rivista anarchica
anno 40 n. 357
novembre 2010


movimento anarchico

Uscire dal tunnel. Ma come?
di Antonio Cardella

Bravi a denunciare l’involuzione del sistema e le derive autoritarie e xenofobe, ci ritroviamo anche noi anarchici coinvolti nella difficoltà di dare indicazioni concrete e praticabili.

 

Quando si spense l’ultima nota della trasmissione La storia siamo noi, da Gianni Minoli dedicata agli anarchici (“Quando l’anarchia verrà”, RAI 2, 17 marzo 2010), fui colto da irritazione irrefrenabile, che trasmisi subito alla paziente compagna della mia vita e ai compagni spazialmente più prossimi.
Sembrava che lo speaker si aggirasse smarrito nel paesaggio lunare di una civiltà sepolta, sul quale pallidi archeologi si aggirassero con picche e scalpelli per disseppellirne reperti e caratteri cuneiformi incisi su pietre.
Va bene la storia, ma è possibile che noi anarchici siamo sempre quelli dei Bresci, dei Sacco e Vanzetti, della guerra civile spagnola? È possibile che, al di là di Piazza Fontana, che ci ha visto vittime sacrificali, non si parli mai di cosa sono stati gli anni Settanta e Ottanta del Novecento per l’evoluzione del pensiero anarchico, a prescindere dagli slogans e dalle fredde dichiarazioni di principio? È possibile che nessuno parli dei Failla, dei Marzocchi, dei Mantovani, dei Mazzucchelli, dei Cerrito e dei tanti altri nostri compagni dei GIA e dei GAF cha hanno attraversato e segnato un periodo cruciale della storia italiana ed europea? Uomini che hanno prestato il volto e la loro opera ad un Movimento in crescita esponenziale e che si sono impegnati, spesso sino allo sfiancamento fisico, perché alcune tematiche che gli anarchici dibattevano da oltre un secolo divenissero patrimonio di una generazione in rivolta. Uomini che, con consapevolezza libertaria, sono stati testimoni del passaggio epocale dalla seconda alla terza rivoluzione industriale, uomini di una generazione dopo la quale nella società borghese nulla sarebbe stato più come prima.
Se non è storia questa, che cos’è allora la storia?
Ma, infine, è poi possibile che, sempre, quando si parla di anarchici italiani, non si scenda a sud di Carrara, quasi che il Meridione d’Italia fosse stato, e sia, estraneo all’affermarsi e all’evolversi del pensiero libertario?

Attraverso un travaglio individuale

Sbollita l’irritazione per questo parlare degli anarchici in termini prevalentemente di memoria, poi, a mente sgombra, realizzai che, se i giornalisti avessero spostato la loro curiosità sul presente della Federazione e, più in generale, del Movimento libertario, avremmo avuto, tutti noi e non soltanto i compagni intervistati, serie difficoltà a rispondere. Perché, a parte le confuse e velleitarie istanze di parte del movimento no global, pochissimi e inascoltati pensatori anarchici hanno affrontato in termini libertari gli immensi problemi posti dal mondo contemporaneo. Siamo stati certamente bravi a denunciarne l’involuzione e le derive autoritarie e xenofobe; abbiamo con puntualità denunciato il radicalizzarsi del conflitto tra capitale e lavoro e i danni provocati dalla finanziarizzazione dell’economia occidentale (e non solo), ma poi, quando le domande si spostano dalla denuncia alla prospettiva, allora siamo costretti a balbettare. Ci troviamo anche noi coinvolti nella difficoltà di procedere verso lo sbocco del tunnel.
Mi rendo conto della difficoltà di iniziare un discorso che ci immetta nella direttrice corretta per realizzare, gradualmente, alcuni obiettivi intermedi che almeno non contraddicano la nostra visione del mondo e le istanze di libertà, di eguaglianza e di compartecipazione solidale che sono il fondamento del nostro pensiero. Ma dobbiamo renderci conto che il disagio profondo che caratterizza il tempo presente può lenirsi soltanto fornendo indicazioni non fideistiche, non ideologiche, che consentano di operare cesure mirate con l’esistente. E, a mio giudizio, la prima tappa obbligata di questo percorso è la rivendicazione cosciente e irriducibile dell’unicità dell’individuo, contro la prassi della società globalizzata di parcellizzarlo in ruoli distinti, tutti coerenti con le logiche di dominio, che quotidianamente costringono l’uomo contemporaneo a separare i livelli del suo essere funzionale, per costrizione obiettiva, alle finalità del sistema di sfruttamento e, allo stesso tempo, a limitare drasticamente le sue naturali istanze di socialità.
La consapevolezza di questo sdoppiamento può conquistarsi soltanto attraverso un travaglio individuale, non può veicolarsi con parole d’ordine e messaggi da indirizzare a entità collettive che lo stesso potere ha sempre costretto entro confini controllabili.
Il rispetto dell’unicità dell’individuo comporta, intanto, una grande rivoluzione nella logica e nelle finalità della produzione delle risorse per la sopravvivenza: bisogna cioè che il tempo e la fatica del produrre beni materiali e servizi siano sempre commisurati con la facoltà di ogni componente della comunità di non distrarsi rispetto alla complessità delle sue funzioni sociali. E, d’altra parte, anche il destinatario di un modo di produzione che abbia questa logica deve rendersi compatibile, nella sua richiesta di consumo, all’offerta che da questa logica produttiva deriva.
Significa, in sostanza, che deve costantemente compiere, individualmente, una rigida selezione nell’aderire o meno alle sollecitazioni che giungono da un modo di produrre fine a se stesso, a prescindere dalle reali esigenze dei fruitori finali.

Uscire allo scoperto

Facciamo un esempio banale ma, a mio modo di vedere, significativo. A più riprese, i nostri governi hanno promosso incentivazioni per la rottamazione delle auto. Adesso, se i vari provvedimenti mirassero a togliere dalle nostre strade autovetture inquinanti, di vecchia concezione e dai consumi esorbitanti, tutto andrebbe bene. Il fatto è che, nella realtà, tali iniziative sono sempre prese per ripianare bilanci in rosso delle principali industrie del settore, così che finiscono con l’incentivare l’accelerazione del ricambio del parco macchine dei consumatori, un’accelerazione che riduce artificiosamente il ciclo vitale delle macchine in strada. È come se, nel soddisfare il nostro bisogno di frutta, ogni volta consumassimo metà di un’arancia, di una pera o di una mela, gettando nei rifiuti l’altra metà. Una distruzione di risorse, insomma, che griderebbe vendetta se noi tutti non fossimo immersi nel vortice di un consumo indiscriminato.
Se è pacifico che la vera rivoluzione deve compiersi in prima istanza dentro ciascuno di noi, la via da percorrere a me sembra essere quella di comprendere appieno il senso dei nostri atti e di non renderli in contraddizione relativa con i nostri obiettivi. Sottolineo il termine relativa perché anche questa riappropriazione della dimensione compiutamente sociale dell’individuo è un processo arduo e pieno di ostacoli in una società che, di fatto, procede in senso opposto.
Se tutto quello che abbiamo sin qui scritto è condivisibile nelle sue linee generali, allora abbiamo una sola via da percorrere: dobbiamo uscire allo scoperto, dobbiamo aprire le nostre sedi a dibattiti pubblici che trattino di questi temi anche con la partecipazione di intellettuali e tecnici che, pure se non anarchici, condividono il nostro disagio di vivere la stagione grigia di un declino apparentemente inarrestabile.

Antonio Cardella