rivista anarchica
anno 40 n. 357
novembre 2010


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Viola del Cile

Fu nei mesi successivi al settembre ’73 che il popolo italiano, la sua parte più bella, mostrò grandezza d’animo. Non si dormiva, non si mangiava tranquilli, ogni nuova notizia la si aspettava con tremore, con palpitazione, con speranza. Ogni cattiva nuova – e quante ne arrivavano! – era accolta con disperazione, ma disperazione attiva, reattiva. Per le piazze, per le vie, manifestando, cantando, la più bella gioventù di Milano, di Roma, di Padova, di Bari, di Napoli, di Livorno stava fremente per il Cile in lotta sotto il colpo di stato di Pinochet, per le lunghe settimane di sangue, per la resistenza soffocata. Lo stadio di Santiago, “promosso” dagli assassini della giunta militare a campo di concentramento, divenne uno degli emblemi dell’orrore fascista. Il male assoluto.

La partecipazione a quell’evento tragico fu enorme, commovente, capillare. Il Cile era percepito come un paese vicino e simile a questo. Il suo governo socialista riformista era scrutato, certo con diffidenza da alcuni, ma con quale interesse! La fine tragica e dignitosissima e quell’ultimo appello radiofonico del Presidente Salvador Allende commosse anche il cuore dei più intransigenti rivoluzionari. Fu un evento epocale e non c’è uomo o donna della sinistra parlamentare, extraparlamentare o dell’area libertaria, attivo in quel periodo che non ricordi perfettamente quegli avvenimenti e quel clima.

Sulla base di quella commozione l’interesse per la cultura cilena e andina crebbe enormemente. La presenza del gruppo Inti Illimani (all’epoca del golpe erano impegnati in una tournée europea e sarebbero rimasti 15 anni esuli in Italia) ci dotò di ambasciatori di quella musica originale e ricca. Quel nome assieme a quello dei Quilapayùn, di Victor Jara, di Juan Capra divenne noto non solo alla ristretta cerchia degli appassionati. Fu allora che si diffuse anche qualche frammento dell’opera cantata di una delle più straordinarie figure dell’arte del ‘900, Violeta Parra. Ma Violeta era già un pezzo che se n’era andata per proprio mano. Lasciate a noi le sue canzoni, gli strumenti popolari che fabbricava da sé, gli arazzi di lana che l’avevano resa famosa nel mondo, in un momento di solitudine, lontana dal suo amore, Violeta s’era sparata un colpo in testa alle due del pomeriggio del 5 febbraio del ’67.

Mi chiamo Violeta Parra, ma non ne sono così sicura. Ho cinquant’anni messi a disposizione del vento forte. Nella mia vita m’è toccato tutto molto secco e troppo salato, ma questa in fondo è la vita, una rissa in cui non si capisce niente. L’inverno si è installato in fondo all’anima mia, e comincio a dubitare che da qualche parte ci sia la primavera; non faccio niente di niente, di sicuro non spazzare. Non voglio vedere niente di niente, ora metto il letto davanti alla porta e vado.

L’incontro con Violeta è impressionante come quello con la sua voce: una voce alta, grezza, forte. Una voce che può tenere testa a tutto, una voce intransigente.

Io canto alla maniera cilena
se ho qualcosa da raccontare
e non suono la chitarra
per ottenere applausi.
Io canto la differenza
che c’è tra il vero e il falso
altrimenti non canto.

Violeta Parra

Il percorso di Violeta, attraverso il suo paese e poi nel mondo, alla ricerca di radici musicali per diventare essa stessa radice, confonde cultura popolare e ansia di futuro, diventa l’anima e la strada di un intero continente alla ricerca di sé. Simile a lei, ugualmente originario, c’è solo Atahualpa Yupanqui, ma quanto questi è una montagna placida percorsa dai venti, intangibile e solido, tanto Violeta Parra è vulcanica, sismica, perennemente agitata dall’ansia, aspra, inquieta. Violeta non ha la tecnica classica con cui la chitarra di Atahualpa purifica le melodie andine, rendendocele chiare e trasparenti come lied popolari, non ha quella sorta di soffio raschiato e solenne che è la voce di Yupanqui quando scandisce solitudini cercate e incontri di anime indie che paiono divinità della terra. Violetta usa davvero la mano come una zappa e percuote le corde per liberare la melodia dalle sbarre, l’espressività è in lei fatto totalizzante e la sua voce è tavolta stridente, ma sempre chiara e urgente. Violeta è carnale e accesa, disperata e sensuale. Anche nel rapporto con le tematiche sociali – che occupano una grossa parte del suo repertorio – non c’è l’ironia un po’ superiore e un po’ rassegnata del gaucho argentino, ma il morso violento, l’indignazione incontenibile, l’irrisione feroce.

Guarda come ci parlano di libertà
mentre ce ne privano, a dire il vero
guarda come predicano tranquillità
mentre ci tormenta l’autorità.

Guarda come ci parlano del paradiso
mentre grandinano le pallottole.
Che dirà il santo padre
che vive a Roma
mentre gli sgozzano
le sue colombe?

Figlia di un professore di musica e di una contadina, nasce in un umile sobborgo del sud del Cile il 4 ottobre del 1917. Le condizioni della famiglia sono difficili - reggendosi sul povero impiego del padre - ma la brigata dei fratelli Parra, che conta una decina di componenti, fra i quali il maggiore Nicanor sarà uno dei massimi poeti latinoamericani del ‘900, è allegra. Quella casa sarà stata povera, ma la sua atmosfera è stimolante: quasi tutti i fratelli Parra si occuperanno più o meno professionalmente di musica, di poesia, di ricerche antropologiche e folkloriche. Il padre, il professor Parra, sotto il governo del generale Ibanez viene allontanato dall’insegnamento, forse per motivi politici, e perciò colpito da una profonda depressione passa due anni a letto e muore, la situazione economica dell’intera famiglia precipita.

Violeta esordisce ancora immatura, cantando per necessità, in duo con la sorella, nei bar, nelle trattorie e dovunque si possa le cose alla moda che permettono di racimolare qualche magro cachet e qualche mancia. È un repertorio di canzoni fintamente popolari, folklore posticcio che scimmiotta gli stilemi popolari ma che li banalizza evirandoli del loro potere rivoluzionario. Nicanor, il fratello intellettuale che studia nella capitale Santiago (Violeta non ha potuto frequentare che i primi due anni di scuola superiore), la invita a cercare più a fondo. Lei raccoglie la sfida e percorre campagne e bidonville di casa in casa, ricompensando con i pochissimi soldi che ha o con i suoi stessi vestiti gli anonimi informatori, i miserabili che le insegnano canzoni e ritmi. In capo a due anni ha registrato tutto ed elaborato per sé un nuovo stile esecutivo. La radio le affida un programma sul canto popolare. La torrenziale forza espressiva lascia qualcuno attonito, ma la verità dei brani e la convinzione soprannaturale della voce rendono Violeta nota in tutto il paese. Nota, amata dagli umili, mal sopportata dai reazionari e dai bigotti, comunque non ricca. Intanto la sua anima di fuoco si appassiona alle rivendicazioni dei lavoratori, si avvicina al partito comunista e si sposa con un ferroviere sindacalista, dall’unione nascono due figli canterini: Isabel e Angel. Il matrimonio però naufraga presto: anche i sindacalisti comunisti amano più gli “angeli del focolare” che le donne libere. Violeta si risposa e le nascono ancora due figlie, ma anche il secondo amore s’immiserisce fino alla separazione.

L’uomo che più amo
dentro il cuore ha il fiele.
Mi priva delle sue piume
sapendo che pioverà.

Un invito a partecipare al programma musicale di un festival polacco le permette di conoscere l’Europa, di soggiornare lungamente in Francia, dove canta, registra ed espone le sue arpilleras (splendidi arazzi tessuti con lane coloratissime) financo al museo del Louvre in una personale rimasta leggendaria. Ma dal momento che nella vita ogni gioia è macchiata di dolore, mentre è a Parigi riceve la notizia che la figlia Rosita Clara è morta di polmonite all’età di due anni (si ascolti il disperato Rin de l’angelito scritto nell’impotenza della lontananza).

Da quel momento e per tutto il decennio che le resta, la vita di Violeta sarà un andirivieni fra l’Europa e il Cile amato e odiato, fuggito eppure necessario, tanto più che nel ’60 conosce l’ultimo, il grande, contrastato amore della sua vita, un musicista ginevrino innamorato del jazz dall’animo inquieto di straniero. Gilbert Favre all’inizio è completamente soggiogato e conquistato dal fuoco di questa donna straordinaria che ha 13 anni più di lui: abbandona il clarinetto e i dischi di Bebop e si dedica anima e corpo alla quena, il flauto tradizionale andino, la segue in tutte le peregrinazioni, l’accompagna in ogni progetto splendido e folle, poi – forse fagocitato da troppa energia – comincia ad eclissarsi, ad estraniarsi e infine parte lontano.

Sopra il carro dell’oblio
prima dell’albeggiare
da una stazione del tempo
deciso a vagabondare
Run-Run se n’è andato al nord
forse per non tornare.
Tornerà per il compleanno
della nostra solitudine.(…)
Prese la carta e l’inchiostro
forse un ricordo, chissà
sena pena né allegria
senza gloria né pietà
senza rabbia né amarezza
senz’astio o libertà.
Vuota come la fossa
in cui va l’umanità.
Run-Run ne n’è andato al nord
io rimango a sud
in mezzo c’è un abisso
senza musica né luce.
Ahi, ahi, ahi, ahimé.

Gilbert Favre e Violeta Parra

Dolore si aggiunge a dolore, dolore non scorda dolore: una cupa predestinazione sembra aleggiare sul Cile (Santiago penando estas, scrive in una canzone incredibilmente profetica), dove Violeta è tornata per l’ultima volta nel ’65 inaugurando un nuovo grande spazio – oggi si direbbe multimediale – nella periferia della capitale La carpa de la reina in cui suona, dipinge, scolpisce, cucina… ma il pubblico pare non accorgersene. Lei si sente vecchia, sola e soppiantata da tutta una generazione di cantori (fra cui primeggiano i suoi figli) nata da ciò che lei stessa ha seminato. Solo chi non ha seminato ha paura della morte, aveva detto una volta. Violeta non ha paura di niente e così varca l’orlo del suicidio, ma subito prima consegna al mondo la più bella preghiera laica, il più straordinario inno all’esistenza che sia mai stato scritto, la canzone ispanica più interpretata e famosa del mondo. Violeta assente, chissà se ti divertirebbe saperlo…

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato due occhi che quando li apro
distinguo perfettamente il nero dal bianco
e nell’alto cielo il suo sfondo stellato
nella moltitudine l’uomo che amo.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato l’ascolto così tanto aperto
che sento notte e giorno grilli e canarini
martelli, turbine, latrati, burrasche
e la voce tenera di chi sto amando.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato la voce e l’abbecedario
e poi le parole che penso e dichiaro,
madre, amico, fratello, luce che illumini,
la strada dell’anima di chi sto amando.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato il cammino dei miei piedi stanchi,
con loro andai per città e pozzanghere,
spiagge e deserti, montagne e pianure
e la tua casa, la tua strada, il tuo cortile.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato il cuore che agita i confini
quando guardo il frutto del cervello umano,
quando guardo il bene così lontano dal male,
quando guardo il fondo dei tuoi occhi chiari.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto,
così distinguo gioia e dolore
i due materiali che formano il mio canto
e il canto degli altri che è lo stesso canto
e il canto di tutti che è il mio proprio canto.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it