rivista anarchica
anno 40 n. 354
giugno 2010


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Demetrio Stratos

la gioia e la rivoluzione di una ricerca

La voce che tace e ancora dice

Demetrio Stratos

Il 13 giugno 1979 Demetrio Stratos – cantante, compagno e ricercatore – muore a New York, dove era volato da Milano per tentare di curare una spaventosa forma di aplasia midollare (qualcosa di simile alla leucemia) che lo annientò in poche settimane. Aveva 34 anni.
Con la consueta flemma che ci caratterizza e un anno di ritardo, celebriamo anche qui sulle pagine della rivista anarchica, il trentesimo anniversario della sua scomparsa. In questi ultimi mesi è stato però bello vedere che, a tanti anni di distanza, la figura rigorosa di questo gigante della ricerca, di questo musicista dalla radicalità – personale, artistica e politica – così lontana dai canoni odierni, affascina in maniera trasversale nuove generazioni, lontane dai suoi sogni e dai suoi incubi.
In quest’anno si sono intensificate le uscite editoriali imperniate sulla sua figura (Consapevolezza di Luca Trambusti, Demetrio Stratos di Antonio Oleari, ecc.), le rievocazioni giornalistiche, come pure nell’ultimo decennio non erano mancate pubblicazioni, omaggi, premi alla memoria e soprattutto la riedizione integrale dei suoi dischi.
La perentorietà dell’immagine, del suono e del movimento, però ci restituisce, meglio di ogni altro mezzo, la presenza forte di quest’uomo, grande in tutti i sensi, in uno splendido documentario biografico – La voce Stratos di Luciano D’Onofrio e Monica Affatato – appena pubblicato in DVD da Feltrinelli. A questo ci vogliamo riferire, come alla migliore introduzione possibile, per affrontare il magma della sua opera, quel non trascurabile scaffale di una quindicina di CD occupati dalla sua voce-guida.

Cos’è la voce?

È irrefutabile che la voce di Stratos abbia qualcosa di strabiliante, di eversivo per i canoni della comunicazione orale cui siamo abituati. La sua voce, formatasi all’epoca delle bande beat, affrontava il canto in italiano inglobandone golosamente i suoni come qualcosa di magico: in effetti Demetrio – all’anagrafe Eustratios Demetriou – era nato da genitori greci ed era cresciuto parlando tutt’altre lingue che la nostra. L’elemento sillabico, puramente sonoro e ritmico, delle parole lo stupisce quanto il significato, l’italiano cantato da Stratos è una lingua in equilibrio fra suono e senso. La sua voce, dotata com’era per natura, di mezzi eccezionali di intonazione, dinamica, estensione, è una palestra di esperimenti, un parco in cui continuamente giocare. Ogni parola è un grappolo di fonemi interessanti, ogni canto d’uccelli un riferimento da imitare, nel brano Criptomelodie infantili pare sia arrivato a trarre ispirazione persino dai primi vagiti – la cosiddetta lallazione – della figlia neonata per riflettere sulle radici della voce umana.
“Che cos’è la voce?” è la domanda che continuamente pone Demetrio nella sua febbrile ricerca.
Non so se poi abbia mai trovato una risposta: in genere più si allarga il campo della ricerca e meno si trova, anche se si fa a tempo a vedere nuovi paesaggi sonori. Di certo la sua voce fu un mezzo straordinario per condurre a evento musicale la rabbia, frammentaria, disarticolata, ma lucida e giusta, della generazione che componeva il suo pubblico, il suo contraltare, la tribù a cui, come uno sciamano democratico, si rivolgeva.

Luglio, Agosto, Settembre (Nero)

Giocare col mondo facendolo a pezzi
bambini che il sole ha ridotto già vecchi.

Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’omertà.
Forse un dì sapremo quello che vuol dire
affogare nel sangue con l’umanità.

Gente colorata quasi tutta eguale
la mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.

Quando guardi il mondo senza aver problemi
cerca nelle cose l’essenzialità
non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’umanità.

Canzoni (canzoni?) come questa, incastonate com’erano di sonorità elettroniche e frammenti musicali etnici, con forme disarticolate senza strofe-ritornelli, hanno significato una traduzione assolutamente nuova dell’ipotesi di una musica militante. E di militanza il gruppo degli Area, in cui la voce di Stratos crebbe fino a diventare la sua stessa leggenda, ne fece tanta.

Il greco errante

Demetrio era un greco della diaspora ellenica, nato in quel crogiuolo di culture che è Alessandria d’Egitto, arrivato in Italia nel ’62 – in pieno boom economico – per frequentare architettura. La passione per la musica era nel suo DNA. Da piccolo aveva studiato fisarmonica al conservatorio, per cui suonava l’organo nei gruppi giovanili, una carriera iniziata per gioco e maturatasi nella scoperta della propria voce: come nelle migliori tradizioni, casualmente, si trovò davanti a un microfono la sera in cui il cantante del suo gruppo, per un incidente, non s’era potuto presentare sul palco. Divenne poi il cantante de “I ribelli”, la cui canzone più nota, Pugni chiusi, lo portò a frequentare qualche “Cantagiro” e qualche platea televisiva.
L’esperienza si sarebbe potuta concludere con il naturale sfaldarsi di gruppi come questo, dal respiro corto e dal successo stagionale, se Stratos nel frattempo non avesse iniziato il percorso di quella ricerca che avrebbe occupato il decennio che gli restava da vivere.
Una ricerca di rottura dei limiti, di forzatura espressiva, volta a mettere in comunicazione l’estrema interiorità con il totale esterno. Di questa ricerca che è innanzitutto mentale, la voce non è fine, ma strumento incorporeo per una riflessione fisica e metafisica.
Il percorso di questa ricerca ebbe il primo e il più brillante dei suoi esiti nel migliore gruppo che l’Italia abbia avuto, gli “Area”.

Attacco a suoi armati (di parola)

L’International Popular Group, gli “Area” appunto – così come erano stati battezzati dal loro geniale produttore nonché autore di testi, copertine, strategie comunicative e quant’altro, Gianni Sassi alias Frankenstein – furono bravissimi nel fare una musica che, pur piena di riferimenti com’era ai fermenti presenti nella cultura collettiva dell’epoca, risultasse una sintesi originale di jazz, pop, etnica e musica contemporanea d’avanguardia. I loro brani erano una progressione di eventi sonori in cui la voce interveniva creando i momenti più intensi. La scelta di inserire dei testi in questa musica, che nasceva con una vocazione chiaramente strumentale, per mezzo della vocalità di Stratos, che risolse l’equazione difficilissima di cantare parole comprensibili affianco a vocalizzi e melismi, è il miracolo che proiettò gli Area nella storia culturale e politica, per dirla con una parola, nel movimento di quegli anni.

Il mio mitra è il contrabbasso
che ti spara sulla faccia
che ti spara sulla faccia
ciò che penso della vita

con il suono delle dita
si combatte una battaglia
che ci porta sulle strade
della gente che sa amare.

Senza parole come queste e senza la celeberrima versione distorta, caotica, demistificante e al contempo epica dell’“Internazionale” (questa però solo strumentale), gli Area sarebbero certo stati il miglior gruppo di “parrucconi prog” del Belpaese: un gruppo di musicisti dalle trovate geniali, colti, ma un po’ pedanti. Con quella strana voce che s’involveva e si evolveva, biglietto d’andata e ritorno per portare significati rivoluzionari ai significanti musicali e rivoluzione linguistica sonora a slogan stantii, si stabilì appunto il canone della creatività musicale rivoluzionaria, un vortice di espressioni libertarie.
Nel pugno dei loro dischi e nelle centinaia di concerti dati fra il 1972 e il 1979 – 200 nel solo 1976 – gli Area hanno rappresentato una notevole evoluzione delle possibilità di espressione cui poteva puntare un musicista e hanno ribadito una sorta di crisma “sacro”: la coerenza fra i contenuti e il linguaggio che li veicola.
Il rigore musicale, lo studio approfondito, la dedizione che satura ogni frammento che ci proviene da quell’esperienza, è un’esplicita dimostrazione di quanto sia faticosa e intensa la pratica della libertà; anche se poi, come si lascia sfuggire oggi un emozionato Ares Tavolazzi (il bassista del gruppo), suonare con gli Area dava a tratti “l’impressione di volare”.
Sia anche ben chiaro che, a mio gusto personale, trovo piuttosto faticoso ascoltare per intero quei dischi e che sono affascinato da quel linguaggio, ma insomma… sentire Jacques Brel mi dà tutt’altro piacere, le Variazioni Goldberg di Bach mi continuano a sembrare un esperienza sonora più profonda e – per fare un paragone su un terreno più assimilabile e meno scorretto – anche i dischi di Frank Zappa mi paiono illuminati da un’ironia musicale che supera il tetragono quintetto di questi ragazzi (avevano fra i 20 e i 30 anni) un po’ troppo pieni di sé.
L’assoluta disponibilità a confrontarsi con la vitalità del movimento politico di quegli anni e l’assoluta indisponibilità a compiacere un qualsivoglia pubblico (anche quello dei compagni che andavano ad ascoltarli), furono i due perni del successo e al contempo dell’assenza, nella loro musica, di quel provincialismo che assassina il pop nostrano.
Gli Area furono ospiti fissi ai “Festival del proletariato giovanile” di Parco Lambro, suonarono in un’imprecisata quantità di fabbriche occupate e manifestazioni di piazza e furono persino invitati a esibirsi in un manicomio negli anni d’oro del movimento antipsichiatrico. Insomma furono una delle colonne sonore del loro tempo.

Allargare l’area della ricerca

Nel frattempo il gusto della ricerca individuale s’era innervato nella vita di Demetrio Stratos al punto che, pochi mesi prima di morire, decise di separare la sua strada da quella del gruppo. Stupito lui stesso delle possibilità della propria voce, aveva aperto un’esplorazione a tutto campo per cercare origini e finalità dello strumento fonatorio, interrogando tutte le forme tribali, i suoni più arcaici di pastori e monaci.
Il reciproco innamoramento con John Cage, delle cui opere vocali s’era fatto interprete favorito, l’aveva proiettato in una dimensione europea, se non proprio mondiale, continuando a trovare in Gianni Sassi uno sponsor, un ammiratore e uno stimolo inesausto. I dischi della sua carriera solista sono il diario di bordo di questa ricerca, appunti scientifici-sciamanici, dimostrazioni ed esplorazioni per il superamento dei propri limiti.
Gli ultimi anni della breve vita di Demetrio sono spesi in gran parte nel comunicare e condividere i risultati della sua ricerca: i suoi concerti sono una sorta di seminario dove tutti i passaggi sono esplicati con una passione quasi più emozionante che la performance stessa. A questi concerti dimostrativi si aggiungono i cicli di lezioni vere e proprie, a volte per ragazzi, a volte per studiosi di psicologia del profondo. Lo scopo è penetrare assieme i misteri di questa cosa che entra con un respiro ed esce come suono, che scende nei polmoni per farci vivere e conclude il suo percorso portando alle altrui orecchie i riflessi articolati della nostra stessa vita. La voce.
Ci sono oggi molte ricerche di artisti contemporanei che si rifanno a Stratos, il proliferare di saggi, studi, testimonianze su di lui, come dicevamo all’inizio, è il segno di un qualcosa che ha lasciato segnali e riferimenti utili.
Ciò che però non si trova più è la ragione di quel percorso: oggi ogni sperimentatore pare chiuso nella sua dimensione sprezzante.
Il concerto-funerale, tenutosi all’Arena Civica di Milano il 14 giugno del 1979, originariamente organizzato per raccogliere fondi e pagare le cure del gigante greco malato, che però si aggravò improvvisamente e morì il giorno prima, vide la partecipazione di sessantamila (si dice) spettatori e l’adesione di tutti i musicisti più o meno famosi dell’epoca, anche i più distanti dal percorso di Demetrio. Segno che in dieci anni la sua curiosità, il suo talento e la sua comunicatività avevano intessuto una rete davvero capillare, il che può stupire, se ci misura con gli ultimi dischi dello Stratos solista: dischi durissimi, di ricerca pura.
Eppure anche da queste opere, davvero specialistiche, emerge il carattere di un uomo che sperimenta per trovare nuove consapevolezze globali, che, se ha un orgoglio, è quello di individuare e abbattere barriere che tutti un giorno potranno infrangere, perché la gioia – questo l’ha imparato davanti alle masse coinvolte nei concerti con gli Area – è rivoluzionaria.
Ecco appunto cos’è la voce: gioia e rivoluzione.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it