rivista anarchica
anno 40 n. 355
estate 2010


comunicazione

Il tubo catodico è mio (e me lo gestisco io)
di Fulvio Abbate

Un libro(ne) del nostro collaboratore propone un uso alternativo della tv, sulla base dell’esperienza di Teledurruti.
Ne pubblichiamo i primi tre paragrafi.

Inizia subito a trasmettere

Questo libro, lo sapete già, è un manuale di sopravvivenza mediatica, quindi un libretto di volo, un kit di montaggio per realizzare la propria felicità poetica, altro che giornalismo. Destinato a chi, insomma, pretende una televisione tutta per sé. Autobiografica. Autosufficiente. Colma di fantasia. Felice. Invincibile. Sognandosi in questo modo finalmente libero, senza padroni. Regalare a se stessi una vera emittente, in tempi di orrore mediatico, povertà di idee, ma anche censura esplicita, dichiarata, ringhiosa, e non meno implicita nel suo cinismo, è, infatti, davvero il massimo della soddisfazione umana e addirittura sessuale, forse perfino politica. È un atto rivoluzionario. Miracoloso. Allo stesso modo di possedere un gattino azzurro. Quasi come, restando in argomento celeste, accadeva un tempo con la febbre del modellismo che portava certuni, sempre sognatori ammaliati da questo genere di hobby, a occupare il tavolo della cucina altrimenti appaltato a madri, fidanzate, mogli o finanche amanti, per costruire i più celebri e ammirati aerei da guerra. Caccia, bombardieri, ultraleggeri, veleggiatori, elicotteri da telefilm o perfino ricognitori a uso civile, fa lo stesso. Rimettendo così nuovamente in cima al soffitto del cielo lo “Spirit of Saint Louis” del trasvolatore Charles Lindbergh. O perfino il “Sopwith Camel”, il leggendario biplano britannico utilizzato perfino dal peanuts Snoopy, quando questo indossa il bomber d’avversario del “Barone rosso”. La metafora bellica, così come il riferimento ludico, onirico, nel nostro caso sono molto appropriati. In tempi di cosiddetto “monopolio dell’informazione”, così come di riduzione – replay – dei margini di fantasia, merito sia della mediocrità piccolo-borghese e regressiva della cultura di destra sia di una (fantasmatica?) sinistra ridotta a musica leggera per ceti medi, in tutto medi, in frangenti simili, custodire nel fondo del computer, perfino portatile, una televisione personale diventa quasi un gesto di amor proprio. Molto oltre il più meraviglioso degli atti onanistici. È il guscio di noceastronave che ti porta in salvo, ma è anche una necessaria dichiarazione di esistenza in vita. E di guerra. Alla noia, innanzitutto. Così come alla banalità e ai luoghi comuni cresciuti a ciuffi nelle immagini dell’intervallo un tempo accompagnato dal suono d’arpa, cose che altrimenti rischiano di sommergerti e annientarti fra gli applausi dei turisti della vita e dell’informazione, i tuoi stessi vicini, coloro che dovrebbero insorgere, dissotterrare i forconi e le fiaccole della rivolta, e invece applaudono in ginocchio. E poi, dimenticavo, serve a rispondere al conformismo sempre in agguato. E, scusate se mi dilungo, allo stesso abbrutimento quotidiano familiare e rionale. Vuoi un esempio?
C’è il compleanno dei nostri vicini, loro ci tengono ad averti, vieni, ti sbrighi? Andate intanto voi, che io ho da finire il filmato! Il tema? È presto detto, è davvero una “istantanea”: quanto mi sta odioso l’intero genere umano, posso? Per non parlare del vicinato, quindi nessuno escluso. È solo un esempio, forse neppure tanto estremo, ma dovrebbe rendere bene l’idea del valore d’uso immediato della televisione che questo manuale ti prospetta, ti porta fin dentro casa. Un po’ come al tempo delle emittenti “libere”, anni Settanta, quando un mare di ragazzi e ragazze, nonostante fossero segnati da un palese analfabetismo radiofonico, forse perfino esistenziale, zappe, capre, turisti della vita che conoscevano tutt’al più un brano di Neil Young, Harvest, e un fumetto, Le spiacevoli notti di Zio Tibia, ebbero modo di misurarsi con un microfono scassato, eppure miracoloso. Ma sì, volendo, anche la tua emittente monolocale potrà far germogliare la mostruosa cultura delle dediche, come già, appunto, in quel finire degli anni di insurrezione giovanile, mentre si sollevava in cielo la tigre, non meno televisiva, di Sandokan. Oh, sensazione stellare colma di cuori e calligrafie paffute: pronte a esplodere ovunque nei diari, come promessa d’amore, e perfino di motorino.
Da qualche tempo, grazie ai prodigi della rete, nel senso del web, cioè di internet, tutto questo paradiso liberatorio è finalmente possibile, e i costi sono davvero ridotti (quasi) a zero. E vuoi mettere la soddisfazione di fare un po’ come ti pare e piace? Pensandoci bene, almeno all’inizio, sarà sufficiente un computer dotato di webcam e un minimo, ma davvero un minimo, di fantasia, se poi il gioco, la cosa, il progetto, la battaglia, e perfino la strategia da te intrapresa, dovesse sembrarti avvincente, deciderai perfino di fare concorrenza allo stesso magnate Silvio Berlusconi, il nano ghiacciato che, muovendo esattamente dal proprio impero mediatico, ha addirittura conquistato la statura di statista, e questo lo diciamo giusto per restare in argomento d’assenza di fantasia. Pari soltanto ai titoli azionari in suo possesso; o perfino all’australiano Rupert Murdoch, il titolare di Sky, personaggio non meno economicamente significativo. In ogni caso, è bene che sappiate fin dall’inizio d’avere messo al mondo dei media ciò che l’autore di questo libro – uno scrittore, un precursore, un pioniere, un eroe, un martire – definisce come televisione “monolocale”. La vostra esistenza, cioè, interamente investita in un progetto fosforescente. Un canale che ha come scopo di rendere felice almeno un individuo sulla faccia della terra degli uomini, del globo mediatico, il suo stesso titolare, un solo spettatore, un unico sopravvissuto alla gelata dell’immaginazione. Tu!
E il pubblico? Ci sarà qualcuno a seguirti, come si dice, a filarti almeno un po’? Ci sarà, ci sarà, stanne certo. In tempo di assenza di autentica immaginazione, basta un po’ di libertà allo stato puro, gassoso, per trovare presto sostenitori d’ogni tipo e grado, dall’onanista notturno all’ossesso, dal bocciato all’esame di guida alla ragazza, direbbe Dylan Thomas, “folle come gli uccelli”, dal tuo vecchio compagno di banco ritrovato per caso su Facebook a Fernando Arrabal, il grande scrittore, drammaturgo e trascendente satrapo del Collège de ‘Pataphysique, scienza delle soluzioni immaginarie. Fosse anche un semplice esordio nel quale parlate delle modalità esatte per ottenere il primo bacio. Sia pure a pagamento. Tornerà l’arcobaleno, tornerà l’estate, come quando, roba di molti anni fa, in tv c’era un’annunciatrice cotonata che rivolgendosi a un mondo interamente in bianco e nero, proprio all’inizio della bella stagione invitava a “moderare il volume del televisore” e questo perché, appunto, “siamo in estate” e “le finestre delle vostre case sono aperte”. In quel mondo, era ancora vivo il poeta Pier Paolo Pasolini e il manifesto del suo film Uccellacci e uccellini, con Totò e Ninetto Davoli, campeggiava sui muri, come un invito a sperare, a sognare una rivoluzione, una fioritura. Da qualche tempo a parlare del mondo trovi invece post-pensatori come Bernard- Henri Lévy e, quanto ai muri, massima concessione fantastica, brilla invece il manifesto di una vettura che dell’estro di Picasso mostra appena il nome, il logo.
Questo che state leggendo, se non vi fosse ancora chiaro, è un possibile manuale di sussistenza mediatica, dove proviamo a suggerire tempi e modi per creare un vostro canale. In grado di assumere sogni, in quantità tutt’altro che modica. Perché poi possiate planare su ogni genere di paesaggio: mondi, continenti, luoghi, eventi, oggetti, facce, feticci, totem, obelischi, templi, bunker, prime pagine, compleanni, istantanee, pose, polaroid, cocker, labrador, santini, samovar, biciclette (dalla Bianchi alla Graziella alla mountain bike), manifesti, carte d’identità, fototessere e fotoceramiche, alberi di Natale, portinerie, gite al mare e gite ai santuari, settimane bianche e settimane nere, comizi, manifestazioni, cortei, blocchi stradali, traslochi, ingiunzioni di sfratto, capitolati d’appalto, pignoramenti, compleanni, camere mortuarie, memorabilia, canzoni, ricordi, vestiti di Carnevale, tute da sub, scafandri da palombaro, souvenir, rimpianti, telegrammi, funerali e molti altri materiali filmati ancora che parlano di un vissuto unicamente vostro, che però potrebbe essere davvero interessante spacciare per collettivo. La televisione come autobiografia, insomma. Un modo straordinario per rinunciare definitivamente all’alienazione. Ai danni subiti in decenni di esposizione alla mediocrità dell’intrattenimento mediatico comune. Ma anche il tentativo di individuare, e rendere patrimonio comune, le cose che fanno reale e quotidiano il presente. La vostra televisione implacabilmente monolocale potrà essere tutte queste monadi insieme. Buon divertimento, anzi, come si diceva al termine dei comizi dei poveri, al lavoro e alla lotta.
Hai già un computer? No? È molto grave che tu ne sia sprovvisto, aggiornati subito, dài. È davvero giunto il momento di uscire ad acquistarlo. Fisso o portatile, fa lo stesso. L’importante, semmai, è che ti garantisca il nitore dell’immagine e del sonoro, anche se poi, visto che in ogni tv monolocale che sia tale è meraviglioso trasformare il limite, la pecca, l’inesperienza e perfino la zappa, in aratro, in trattore, in missile, in V2, in Sputnik, in Apollo 11, in Lem, in Trabant, in Rolls-Royce, in vecchio taxi Fiat 600 multipla, in imperdibile cifra stilistica, in impronta, visto il rapporto stretto con il web, decisamente digitale inconfondibile, così anche gli scarti presto diventano metallo mediatico prezioso, giacimento immateriale.
Ma c’è in realtà una domanda che anticipa ogni altro interrogativo: a che cosa serve esattamente la televisione in sé, in quanto tale? La risposta è bene che assomigli a ciò che diceva una vecchia pubblicità del Carosello, ben oltre quarant’anni fa. Ci sono due fratelli, abitano l’uno lontano dall’altro, finché il più alto, stanco di non potere mai vedere in viso il carissimo consanguineo, si mette ad armeggiare finché inventa il primo televisore al mondo, il suo prototipo, un marchingegno magico degno di una celebre scultura di Costantin Brancusi, L’origine del mondo, un blocco di marmo modellato come un uovo. L’allusione, ovvio, è ai fratelli Auguste e Louis Lumière, quindi al cinema, quando questi affermavano che «ora che possiamo fotografare i nostri cari non soltanto immobili, ma anche in movimento, la morte cessa di essere assoluta».
Un’idea comunque poeticamente interessante, che serve a salvare l’intero progetto sotto la categoria primaria, della necessità; la televisione come essenza, dunque, posta sotto il dominio della libertà assoluta, come confessione, come volo, come cassetta degli attrezzi per rimettere insieme un sentimento, il mondo stesso. Come autobiografia, te l’ho già detto. Vai, vai pure! Il capitalismo, con il suo mercato, ha tolto alla televisione ogni potere magico, per questo adesso sei tu a dovere scendere in strada, per ridarle realtà, per farla brillare, ballare sulla punta di uno spillo.

Fulvio Abbate (foto Monica Cillario)

Dove trovare le motivazioni forti

Nel caso non foste sufficientemente motivati per abbandonarvi a un’impresa simile, così come accade al protagonista di Teledurruti, il romanzo di Fulvio Abbate, che molla addirittura un impiego sicuro da figurante, salariato del servizio pubblico costretto a vestire un costume giallo da criceto, per poi correre nell’apposita ruota posta in fondo alla sua gabbia al fine di far lievitare il punteggio!, in tal caso, se temete proprio di uscire dall’infelicità che avvolge lo spettatore inerme, siamo pronti a fornirvi, per cominciare, una frase che cancellerà ogni dubbio e inutile perplessità attitudinale, dandovi al contrario vigore e energia, combustibile creativo degno del più carnivoro degli Hulk. O perfino, perché no, come suggerisce lo scrittore Massimiliano Parente, il supplemento di rabbia di Goldrake, Jeeg Robot D’Acciaio, Candy Candy, Bia, Mazinga Z, Daitarn III…
La frase “apriti sesamo!”, sfericamente adatta a dissipare ogni resistenza, giunge a noi da un protagonista dell’informazione contemporanea, già direttore di giornale: «Sono i giornali che danno la priorità dell’informazione e che viene poi presa da tv e internet gratis. Il giornale deve essere convincente, autorevole e persuasivo per farsi comprare. Su internet più sono bislacche più hanno successo. È un mondo anarchico. I giornali con la loro serietà hanno il compito di mettere ordine».
Senza bisogno di troppi contorcimenti concettuali di segno giovanile in difesa di internet come fosse la “città futura” cui accennava Antonio Gramsci al tempo degli occhiali pince-nez, quindi rinunciando a indossare a priori la tuta nera del sub mediatico, che sta invece tanto a cuore a certi ragazzi convinti così di essere “fichissimi” e alla moda, già, pensando davvero male, quel “mettere ordine” utilizzato dall’ex direttore potrebbe suggerire, almeno a un orecchione paranoico, suggestioni esotiche perfino censorie, e qui viene subito in mente la triste, ma anche atletica, trafila del ragazzo (o perché no, dell’adulto precario) che scrive un “pezzo”, metti, su un belvedere politico clerico-fascista, fra Opus Dei e l’uomo dei 7 capestri, e s’aspetta di vederlo pubblicato sul giornale al quale ha strappato una collaborazione, ovviamente sottopagata. Vola via una settimana, ne passano due, e ancora di quel pezzo veritiero come un’ostia consacrata niente, non si vede proprio in pagina; al suo posto, c’è invece modo di trovare cose certamente edificanti sul piano della credibilità etica, come il ritorno del Nude Look o anche sull’attrice australiana Nicole Kidman che sceglie di interpretare un trans, lei che, la vagina, ce l’ha addirittura luminosa in fronte, così come Che Guevara mostrava la stelletta di comandante al centro del basco. E invece di quell’altro pezzo sui virtuosi intrecci clerico-fascisti nulla all’orizzonte, sempre niente. Si tratta solo di un esempio banale, banalissimo, eppure abbastanza evidente.
È insomma a quel punto che la televisione monolocale ti diventa utilissima, salvifica, perché tu, ragazzo o ragazza dell’Europa già cantato in un celebre brano pop, persona in cerca di mettere in pratica la tua fantasia invincibile, dopo aver deciso che non è proprio più il caso di attendere la telefonata del redattore capo, hai la suprema soddisfazione perfino di far denunciare il torto subito. Perfino dicendo d’essere un prete. Come? Te lo illustreremo nel capitolo Televisione monolocale (modello religioso), che non ci vuole davvero nulla, giusto una fettuccia di carta. Aspetta e saprai.
E qui si torna, appunto, al già citato tempo delle cosiddette radio “libere”, dove il microfono era davvero tutto tuo, perfino del più idiota, e sembrava a tutti che fosse davvero giusto così. Parliamo dei giorni in cui certi documenti politici mao-dadaisti, al colmo dell’immaginazione, chiedevano l’abolizione del lavoro trovando, fra molte altre, le improbabili firme di David, Gary e Mini Cooper; quelli eran giorni, sì! Quella, sì, che era vera fantasia. Mi direte: c’era allora un altro clima, si usciva dall’onda lunga di una contestazione planetaria, con le università occupate da Berkeley negli Usa alla Sorbonne a Parigi, da Città del Messico a Tokio, e forse perfino a Reggio Calabria, mentre adesso se solo guardi in volto i trentenni che presidiano le redazioni dei giornali, e delle stesse televisioni, ti viene il dubbio che non ci siano più margini di trattativa umana, prim’ancora che sindacale. Ti chiedi che fine abbia fatto ciò che Albert Camus riassumeva in una semplice frase, «mi rivolto, dunque sono», tradotto presto sui muri in un esplosivo, terso, immediato “ribellarsi è giusto”. Tornando invece ai trentenni di oggi, di fronte a una così immensa scuola di realismo non potrai più fare a meno di convincerti della giustezza d’avere scelto l’autosufficienza, d’avere preteso una tv monolocale tutta per te. Così come gli ospedali è bene che si dotino di un gruppo elettrogeno per le urgenze.
Possibile, così ti chiederai il giorno dell’inaugurazione dell’emittente, quando sarete tu e il computer, possibile che fra i miei amici nessuno di loro abbia fatto uno straccio di carriera, mezzo scatto, zero? Non sarà una maledizione, un sortilegio? Nel migliore dei casi, i più vivaci fra loro, i più dotati, sono diventati informatori farmaceutici, esatto: parlo di quelli che si sbattono fra ospedali, cliniche e studi privati di medici per mostrare il campionario dei nuovi medicinali. Una vita in attesa, no, in sala d’attesa. Certo, sarebbe stato peggio se fossero rimasti tossici, drogati in fila per ottenere il bicchierino di metadone, ma la piena soddisfazione nelle loro vite, nonostante l’uscita dal tunnel della tossicodipendenza, comunque manca.
Uno di questi, Ciccio, detto Ciccio Cazzo, polo sottomarca Lacoste o Fred Perry o perfino Pop84, abbottonata fino al collo, come si conviene al consumatore di oppiacei ormai redento, l’ultima volta lo hai incontrato, vent’anni dopo la demolizione del vostro muretto, era il giorno in cui accompagnavi tuo padre a fare la Tac, lungo le scale dell’ospedale. Tu conducevi papà a fare, appunto, alcuni necessari accertamenti. Quando, a un certo punto, nel pieno purgatorio dell’attesa, davanti ad altri sventurati non meno soggetti tipici per l’anti-inferno descritto da Bulgakov all’inizio di Il Maestro e Margherita, guardi uno e ti dici: ma io a quello lo conosco! E infatti è lui, tutto vero, ricordi benissimo. Era un tempo tuo amico, amicissimo. Su cosa facevate insieme allora, è meglio stendere un velo, ma è proprio lui. Ma allora tu sei Ciccio… Ciccio Cazzo? Sono Ciccio, ti dice lui. Ciccio Cazzo, quanto tempo, dài, racconta… E lui: mi piacerebbe dirti tutto, ma non ho tempo adesso, ma ci sentiamo, segnati il mio cellulare, la mia e-mail. E tu: ma ci stai su Facebook? E lui: chi?
Ecco, la tv monolocale, forte del suo bisogno di salvare perfino il portato autobiografico, ti servirà, prima o poi, per far raccontare a Ciccio Cazzo che magica esistenza, almeno a giudicare dalla comune lettura de L’Aleph di Borges, avrebbe dovuto essere. Al contrario del quattro meno meno che è poi, invece, risultata. Una vera televisione monolocale d’altronde non ha paura di nulla, neppure della Caduta. L’ho già detto, no, che è un guscio di noce nel mare della liberazione individuale, per l’infelicità sia pure ammantata di boa rosso, strass e ombretto turchese ci sono già i canali di Berlusconi. A proposito: quando e se vi rivedrete, potrai proporre perfino allo stesso Ciccio di creare la sua. Anche Tele Ciccio Cazzo, anzi, Tele Radio Ciccio Cazzo International, in questa storia può diventare un valido marchio.

Scegliere un santo protettore

Il santo (laico, possibilmente), anche in televisione, ci vuole. Occorre. Pensate che Padre Pio, l’orco meridionale di Dio, il Jacques Lacan dei poveri planetari, ne ha addirittura una intestata interamente, avocata a sé. Si chiama, per l’appunto, Tele Radio Padre Pio, ed è l’unico canale mondiale, benché piazzato laggiù, alle estreme periferie di una piattaforma satellitare, in grado di restituire il miracolo di un palinsesto senza menzogne nascoste. Un capolavoro di narcosi esplicita, dichiarata fin dal logo che suggerisce pensieri monocromatici come il marrone del saio dell’ispiratore, sbandierato a fare da sfondo virtuale, come rivoluzione mistico-mediatica permanente. Altro che monta e smonta fondali e quinte, pareri e opinioni nell’incertezza politica di questo o quell’altro Consiglio d’amministrazione delle emittenti di Stato. Un saio sul quale figura il volto del frate di Pietralcina, uno cui il credente, ma addirittura anche il disgraziato capitato lì per caso, supplica come regolarsi dinanzi agli amarissimi cavoli dell’esistenza o più semplicemente della prostata (o dell’utero, delle ovaie). Certo, se ti sintonizzi senza saper lo corri il rischio di rivivere le terribili sensazioni dei pomeriggi d’infanzia trascorsi presso vicine carnivore, in case simili ad antri e grottini, fra tazzine sbreccate di Capodimonte o di Sèvres e clisteri anali e vaginali ancora fumanti. Rispettabili appartamenti allestiti, insomma, come camere mortuarie di policlinico, dove la luce pomeridiana mostra il viraggio nero-sconforto, perché trascorsi appunto a udire di malattie, di dispiaceri, di paracentesi, di cistoscopie, e, immancabilmente, di Padre Pio, il liberatore dalla sofferenza, il presidente di garanzia morale di una televisione che magari, per semplice amore di sensazioni forti, pop, mai censurerebbe le urla degli infermieri oranghi in astanteria. Benvenuta allora la sincerità di Tele Radio Padre Pio, il suo mortuario “monoscopio” che nelle ore in cui il palinsesto diurno tace, mostra in diretta l’inquadratura fissa della cripta dove riposa il santo, s’intende anche dopo la chiusura al pubblico del santuario di San Giovanni Rotondo. Il massimo forse che una televisione contemporanea possa offrire allo spettatore.
Ovviamente, il riferimento al canale che issa la testa di Padre sull’antenna come fosse questa una picca di lancia è solo esplicativo, così come il capo del Battista decollato sul piatto della pittura religiosa. L’esempio della tv dedicata al frate santo, per quanto bizzarro, serve a far sì che perfino voi possiate scegliere con la massima soddisfazione e libertà la vostra tavolozza espressiva, arredando infine il sogno mediatico personale senza timore d’apparire improbabili. Dopo Padre Pio tutto potrà essere possibile.

Fulvio Abbate

Proposta: un’emittente monolocale

Fulvio Abbate, Manuale italiano di sopravvivenza

Come fare una televisione monolocale e vivere felici in un paese perduto
(Cooper files, 423 pagine, 12,50 euro)

In tempi di monopolio dell’informazione e riduzione del margine di fantasia, l’abbrutimento del Paese procede di pari passo con quello del tubo catodico (o segnale digitale, non fa differenza). Fulvio Abbate (palermitano doc, residente a Roma), ideatore, fondatore, anima e anchorman di Teledurruti, l’emittente libertaria che furoreggia in rete, ci insegna come ribellarci dall’oppressore e resistere a decenni di omologazione televisiva. Ci svela l’alternativa al pensiero unico, politico e mediatico.
La soluzione è una televisione per ciascuno. Un’emittente monolocale in ogni casa.
Per iniziare il rito di liberazione bastano un computer, una webcam e un account YouTube: e che la trasmissione abbia inizio. Culturale, sessuale, familiare, religioso: sono una decina i modelli televisivi (monolocali, ovviamente) a cui ispirarsi. Non sapete di cosa parlare? Per i contenuti: la fantasia al potere. Riabilitate chi volete, affossate chi non vi piace, chiedete indietro Giorgio Bracardi. Parlate di viaggi, internazionali e attorno al vostro quartiere, fate la rassegna stampa dei giornaletti per soli uomini. Dite cosa volete, come volete: ognuno ha diritto di riconciliarsi con la televisione scoprendone la dimensione autobiografica, consolatoria.
Un libretto d’istruzioni provocatorio e poetico. Oggetti , personaggi famosi, gente comune e ricordi familiari si rincorrono sullo sfondo di un’Italia desolata persa fra le piccolezze della comunicazione e della politica. Manuale italiano di sopravvivenza è il manifesto dell’autogestione mediatica. La svolta anticonformista delle comunicazioni di massa, il detonatore delle categorie esistenti. La riconciliazione di alto e basso universale.