rivista anarchica
anno 40 n. 356
ottobre 2010


alternative

Ivan Illich e la bicicletta
di Giulio Canziani

Non è la prima volta (e non sarà certo l’ultima) che ci occupiamo di questo mezzo di locomozione centrale in qualsiasi progetto di una società più sana e libera, eco-compatibile e… libertaria.

 

Nel 1973, quando Ivan Illich scrive “Elogio della bicicletta” l’americano tipo dedica ogni anno alla propria auto 1600 ore del suo tempo. Il calcolo comprende la somma del tempo trascorso in auto “ci sta seduto, in marcia e in sosta, la parcheggia, va a riprenderla” e del tempo dedicato all’auto in cui “si guadagna i soldi occorrenti per l’anticipo sul prezzo d’acquisto e per le rate mensili, lavora per pagare la benzina, i pedaggi dell’autostrada, l’assicurazione, il bollo, le multe. Ogni giorno passa quattro delle sue sedici ore di veglia o per la strada o occupato a mettere insieme i mezzi che l’auto richiede.” Quattro ore al giorno per percorrere 12000 chilometri all’anno: il risultato è una velocità media di 7,5 km/h. Colpito da questi calcoli, un po’ per mania statistica, un po’ per rassicurare la mia coscienza comincio a far di conto: dunque, la mia utilitaria è costata X, durerà almeno 10 anni quindi ogni anno la pagherò con X ore di lavoro, poi assicurazione, gasolio, facciamo che non prendo multe ma il bollo comunque va pagato, ogni tanto l’autostrada, aggiungo che l’auto la uso per andare a lavorare pertanto ci passo X ore al mese, X tempo per la spesa e le altre commissioni, poi a Milano in media una volta la settimana, qualche gita in primavera ... calcolatrice alla mano elaboro il tutto: dedico all’automobile due ore del mio tempo ogni giorno per percorrere i miei 12000 chilometri l’anno ad una velocità media di 16 km/h. Confortante se confronto il risultato con i dati dell’americano tipo del ’73, disarmante se mi pongo la domanda: perché si costruiscono veicoli che raggiungono velocità massime di 200 km/h?
Illich definisce il “traffico come qualsiasi spostamento delle persone da un luogo all’altro” e intende per transito quegli spostamenti che utilizzano l’energia metabolica umana e per trasporto quelli che si avvalgono di altre fonti di energia. Mentre il transito è una capacità innata dell’uomo fondata su una alta intensità di lavoro del singolo, indipendente perché non comporta necessariamente un valore di scambio, il trasporto è un prodotto dell’industria basato sull’impiego intensivo di capitale e in quanto merce è strettamente legato a due agenti: chi la produce e chi la consuma. Tutto il traffico che si muove con il trasporto è saldamente allacciato all’industria, alla sua produzione energetica, in un rapporto di cieca dipendenza che come una droga annulla l’autonomia del singolo perché “nessuna società può avere una popolazione che sia incatenata a un sempre maggior numero di schiavi energetici e che nello stesso tempo sia fatta di individui autonomamente attivi”. L’industria “comincia a istituire un monopolio radicale riordinando la società nell’interesse di coloro che consumano i quantitativi maggiori; quindi lo impone costringendo tutti a consumare almeno la dose minima in cui il bene in questione viene prodotto”. Un monopolio che l’industria impone “grazie alla capacità che possiede di creare e plasmare un bisogno che essa soltanto è in grado di soddisfare”.
Illich insiste con forza sul concetto di “velocità massima”: ogni aumento di velocità, ogni accelerazione richiede un maggior consumo di energia e “oltre un certo punto, più energia significa meno equità”. Diseguale diviene il concetto stesso di valore di tempo: nella Cina (degli anni ’70) della rivoluzione, per sostenere e diffondere il Pensiero di Mao in tutto l’immenso paese sono necessarie due classi, una appartenente alla geografia delle masse e l’altra a quella dei quadri perché “il tempo dell’uomo che si fa portare dal bufalo ha un valore diverso da quello dell’uomo che si fa trasportare in jet”. Mentre “coloro che vanno a piedi sono più o meno uguali” perché comunque tutti dipendono da due gambe, da un comune stimolo a spostarsi in una direzione piuttosto che in un’altra, da una velocità media non molto differente gli uni dagli altri, “oltre una certa velocità i veicoli a motore creano distanze che soltanto loro possono ridurre. Creano distanze per tutti, poi le riducono soltanto per pochi”. Tutti pagano il prezzo di questa corsa insensata: con le tasse necessarie a costruire e regolare le infrastrutture, con il consumo di una pur minima parte di quell’energia che viene prodotta in quanto strumentale alla produzione di altra energia in quantità sempre maggiori in un interminabile ciclo di produzione industriale. Un prezzo che include la distruzione dell’ambiente fisico come conseguenza più visibile ma meno deleteria: “i risultati di gran lunga più amari sono le frustrazioni psichiche che si moltiplicano le disutilità crescenti generate dall’incessante produzione e l’iniquo trasferimento di potere che si deve subire; fenomeni che manifestano tutti una relazione distorta tra tempo e spazio”.

Una presa di coscienza

Chi si può permettere di andare più veloce incrementerà la distanza verso chi non ha queste possibilità, “i poveri lavorano e pagano per restare indietro”: senza porre un limite alla velocità, non si elimina questo crescente diseguale sfruttamento. L’opinione secondo cui più velocità è uguale a risparmio di tempo è frutto di una chiara distorsione della relazione spazio-temporale: la velocità riduce il tempo a disposizione. Se infatti un trasporto motorizzato che non vada oltre i 40 km/h è ausiliario al transito, “ogni società che imponga l’obbligo della velocità schiaccia il transito a vantaggio del trasporto”.
“Oltrepassata una certa soglia di velocità il trasporto arriva a ostruire il traffico nei tre modi che si è detto: blocca la mobilità saturando l’ambiente di veicoli e di strade; trasforma il territorio in una piramide di circuiti reciprocamente inaccessibili, secondo livelli di accelerazione; espropria il tempo in nome della velocità”. È chiaro a tutti che una strada aperta al traffico è una strada destinata riempirsi: nella Bombay del ’73 poche persone possedevano quell’auto che concedeva loro il lusso di impiegare solo una mattinata per recarsi una volta la settimana in provincia, un tragitto che fino a due generazioni prima era possibile fare spendendo una settimana di viaggio al massimo una volta l’anno. “Adesso spendono una quantità maggiore di tempo per un maggior numero di spostamenti. Ma quelle stesse poche persone con le loro auto scompigliano il flusso di traffico delle migliaia di biciclette e di taxi a pedali [...] Oltre una velocità critica nessuno può risparmiare tempo senza costringere altri a perderlo”.
Non voglio far perdere tempo ad altri, io: decido quindi di inforcare la bicicletta anche per i quotidiani spostamenti verso il luogo di lavoro, tanto più che l’ho appena restaurata in tutti i suoi componenti verniciandola di un fiammante rosso vivo. Guarda caso la strada che percorro solitamente in automobile è un po’ troppo rischiosa per l’incolumità di un ciclista, così penso ad un percorso alternativo: devo passare dalle campagne allungando un pochino ma alla fine 8 chilometri sono una distanza assolutamente accettabile.
Ritornare alla bicicletta è per me una presa di coscienza che mi spinge subito ad un confronto con le mie esperienze passate: 8 chilometri sono solo un terzo dei 25 che mi ero ripromesso di fare una dozzina d’anni fa per raggiungere il mio primo posto di lavoro, diciamo ufficiale e in regola.
Un impegno ciclistico che non ho portato avanti per più di una settimana: la motivazione che mi avrebbe dovuto sostenere e cioè il tenermi in forma fisica, non era abbastanza forte da nascondere un paradosso, gigantesco e mostruoso che si è voracemente divorato questa mia iniziale spinta.
Che senso ha tenersi in forma fisica e liberarsi la coscienza utilizzando il transito e non il trasporto per i propri quotidiani spostamenti se alle 8 del mattino ci si deve infilare una tuta sporca di chimica cominciando a respirare collanti a basi ammoniacali per produrre nelle 8 ore successive finta pelle cioè polimeri lavorati (nonché quintali mensili di rifiuti tossici)?
Si fa in fretta a rimandare l’esame di coscienza e per la forma fisica ci sono, al limite, la piscina o la palestra quando non si è troppo stanchi dopo la giornata in fabbrica.
Anni più tardi pedalavo allegramente e senza interruzioni per raggiungere un ufficio che mi vedeva elevato alla condizione di impiegato: un impiego più sano e soprattutto il fatto di vivere ad Amsterdam mi permetteva di inserire la bicicletta in un contesto armonioso di reale progresso civile. Ho viva nostalgia dei quotidiani transiti lungo i canali e sui ponti di mattoni ma d’altronde nei Paesi Bassi il ciclista è il vero padrone della strada, l’automobilista ad esempio ha un’abitudine anzi un dovere sconosciuto alla maggior parte dei suoi simili che abitano altre parti del mondo: ad ogni svolta a destra guarda con attenzione che non provenga un ciclista sulla pista ciclabile che immancabilmente fiancheggia ogni strada olandese.

Da Amsterdam a Bologna

Forte di questa esperienza decido di includere la bicicletta nel successivo trasloco a Bologna dove mi ritrovo a pedalare ogni mattina per raggiungere il centro meccanizzato delle Poste e lì a fare i conti con un’altra contraddizione: dopo aver messo in ordine la corrispondenza, per andare a distribuirla nel centro della città, vorrei usare la bicicletta, non il motorino. I colleghi mi spiegano che essendo io un postino temporaneo in sostituzione, ogni giorno dovrei cambiare zona e già è difficile esaurire in orario tutto il carico di lavoro non conoscendo le vie e le utenze, figuriamoci se lo svolgo in bicicletta, mezzo che oltre ad essere più lento (caro Illich fagliela capire tu...) non mi consente di trasportare lo stesso quantitativo di corrispondenza e dovrei sfruttare molti più punti di appoggio e insomma cose tecniche che lì per lì non capisco ma che mi spingono a cedere alla tentazione del motore a scoppio.
Ritorno alle origini e ottengo il mio primo contratto a tempo indeterminato con un’azienda che ha sede a qualche centinaio di metri dalla fermata Sesto Marelli, linea 1 della metropolitana.
Dalla stazione Cadorna, dove il treno mi scarica dalla provincia sarà dura arrivare a Sesto Marelli in versione ciclista, bisogna essere molto accorti per resistere a lungo senza essere messi sotto da un qualsiasi mezzo di trasporto a motore di cui Milano offre largo campionario: ho grande stima dei molti (bicchiere mezzo pieno) che lo fanno. Comunque, anche volendo assumermi i rischi, i treni delle Nord sono sempre in ritardo, per arrivare in orario dovrei partire ancora prima delle 6,57: no, non sono abbastanza motivato. Passando 140 minuti al giorno sul treno e altri 40 minuti sulla metropolitana posso dire che raramente ho avuto spunti di riflessione sulla solitudine come quelli offerti dalla folla di pendolari. Capisco quindi perché i suicidi scelgano spesso i convogli della metropolitana cui sono legati dal medesimo carico di solitudine e capisco anche il cinismo del pendolare medio che si lamenta dei disagi e del ritardo subito – Non poteva buttarsi a metà mattinata? Così facevo in tempo ad arrivare in ufficio... –
Il pendolare è, come lo definisce Illich un passeggero abituale, il prodotto dell’industria del trasporto, “il più esasperato di tutti dalla crescente ineguaglianza, dalla penuria di tempo e dall’impotenza personale [...] si sente sempre più lento e più povero di qualcun altro e pensa con rabbia ai pochi privilegiati che possono prendere delle scorciatoie”.
Dovrebbe piuttosto chiedersi se non sia il caso di rallentare un poco vista la fragilità di un equilibrio che può essere sconvolto dal gesto disperato di un solo essere umano.
Spesso non si nasce radicali, soprattutto in provincia.
Ammesso che durante l’adolescenza si riesca a resistere alla tentazione di un ciclomotore, mantenendo la propria fedeltà alla “infantile” bicicletta, quasi tutti soccombono al fascino del “sorpasso”, la libertà di fare chilometri su chilometri. Se Bruno Cortona/Gassman ammetteva – Io bene come in macchina non sto in nessun posto – è pur vero che l’evidente fallimento della sua corsa non ha scoraggiato chi si sente libero e vivo nel percorrere 1000 chilometri in un giorno.

In due amici, salire in macchina, scegliere una direzione e cominciare a bighellonare fino al momento in cui non si inventa una meta, condizione essenziale, da lì si continua il vagabondaggio fino al suo raggiungimento: ci deve sempre essere un percorso di ritorno necessariamente diverso da quello dell’andata. È il desiderio di percorrere molti chilometri per allontanarsi il più possibile, un erranza molto simile a quella dello psicotico che per trattare il proprio disagio si sforza di non essere mai qui ma sempre altrove. Caratteristica della psicosi è l’assenza di scelta o l’estrema difficoltà nel farne una: ciò che può aiutare lo psicotico a pacificarsi e in secondo luogo a scegliere è la presenza di una cadenza, un ritmo regolare. Ogni giorno il sole deve sorgere e tramontare, ci devono essere una colazione, un pranzo, una merenda e una cena; così come il trottare ritmico del cavallo nell’ippoterapia, l’uno/due sinistra/destra della pedalata scandisce il tempo del ciclista ponendolo nelle condizioni di poter pensare sostenuto dalla forza di un equilibrio stabile. La stessa disciplina che ritroviamo nella musica: l’improvvisazione jazz è una sorta di fluire libero e anarchico di note pensate ben regolate nelle fondamenta dalla struttura di scale siano modali o pentatoniche e da indicazioni di tempo che si ha la assoluta libertà di rispettare. Quanto più si conosce in profondità, per studio o per naturale genio, la grammatica della musica tanto meglio si potrà esprimere il proprio pensiero con originalità e precisione. All’interno di questo tessuto ben disciplinato le scelte del singolo possono essere molto differenti, si può scegliere di improvvisare sulle note essenziali come Davis o a velocità vertiginose come Coltrane ma in ogni caso si tratta di scegliere entro parametri ben definiti.
La bicicletta/infanzia (e adolescenza) in quanto naturale limitazione di mezzi, l’automobile del giovane uomo (o meglio post-adolescente) che insegue una libertà illusoria e di nuovo la bicicletta come segno della maturità dell’uomo che può e sa scegliere.
La possibilità di scelta è ciò che fa la differenza: si possono scegliere percorsi diversi e si può scegliere di vivere in modo differente lo stesso percorso. Scegliere porta a cambiare, a mettere in luce la propria unicità ed è conoscendo empiricamente le differenze, raccogliendole e concentrandole nel proprio intimo facendosi differenza dalle molteplici sfumature che ci si può assicurare una non omologazione. Scegliere non significa escludere. Se l’automobile come mezzo di trasporto è un oggetto già ricco di insidie, l’automobile intesa come simbolo che denota uno status trasuda senza dubbio emarginazione. Basta osservare i richiami pubblicitari o cogliere un qualche discorso da bar con oggetto la mitologia automobilistica che ritroviamo ancora molto attuali le parole di Bruno Cortona – Nel ‘56 ho avuto un’annataccia, sa, è dura a 36 anni andare in giro in filobus – Il pedone e il ciclista sono definiti da una mancanza e la differenza assume quindi una pericolosa accezione negativa che se acquisita a livello istituzionale provoca sconvolgenti distorsioni di significato: “in America Latina le scarpe sono rare e molti non le portano mai [...] in alcuni paesi latino-americani la gente è stata costretta a portarle da quando chi va a piedi nudi non è ammesso a scuola, al lavoro e nei servizi pubblici: per gli insegnanti e per i funzionari di partito non portare scarpe equivale a mostrare indifferenza per il progresso”.
Il progresso è un’altra cosa e sta più nell’ambito dei valori che in quello delle calzature.
Scegliere deve assumere il significato di differenziarsi rispettando le differenze altrui e comporta la fatica di mettersi in gioco: “scegliere un’economia a contenuto minimo di energia costringe il povero a rinunciare alle attese fantastiche e il ricco a riconoscere nei propri interessi costituiti una passività tremenda”.
Pedalo, alle orecchie ho gli auricolari collegati al lettore di musica mp3: cosa ne penserebbe Illich?
Questo lusso (miracoloso!) che mi concedo è inserito in un processo industriale che non supera il quantum limite di energia che permette relazioni sociali eque o va oltre?

Tornare indietro?

Illich si assume con onestà il compito di parlare con toni che scuotano una società alle radici; critica, giudica e propone con la sicurezza di chi ha fatto un pieno esame di coscienza riconoscendo gli errori e valutando anche le strade più impervie e faticose.
Ecco quindi il profondo significato educativo della sua opera: non diamo alcunché per scontato, sono i nostri comportamenti e le nostre scelte che portano a progredire piuttosto che a soccombere.
Un richiamo alla figura dell’educatore lo propone poi in modo molto chiaro: “l’aumento della ricchezza impone un più accentuato controllo sociale [...] che diventa la principale attività istituzionale all’interno di un’economia. La terapia somministrata dagli educatori, dagli psichiatri e dagli assistenti sociali non può che convergere verso i medesimi obbiettivi dei pianificatori, dei manager e dei venditori e divenire complementare ai servizi degli organi di sicurezza, delle forze armate e della polizia. [...] è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell’iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall’educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia”.
Una visione in negativo della figura dell’educatore che implicitamente ne svela una in positivo.
Il vissuto (e direi il vivente) del formatore viene trasmesso all’educando: non è sufficiente una consapevolezza teorica ma è indispensabile anche una prassi il più possibile aderente all’alternativa, a ciò che Illich chiama controricerca.
Ogni idea potrebbe divenire gesto inconsapevole, il più minuscolo, il più scontato: se sono un educatore votato alla teledipendenza mi risulterà difficile richiamare un ragazzo ad un uso moderato della TV e nel momento in cui lo farò risulterò sicuramente poco credibile. È oltremodo scomodo dover affrontare, mettere in pratica la controricerca ma risulterà impossibile farlo se non la si è prima assimilata facendo a se stessi discorsi convincenti.
Sono ormai convinto dell’importanza dell’energia metabolica umana contro quella del motore divoratore di tempo, equità, ossigeno, ma non posso non gioire con Michelino che mi accoglie all’inizio del mio turno di lavoro dicendomi sfarfallante e sopra le righe per la felicità – È arrivato il pulmino!! – grida – finalmente ora possiamo uscire dalla comunità tutti insieme!!! Potremo fare gite, sempre, tutti insieme!!! –
Punto di partenza primario è riconoscere che un cambiamento radicale è il risultato di un processo di trasformazione graduale, fatto di piccoli obiettivi, di sfumature da cogliere, dettagli che sono foglie di un albero che un giorno sarà ben visibile e radicato.
E questo anche per rispondere a chi parla di “teorie eccessivamente radicali” e impraticabili e sostiene l’impossibilità di tornare “indietro”, come se aspirare ad una maggiore diffusione di benessere fosse regressione. Non è forse stato un cambiamento radicale percorrere oggi 100 chilometri in un’ora quando 150 anni fa lo si faceva in due giorni? Perché non dovrebbe essere possibile il processo inverso? D’altronde, come dice Franco La Cecla nella postfazione di “Elogio alla bicicletta”, “la gente ha creduto per secoli che i corsetti fossero indispensabili, che mangiare frutta facesse male, che lavarsi allontanasse i buoni umori e che il miglior modo per educare i figli fosse prenderli a sberle: poi ha smesso”.
Illich ci ha insegnato che la storia dell’occidente è una storia di rinuncia alla propria autonomia: gli individui sono da sempre alla ricerca di una guida cui affidare la propria anima, alla chiesa ad esempio, o il proprio corpo, allo stato e al mercato. “Il passeggero abituale, drogato dal trasporto non ha più coscienza dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono [...] Incontrarsi significa per lui essere collegati dai veicoli. Giunge a credere che il potere politico discenda dalla portata di un sistema di trasporto o, in sua assenza, sia il risultato dell’accesso allo schermo televisivo [...] Non ha più fede nel potere politico delle gambe e della lingua. Di conseguenza non vuole essere maggiormente libero come cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla propria libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di essere caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto migliore, non vuole liberarsi dall’asservimento ai prodotti. È dunque indispensabile che egli riesca a comprendere che l’accelerazione da lui ambita è frustrante e non può che portare ad un ulteriore declino dell’equità, del tempo libero e dell’autonomia”.

Il trionfo della delega

Così è oggi nel trionfo della delega: la calcolatrice che fa i conti al posto del cervello, la lavastoviglie che fa il lavoro delle nostre mani, l’automobile che fa quello delle nostre gambe, siamo sempre più dipendenti dagli “schiavi energetici”. Eppure l’essere umano nasce autonomo, “l’uomo, senza l’aiuto di alcuno strumento, è capace di spostarsi con piena efficienza [...] l’uomo in bicicletta può andare tre quattro volte più svelto del pedone [...] la bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l’energia metabolica dell’uomo all’impedenza della locomozione”.
L’educazione deve aiutare a far riscoprire quell’autonomia che è propria della natura umana, bisogna educare a pedalare per essere autonomi perché pedalando“si diventa padroni dei propri movimenti senza impedire quelli dei propri simili”.
La bicicletta poi, proprio come un educatore capace, “crea soltanto domande che è in grado di soddisfare. [...] l’uso della bicicletta ha in sé i propri limiti.”
I limiti che sono figli della gettatezza la condizione per cui un essere umano si scopre gettato nel mondo: ha un determinato Dna, è figlio di quei genitori, vive in una certa città senza aver scelto nulla di tutto questo. Nel momento in cui accetta questa condizione assume una inclinazione positiva in quanto comunque tutto ciò che verrà dopo, la scelta dell’uno o dell’altro percorso dipende da noi e la gettatezza ci può motivare con più forza lungo la ricerca fino alla scoperta dell’altro. Libertà che diviene riconoscimento dell’alterità e della sua straordinaria ricchezza. Educare a divenire altri ognuno nella sua singolare differenza che è propria dell’essere tutti ugualmente soggetti e in quanto tali tutti al centro del mondo. È ciò che lo stesso Illich propone come via d’uscita “dal punto in cui ci troviamo, due sono le strade per arrivare alla maturità tecnologica: una passa per la liberazione dall’opulenza, l’altra per la liberazione dalla carenza. Entrambe hanno la stessa meta, cioè una ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive”. La liberazione che caratterizza entrambe le strade proposte va ricercata entrando in una via a senso unico ma imboccandola contromano, dal divieto di accesso.
Come è ormai chiaro, camminare e pedalare non sono tenuti in conto da chi progetta, legifera, produce, pubblicizza, vende, governa. Ma anche chi si ritrova a pagare il prezzo maggiore per il consumo minore spesso non vede l’alternativa perché “la fede nell’efficacia della potenza impedisce di scorgere l’efficacia straordinariamente maggiore che si può ottenere astenendosi dall’usarla”. È la via della controricerca, quella che ci dice quanto sia “necessario identificare le soglie al di là delle quali l’energia produce guasti e farlo attraverso un processo politico che impegni tutta la comunità nella ricerca di tali limiti”.

Educare alla controcultura

Educare alla controricerca equivale a formare individui tesi ad entrare in questo processo politico, esseri umani autonomi che non diano nulla per scontato: libertà è dubbio, possibilità di guardare dietro e sotto, è cercare negli angoli più nascosti una testimonianza, una prova o una confutazione che porti ad indagare, a chiedere una dimostrazione, “che il traffico migliore sia quello più veloce, lo si afferma ma non lo si è mai dimostrato”. La curiosità della scoperta, della spiegazione che dispiega una moltitudine di percorsi tutti ugualmente percorribili, la possibilità di intraprendere una di queste strade con il senso critico acquisito attraverso quel momento duro, meraviglioso e inesorabile: la scelta.
L’invenzione del cuscinetto a sfere essendo fondamentale sia per la bicicletta che per l’automobile “aprì una vera crisi, un’autentica scelta politica: creò la possibilità di optare tra una maggiore libertà nell’equità e una maggiore velocità”. È sempre una questione di scelte, siano esse uno strumento conoscitivo, un mezzo per definire la propria differenza o una tappa per giungere in autonomia ad una decisione: “l’impatto sull’ambiente sociale dei quanta di energia confezionati dall’industria tende a provocare degradazione, logorio e asservimento, e questi effetti entrano in gioco prima ancora di quelli che minacciano di inquinare l’ambiente fisico e di estinguere la specie. Il punto cruciale nel quale si possono invertire questi effetti non è, però, oggetto di deduzione ma di decisione”.
La più importante, trionfale rivoluzione è quella che ognuno realizza dentro di sé.
L’utopia è la linfa vitale di quella rivoluzione, il nutrimento necessario da cui trarre l’energia per credere che il cambiamento sia possibile. Educare all’utopia è convincere che il cambiamento sia possibile grazie all’apporto di ciascuno e attraverso la sua partecipazione.“Proporre una controricerca non è solo uno scandalo ma anche una minaccia [...] che attraverso un processo politico si possa trovare una dimensione naturale, ineludibile e che segni un limite, è un’idea che non rientra nel mondo delle verità del passeggero [...] se dei profani attivamente impegnati in un processo politico potessero determinare l’ordine di grandezza delle velocità veicolari ottimali per il traffico, sarebbero allora scosse le fondamenta sulle quali poggia la struttura di ogni società industriale. Proporre questa ricerca è politicamente sovversivo”.Educare ad una controricerca vuol dire assumersi il rischio di proseguire controcorrente ma pregustando il momento in cui si giungerà dove “c’è posto per un mondo di maturità tecnologica [...] un mondo dove ogni luogo è accessibile ad ogni persona secondo il suo talento e la sua velocità, senza fretta e senza paura, per mezzo di veicoli che coprono le distanze senza far violenza alla terra che l’uomo ha calcato per centinaia di migliaia di anni”.

Giulio Canziani