. Ad un dato punto della sua vita, più o meno nel 1943, si è scelto uno pseudonimo: Oreste Filopanti.
Oreste perché vendicatore – un Freud direbbe che a ciascuno può toccare la sua Clitemnestra: nel caso, la moglie che aveva abbandonato lui e i suoi figli – e Filopanti perché – come racconta a Cesare Bermani – “amico di tutti” e per ricordare chi l’aveva preceduto nella scelta dello pseudonimo, “vindice del diritto operaio” (come dice il lato destro del piedistallo su cui è eretta la sua statua).

6. Anche i nomi propri hanno una storia. Sono stati dati, o presi, in un contesto dove significavano qualcosa. Sono stati caricati di nuovi significati.

7. Con una certa superficialità si potrebbe affermare che la scienza si occupa del ripetibile, mentre la storia no – si occupa di cose o eventi ancorati ad un posto e ad un momento. Riflettendoci, tuttavia, ci si rende presto conto che la ripetibilità di un esperimento è comunque assunta di principio, perché le condizioni in cui l’esperimento si svolge sono comunque mutate. La fatica dello scienziato sta nel tener sotto controllo il variabile, mentre corre sempre il rischio di considerare ininfluente qualcosa che, invece, influisce eccome. Quel qualcosa che considero lo “stesso” di prima, insomma, è cambiato – che so, nello stato della sua composizione atomica –, ma, finché posso, considero insignificante quel cambiamento. Dipende da mie operazioni mentali – come dipende da mie operazioni mentali definire i miei articoli su questa rivista scritti sempre dalla stessa persona, anche se so benissimo, che, mutamenti biochimici alla mano, nel giro di tre-quattro mesi le cellule che mi costituiscono sono tutte diverse. Da questo punto di vista, allora, il mestiere dello storico non è poi tanto diverso da quello dello scienziato. Deve sanare differenze rispetto ad un paradigma precostituito e deve sanarle mantenendo il massimo di coerenza, ovvero senza ripassare sul già fatto contraddicendolo. Ogni tanto, può capitare di doverlo fare e, allora, si cambia il paradigma – preferendo la categorizzazione di “guerra imperialistica di Casa Savoia” a “guerra d’indipendenza” si può fare un esempio del genere, o, per tornare all’ambito della scienza rimanendo sul classico, il passaggio dal sistema tolemaico al sistema copernicano.
Chi scrive romanzi non è vincolato a questa metodica. I suoi personaggi possono volare o trovarsi in due posti contemporaneamente senza che l’autore perda i propri lettori. Diciamo che all’interno e all’esterno dei generi narrativi si sono istituiti patti più o meno impliciti con il lettore in virtù dei quali questi può concedere deroghe alle convenute sanature dei paradigmi invalsi. Chi ha la pretesa di scrivere romanzi che definisce “storici”, tuttavia, proprio perché li definisce tali, è chiamato a fornire sanature coerenti con il sapere acquisito e consolidato della comunità cui si rivolge – più o meno come chi fa lo storico volendosi tenere a debita distanza dal romanzo e mirando, invece, non a un’impossibile e autocontraddittoria “verità”, quanto, per l’appunto, a restituire una narrazione più coerente possibile degli eventi scelti. Il suo banco di prova è il linguaggio. È impossibile ricostruire perfettamente il contesto all’interno del quale le parole, pronunciate o scritte che siano, hanno assunto il loro specifico significato, ma, con pazienza, se ne può almeno dare un’idea. Quando in un libro – si prenda non a caso Una repubblica partigiana di Giorgio Bocca –, si trova scritto che “Terracini è un uomo attento e freddo che può sembrare, a volte, privo di nervi” e che “durante una riunione il commissario comunista Filopanti (…) lo zittisce bruscamente: ‘Stai zitto tu che sei fuori del partito’” e che “Terracini non replica”, detto libro può essere già richiuso con la coscienza in pace. Non si tratta di un libro storico. Oppure, si tratta di un libro storico politicamente infido. Non si tratta di “testimonianza”, non si tratta di documento riferito a fonti individuate e dichiarate, ma si tratta di ideologia surrettiziamente propinata al lettore: sotto forma di spicciola psicologia di comodo e di linguaggio – inventato, attribuito a tipologie di personaggi più che a persone. Ho scelto Bocca non a caso, ma ad un livello di compromissione politica ancora maggiore avrei potuto scegliere Pansa ed il suo Sangue dei vinti.

8. Con “Filopanti” anarchico, ferroviere, comunista, partigiano (Odradek, Roma 2010), Cesare Bermani ci offre una doppia storia esemplare: la storia esplicita di una vita e la storia implicita del modo di raccontarla. Utilizza soltanto materiali dichiarati e collocati con accuratezza filologica in un posto e in un momento: narrazioni orali registrate – del protagonista e di altre nove persone –, i casellari delle prefetture con le loro cartelle di polizia, rapporti delle formazioni partigiane, carteggi, memorie personali, verbali, giornali dell’epoca e brevi brani di libri altrui – per gli opportuni riscontri. E, armato di forbici e di logica argomentativa, costruisce il suo patchwork biografico: taglia un po’ qui e un po’ là, giustappone in sequenza, anticipa le domande del lettore e provvede, conferisce coerenza alla vita narrata servendosi solo di documenti – in pratica, senza aggiungerci una parola propria. Con questo espediente non solo riesce a infondere vitalità al racconto, ma – è questo l’aspetto politicamente ed eticamente più rilevante – a preservarne il linguaggio proprio. Come se, per una volta, la storia non ci fosse restituita nei termini di chi la scrive ma negli stessi termini in cui si è costituita – con le parole del suo tempo e non con quelle dei tempi successivi che, di principio, ne rappresentano una finzione.

Felice Accame

P.s.:
Una repubblica partigiana di Giorgio Bocca è stato pubblicato da Il Saggiatore, Milano 1964. Il brano “incriminato” è quello citato da Bermani e considerato da Filopanti medesimo “aneddoto inventato di sana pianta” (pag. 83).