rivista anarchica
anno 40 n. 357
novembre 2010


alternative

Il nuovo immaginario dell’emancipazione
di Andrea Papi

C’era una volta la sinistra con i suoi mondi migliori (?) da realizzare. La sinistra è scomparsa, il bisogno di immaginarli (e di realizzarli) no.
E allora noi anarchici…

 

In questa fase, ad uno sguardo di superficie sulla situazione per come si presenta, può sembrare che ogni autentico afflato di emancipazione dallo stato di cose presente stia progressivamente tramontando. La sinistra, che storicamente ne dovrebbe essere la naturale portatrice, è purtroppo praticamente scomparsa come immaginario progettuale. Ciò che ne resta è più che altro una collocazione di schieramento partitico, in Italia un generico fronte antiberlusconiano, non una visone condivisa delle cose e del mondo, con la quale invece si era qualificata alle origini.
Per troppo tempo la vastissima e variegatissima area culturale accorpata sotto il nome di sinistra si era illusa di poter vivacchiare, continuando a dissetarsi alla fonte dei miti e delle grandi narrazioni che si era autocostruita, nell’illusione che la rendessero autosufficiente senza limiti di tempo. Il fatto è che molta acqua è passata sotto i ponti e molte, troppe, cose sono mutate, fino ad azzerare il valore e il senso di quei miti e quelle grandi narrazioni, diventati per i più incomprensibili. Il patrimonio culturale classico che definiva la sinistra nel suo insieme è diventato ormai improponibile, proprio perché quasi tutti i paradigmi di riferimento, che pretendevano d’interpretare il mondo per agirvi all’interno nel tentativo di modificarlo, sono diventati spuntati e inservibili.

Paradiso in terra

A mio modo di vedere, la causa principale di questo sfascio sta nel fatto che all’interno della sinistra è storicamente diventata egemone la cultura della componente autoritaria, cioè la visione di un collettivismo imposto dall’alto, difeso da forze militariste garanti della continuità della presa del potere. Questa egemonia culturale per decenni ci ha raccontato che l’emancipazione dallo stato di subordinazione capitalista doveva avere l’aspetto dello stato operaio, del partito operaio, delle collettivizzazioni forzate, della dittatura della burocrazia di partito che agiva in nome del proletariato. Un immaginario pesante e gravoso di conseguenze.
Il paradiso in terra di questo immaginario artefatto era l’assicurazione della casa e del lavoro per tutti, oltre all’indispensabile per ognuno. Il tutto in un contesto orwelliano, dove lo stato/padre e il partito/padre pensavano ad ogni cosa, obbligando tutti ad accettare di essere protetti e difesi, mentre l’autonomia individuale e di gruppo era esclusa, perché gli individui erano pensati e impostati come soggetti di una struttura collettiva, la quale con la forza dell’autorità della classe proletaria al potere sovrintendeva dall’alto ai bisogni di ognuno. La libertà individuale sacrificata alla ragion di stato (lo stato “proletario” ovviamente) e l’economia collettiva pianificata per garantire un’uguaglianza imposta dall’alto.
Il fatto è che un tale po’ po’ di roba non ha mai veramente funzionato, né in realtà lo poteva, se non dal punto vista di uno stretto e asfissiante controllo sociale da parte di uno stato divenuto ben presto solo poliziesco. Nell’arco di circa sette decenni l’universo concentrazionario che il socialismo di stato aveva creato è crollato su se stesso ignominiosamente, non sconfitto nello scontro col capitalismo, che perlomeno sarebbe stato onorevole, ma perché imploso, per totale incapacità ad essere, perché fondato su un enorme cumulo di balle.
Gli unici rottami sopravvissuti a questo ignobile percorso, che nelle speranze alimentate ad arte dai burocratelli serventi avrebbe dovuto portare verso il sol dell’avvenire, sono Cuba e la Cina. Anch’essi però colossi d’argilla, ultima residuale dimostrazione dell’assurdità della favola che aveva alimentato i sogni di intere generazioni desiderose di vivere l’emancipazione dai gioghi politici ed economici, com’era stato promesso dai padri rivoluzionari.
Proprio quest’estate un praticamente redivivo Fidel Castro, sollecitato da un’intervista, ha inaspettatamente dichiarato che il socialismo non può più essere pensato come un modello da esportare nel mondo, dal momento che non funziona nemmeno per Cuba, dove è imposto da quel fatidico 1 gennaio 1959. La Cina invece è stata inventiva ed ha generato un mostro. Ha conservato la struttura dittatoriale del partito bolscevico, che occupa tutto il potere statale e s’impone di forza su qualsiasi questione, riducendo al minimo le libertà civili, proibendo l’autonomia sindacale e delle forze politiche, impedendo la libertà di pensiero e di manifestazione. Al contempo, vista l’inconsistenza pratica che la caratterizzava, ha abbandonato la fallimentare economia di piano ed ha abbracciato in pieno il capitalismo, di cui in origine doveva essere l’alternativa. Ha così ottenuto di mettere in piedi una delle peggiori dittature politiche, accompagnata dalle peggiori forme di sfruttamento e assoggettamento economico.
Dovunque la strada autoritaria per l’alternativa ha portato verso la regressione di terrificanti oscurantismi fondamentalisti.

Sistema di dominio

Collegati a questa impostazione fallimentare, che i suoi fautori hanno avuto la capacità e l’abilità di rendere per qualche decennio culturalmente egemone tra le masse, nel momento in cui il finto paradiso terrestre è crollato rovinosamente con tutte le sue assurde balle, sono pure spariti l’immaginario e la tensione emancipatori. L’utopia che alimentava la speranza e la voglia di riscatto da non luogo cui aspirare si è trasformata in una distopia purtroppo realizzabile, un luogo incubo da cui fuggire. Così l’universo culturale di massa della sinistra, e la sinistra stessa come prospettiva politica, abbindolati da quei falsi miti di cui si alimentavano, trovatisi totalmente privi del supporto che li teneva in piedi si sono volatilizzati come immaginario e come dato di fatto.
A completare il fallimento, nel frattempo è sparita anche la componente socialdemocratica riformista, quella che storicamente avrebbe dovuto realizzare lo stato socialista non attraverso la presa rivoluzionaria del potere, ma attraverso la rappresentanza democratica, trasformando lo stato borghese dall’interno sorretto dal consenso elettorale. Da qualche decennio ormai gli eredi del socialismo riformista dichiaratamente non aspirano e non mirano più a realizzare la società e lo stato socialisti, mentre tentano di proporsi, esattamente come ogni altra forza liberal/democratica, come regolatori del capitalismo. Il sogno autoritario di liberare l’umanità dal giogo dell’oppressione economica e politica è definitivamente fallito, scomparso in tutte le sue componenti e le sue scuole di pensiero. Non è un eufemismo sottolineare che è diventato improponibile, al di là delle ridicole illusioni di alcune frange minoritarie ed emarginate che cocciutamente si ostinano a riproporre quella favola, non solo non più bella, ma ormai veramente orrenda nella coscienza collettiva.
Nel frattempo, accanto a questo declino inarrestabile della sinistra istituzionale storica, sono cambiate molte delle cose di fondo che caratterizzano il sistema di dominio, non statico nella sua struttura come pretendeva una certa ermeneutica ideologica di sinistra, ma estremamente dinamico e molto meno vulnerabile di quello che speravano i suoi detrattori. Il mondo non può più essere guardato come una strutturale ed endemica lotta tra due classi contrapposte, lanciato verso un destino che pretenderebbe d’ingabbiare il futuro nella dittatura della classe ora subordinata.
L’intreccio e le trame degli interessi in campo sono molto più complessi e intricati della semplificazione teoretica di uno scontro dialettico, perché le classi e le categorie sociali mutano forma e sostanza nello sviluppo costante del loro divenire. Soprattutto non sono affatto dipendenti strutturalmente dalle dinamiche economiche dei sistemi produttivi, come pretenderebbe una certa ermeneutica ideologica. Le spinte e le dinamiche in campo, quali elementi attrattori capaci di determinare la composizione degli intrecci e dei modi di manifestarsi, sono molto più complessi delle forme strutturali che possono assumere per un certo periodo. Sono di fatto al di là degli stati, della proprietà privata, del capitalismo produttivo e viaggiano al di fuori delle strutture ingabbianti. Per esempio l’accumulo delle rendite finanziarie, che oggi rappresenta l’elemento di sostanza di riferimento per l’esercizio del dominio, oppure ancora l’abilità di sapersi muovere autonomamente e con capacità di potere all’interno della rete informatica e comunicativa.

Una nuova visione del mondo

Se vogliamo perciò riconsiderare, come ritengo indispensabile, la possibilità di muoverci per continuare il cammino verso l’emancipazione dallo stato di subordinazione economica e politica che continua a condizionare pesantemente la vita di miliardi di esseri umani, dobbiamo porci seriamente il problema della costruzione di un nuovo immaginario e di una più adeguata visione del mondo da proporre. Un nuovo immaginario e una nuova visione del mondo che, pur riprendendo le tematiche e soprattutto il senso da cui prese avvio l’universo culturale, sperimentale, di pensiero e di lotta della sinistra, al contempo sia capace di andare oltre, per ridefinire il tipo di società verso cui tendere, i modi e i metodi della convivenza e della qualità delle relazioni sociali, le forme e la sostanza e l’etica che facciano da sostrato a quale “essere società” si vuole realizzare.
Perché il bisogno di emancipazione non è affatto né surclassato né superato, dal momento che non siamo affatto ancora liberi, mentre continuiamo ad essere assoggettati, costretti, ingabbiati, ricattati, emarginati e condotti di forza verso condizioni alienanti. Le tematiche e i valori da cui prese origine la sinistra, all’interno della quale nacque anche l’anarchismo, non sono affatto tramontati. Il raggiungimento dell’eguaglianza sociale, nel riconoscimento e nella valorizzazione delle differenze e delle diversità, la solidarietà come base della convivenza sociale e la partecipazione effettuale come base dei metodi decisionali, sono obbiettivi valoriali tuttora più validi che mai. L’anarchismo completa questo quadro emancipatorio aggiungendo la valorizzazione di ogni individuo, come unicità del suo valore esistenziale, e il superamento del comando gerarchico e delle strutturazioni oligarchiche per le decisioni collettive.
Bisogna prendere consapevolezza piena che al contrario sono definitivamente tramontati le forme i metodi e le proposte della sinistra storica per realizzarli. Quella che eufemisticamente viene ancora definita sinistra, da decenni è completamente sganciata da tutto ciò che possa far parte di un processo d’emancipazione. Non rappresenta più nulla se non la propria autoreferenzialità.
La possibilità dell’emancipazione, che dalla rivoluzione francese in poi rappresenta il faro di luce del cammino degli ultimi e degli oppressi, può riprender fiato, fiducia e ulteriore vigore se prende piede una consapevolezza generalizzata che tutte le opzioni autoritarie sono solo orpelli che non possono che condurre al fallimento più totale, come la storia del socialismo ha finora ampiamente dimostrato. Il libertarismo invece ha un ottimo riferimento storico: la rivoluzione spagnola del 1936, fulgido esempio di alternativa anticapitalista e antiautoritaria. Prima di essere repressa nel sangue, durante il breve periodo in cui ha potuto manifestarsi coinvolgendo qualche milione di persone, ha dimostrato che una società altra, fondata sui valori della libertà sociale, della solidarietà, della ricchezza collettiva e di una decisionalità autogestita, può funzionare bene. A differenza del socialismo autoritario di stato che al contrario è imploso perché incapace di funzionare.
Dobbiamo mirare a un nuovo immaginario dell’emancipazione e una nuova visione del mondo. Bisogna cominciare a vedere il cammino dell’umanità non più come lotta per assoggettare la natura, com’è stato finora perché ha sempre prevalso la spinta al dominio e al predominio su tutto, cose o esseri viventi, ma finalmente come rapporto integrato col contesto naturale perché parte di esso, in modo tale che quando si pensa a come organizzare la società in cui si vive, non si abbia più lo sguardo ristretto di una socialità puramente della specie umana che si impone su tutto il resto, ma appunto come parte di una socialità molto più ampia, di cui siamo inscindibilmente parte.
È la visione di un nuovo umanesimo che si emancipa, perché non concepisce più se stesso come dominatore del mondo e dell’universo, ma come componente di un’ampia “unità nella diversità”, per dirla alla Bookchin.

Andrea Papi

La senegalese Ba Madame, la Pollo del Campo e gli schiavi ribelli

Il 29 giugno 2010 Ba Madame, operaia di origine senegalese, viene pesantemente insultata e aggredita da un dirigente della Pollo del Campo, fabbrica di S.Sofia nel forlivese, dove lavorava da circa 6 anni rinnovando un contratto annuale dopo l’altro. Nulla di nuovo in sé. Episodi simili, più o meno gravi, ne succedono in continuazione nei luoghi di lavoro, soprattutto nei confronti di persone di origine non italiana, perché diversi quindi più esposti e considerati inferiori sul piano sociale. La differenza di questo caso rispetto agli innumerevoli altri è che Ba Madame ha deciso di non subire e si è ribellata denunciando l’ingiustizia e la sevizia subite. La cosa è allora potuta venire alla luce, rompendo anche il fronte dell’ipocrisia che vorrebbe sistematicamente nascondere ogni malefatta del potere per farlo rimanere sempre impunito. Naturalmente la Pollo del Campo ha reagito male a questa risposta che la metteva a nudo davanti all’opinione pubblica: ha licenziato l’operaia ribelle che ha osato far sapere oltre le mura della fabbrica e l’ha denunciata per aver gettato fango sull’immagine dell’azienda. Un solo individuo senza potere alcuno che ha il coraggio di sfidare apparati potenti e protetti per il trionfo della verità non può che avere tutta la nostra simpatia.
Attorno al caso di Ba Madame si è subito formato un coordinamento di solidarietà che, oltre a denunciare il fatto specifico, si è posto il problema di creare un fronte di denuncia e di resistenza per contrastare il dilagante aumento di neoschiavismo nei luoghi di lavoro, dove manager, nuovi padroni e dirigenti con sempre più arroganza s’impongono sulla pelle degli esseri umani loro sottoposti. Tra le iniziative messe in campo, questo comitato di solidarietà ha creato anche un luogo della memoria, il sito schiavi ribelli, con l’intento di raccogliere testimonianze dirette di maltrattamenti subiti sui luoghi di lavoro.
Nella speranza di raccogliere una copiosa quantità di situazioni per denunciare il malcostume e la concezione di subordinazione del lavoro, xenofoba e schiavista insieme, molto più diffusi di quello che in genere si suppone, invitiamo perciò chiunque, uomo o donna, abbia subito ingiustizie, vessazioni, prepotenze sui luoghi di lavoro a comunicarci e farci avere la sua esperienza. Non ha importanza se anonima. In una società dove i ricchi e potenti sono sempre pronti a sbranare i più deboli e indifesi, noi pensiamo che ognuno abbia il diritto di non esporsi se non se la sente. Ognuno deciderà autonomamente se dichiararsi. La sua vicenda avrà per noi uguale valore.

Andrea Papi

Indirizzo del sito: http://schiaviribelli.tk