rivista anarchica
anno 40 n. 358
dicembre 2010-gennaio 2011


72 scritti...
che palle!

 

Gli scritti sono pubblicati in ordine alfabetico per nome proprio (e non, come di consueto, per cognome) per sottolineare la familiarità del rapporto che unisce la redazione di “A” ai suoi collaboratori.

 

La casa libertaria?
Ecologica e autocostruita

di Adriano Paolella

L’uniformazione produttiva ha espropriato le comunità e le persone delle capacità tecniche del costruire e quindi di definire soluzioni specifiche.

L’attuale diffusa conformazione della casa degli uomini è la soluzione specializzata, e colpevolmente parziale, alle esigenze umane. Operando con criteri industriali di uniformazione e standardizzazione delle esigenze, di massima redditività e minimo costo, di centralizzazione della produzione l’esito morfologico della casa è una scatola alienata dal contesto della cultura, delle attività e dell’ambiente. In tutte le parti del mondo la casa contemporanea è formata da vani con le medesime funzioni, strutturati e relazionati alla stessa maniera aggregata in unità immobiliari nella quantità e con la densità dettata dalla speculazione.
Eppure l’ambiente e la creatività determinano modalità di vita diverse e il combinarsi di innumerevoli luoghi, individui, culture dovrebbero conformare innumerevoli soluzioni edilizie.
Ma l’uniformazione produttiva ha espropriato le comunità e le persone delle capacità tecniche del costruire e quindi di definire soluzioni locali. Il prodotto uniformato, culturalmente scadente, energeticamente e ambientalmente insufficiente, è sostenuto da una filiera di produzione di materiali, tecniche, attrezzature e organizzazione dei processi di tale forza economica che asservisce le amministrazioni ed impone soluzioni alle comunità. Case con materiali e tecniche di scarsa qualità ambientale con ridotti orizzonti temporali coerentemente vengono riempite da mobili, strumenti, merci della medesima qualità, sono enormi accumuli temporanei di rifiuti.
Nelle case si dorme, si mangia, si riposa ma in generale non si lavora, non si crea, non ci si relaziona con l’ambiente; nella logica aberrante della divisione delle funzioni, vi sono altri spazi altrettanto specializzati. Così la vita della casa è defraudata da attività fondanti quali, ad esempio, la manutenzione e l’adattamento della stessa o la produzione, il trattamento e la conservazione degli alimenti.
La casa è svuotata di attività, il tempo nell’abitazione è svuotato di azioni e riempito di atti alienanti; la casa è uno dei contenitori del tempo disperso (vedi televisione, rete, etc).
Così la casa, sia in condominio sia unifamiliare, è estranea tanto alla comunità quanto all’ambiente. Gli spazi verdi privati tentano un rapporto con la natura, ma questo è così malamente impostato che l’esito sono edulcorazioni dei caratteri sublimi della naturalità e immiserimento delle forme naturali in un contesto controllato e rigidamente gestito.
La casa libertaria è autocostruita, o comunque fortemente partecipata, con materiali principalmente naturali e locali; essa pone un’attenzione prioritaria alla riduzione del “peso” ambientale, morfologico, energetico e sociale, risponde alle esigenze specifiche dell’abitante, tende ad essere il luogo della complessità della quotidianità non parcellizzando le funzioni e relazionandosi con l’ambiente e con le altre unità abitative.

 


La città libertaria?
Leggera e piccola

di Adriano Paolella

Ogni piccolo centro può essere rivissuto con nuova autonomia.

Gli insediamenti contemporanei sono la risultante di azioni che, anche quando mediano gli interessi fondiari e immobiliari con quelli degli individui, non hanno come fine il benessere della comunità.
L’attività dei tecnici, progettisti, pianificatori, esperti in genere, per comporre lo spazio delle comunità dovrebbe essere a supporto delle richieste delle stesse, mentre oggi si configura come una totale delega usata, inoltre, troppo frequentemente per accontentare gli interessi dei potenti e degli speculatori. L’abitante, condizionato dalla forme e dall’organizzazione spaziale dei luoghi, si adatta faticosamente ad una situazione di cui non è né protagonista né partecipe.
Città imposte dall’interesse e subite dalla comunità, non lasciano tregua e piegano gli abitanti a modalità di vita aberranti, a comportamenti nocivi per la loro salute e dannosi per l’ambiente; città che dovrebbero essere chiuse, dichiarate inagibili per le condizioni di estremo degrado ambientale e spesso sociale; città dalla possente forza attrattiva in cui si concentrano economia, mercato, relazioni, possibilità di “successo”. L’aumento delle dimensioni degli insediamenti riduce il rapporto con il territorio e le risorse, centralizza i servizi e gli approvvigionamenti annullando la capacità di autonoma sopravvivenza delle comunità e asservendole sempre più a monopoli e gestioni private. In una città nessun individuo può direttamente trasformare gli spazi, né conformare il paesaggio, né produrre i propri alimenti, né accedere all’acqua o ad altre risorse indispensabili per la propria esistenza. In nessun parco pubblico un individuo può piantare un albero, né porre un nido, né allevare galline, né modificare, adattare, mantenere, riqualificare. Sono spazi predisposti per lo svolgimento di una specifica funzione di cui viene fornita anche la regolamentazione di uso; sono un’astrazione delle necessità degli individui, una semplificazione delle complessità dell’abitare, una limitazione dell’essere. Nella dicotomia pubblico-privato ciascuno spazio ha una sua funzione ed un suo regolamento; ma il loro insieme non soddisfa le esigenze e il piacere della comunità.
Le città contemporanee sono l’immagine concreta di una organizzazione sociale, sono rappresentazione di un autoritarismo culturale, economico e sociale altrove meglio celato.
Una comunità dovrebbe avere la possibilità di definire i luoghi in cui vivere e dovrebbe farlo potendo ricercare in via prioritaria il proprio benessere basato sullo stabile e duraturo equilibrio tra effettive necessità, disponibilità locali di risorse.
La città libertaria è tendenzialmente leggera, morbida, con dimensioni e numero di abitanti direttamente collegate alle risorse disponibili; città stabili non in crescita, né demografica né spaziale, ove le comunità si riappropriano di una delega data indirizzando le scelte degli amministratori, gestendo direttamente le attività, ricucendo il rapporto con le risorse, perseguendo un’autonomia economica, adattandosi alle condizioni dell’ambiente ed adattando esso senza destrutturarlo.
Ogni piccolo centro può essere rivissuto con nuova autonomia, ogni città può essere parcellizzata in aggregazioni più piccole attraverso l’azione diretta e la pressione esercitata sui “tecnici” per una urbanistica sociale e ambientale in cui il benessere diffuso non trovi compromessi, in cui i piani non siano giustificativi e mediatori di interessi, in cui le comunità controllano e gestiscono gli spazi e, attraverso di essi, la propria esistenza.


Il signornò
dei non sottomessi

di Agostino Manni

Senzapatria era la principale rivista anarchica che sosteneva le nostre idee.

La prima volta che fui arrestato, nel gennaio dell’’88, esistevano in Italia tre grosse carceri militari: Peschiera del Garda per il Nord, Forte Boccea a Roma e Santa Maria Capua Vetere per i detenuti del Sud. C‘era poi qualche caserma minore, come il carcere di Bari Palese, dove stavano in isolamento prevalentemente detenuti in attesa di giudizio, e dove fui trasferito dal civile di San Vittore, a Milano, dopo il mio arresto avvenuto nella stessa città.
La popolazione di un carcere militare – oltre agli sbirri colpevoli di qualche reato, che in genere stavano in un reparto distinto del carcere – era composta perlopiù da centinaia di Testimoni di Geova ai quali si aggiungevano varie decine all’anno di insubordinati, soprattutto disertori, militari di leva spesso analfabeti, privi di qualsiasi sostegno legale, politico ed economico. Poi c’eravamo noi, gli ‘obiettori totali’ o ‘non sottomessi’, con un nome mutuato dagli ‘insoumis’ della Spagna, dove centinaia di compagni ogni anno rifiutavano la leva, compreso il servizio civile sostitutivo obbligatorio.
In Italia il fenomeno riguardava solo pochi individui, quattro o cinque all’anno, quasi tutti anarchici, che scontavano per il rifiuto circa un anno di galera, cui potevano aggiungersi mesi a causa di altre condanne per le frequenti proteste e insubordinazioni. Senzapatria era la principale rivista anarchica che sosteneva le nostre idee: pubblicizzava le nostre lotte, denunciava i casi dei disertori e degli insubordinati, informava sui processi, raccoglieva fondi, stampava libri e opuscoli, organizzava manifestazioni....
In realtà tutta la stampa anarchica ci sosteneva: quasi su ogni numero, nell’anno e passa della mia galera, A-Rivista ha pubblicato qualche mia lettera, qualche mia denuncia, qualche mio urlo da quell’assurdo buco di mondo. All’epoca il PCI in Italia si opponeva all’abolizione della leva obbligatoria: col pretesto che, eliminandola, sarebbe mancato un baluardo contro il rischio di colpi di stato da parte della destra e dei militari, si legittimava una clientela nella quale evidentemente il ‘Partito’ gestiva alla grande voti ed affari.
Anche all’interno del movimento anarchico le posizioni non erano uniformi: alcuni sostenevano la necessità di un’opposizione dentro le caserme, tra il ‘proletariato in divisa’, una stategia praticata da alcune organizzazioni dell’estrema sinistra italiana negli anni ‘70.
La non sottomissione partiva invece da un altro presupposto: sosteneva che la costruzione di un mondo nuovo non poteva prescindere dal rifiuto netto del sistema dominante, in ogni sua forma: la patria, l’esercito, la chiesa, la fabbrica, la famiglia, la scuola. Il rifiuto di tutte queste istituzioni veniva considerato una premessa necessaria e imprescindibile alla costruzione di una società di liberi e di uguali. Con in testa queste idee e nel cuore questi sogni, tanti giovani anarchici in quegli anni sono stati rinchiusi in un carcere militare.

 


La musica...
dov’era la musica?

di Alessio Lega

Abbiamo bisogno di una ricerca strenua delle radici più pure e profonde

Nei salotti lustrati da servi venerati nei concerti segreti dai segreti merletti nei templi invecchiati da ricordi fottuti. È là che appassisce la Musica, è là che abortisce la Musica... Noi nelle strade la vogliamo la Musica. E ci verrà. E l’avremo la Musica.

Diceva – anzi cantava – Léo Ferré, il più profeta e il più libertario dei cantautori. Portare la musica e la poesia nelle strade è il compito che s’è prefisso certa canzone, quella di cui mi occupo, quella contro cui certi sostenitori dell’arte pura o del minimalismo si scagliano.
Mestiere duro quello di fare stare le canzoni all’altezza delle strade come una testimonianza, come una rivolta gettata in faccia a chi vuol capire e a chi non vuole, senza “vasellina di violini” (per dirla con un grande un po’ troppo dimenticato, Herbert Pagani). Come uno strumento di resistenza al potere, all’oblio, alla morte.
Persino noi stessi valutiamo a volte poco questo strumento: quanti di noi si sono avvicinati a certe idee perché le hanno sentite cantare? La libertà è un’idea che canta.
Quanta gente è diventata anarchica per “addio Lugano bella/gli anarchici van via” (non certo dall’orecchio, visto che questa canzone si canta da cento e più anni), per:

Non son l’uno per cento ma credetemi esistono.
Hanno bandiere nere sulla loro speranza
e la malinconia per compagna di danza
coltelli per tagliare il pane dell’amicizia
e del sangue pulito per lavar la sporcizia
.

o per:

Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.

Poi si va avanti, si studia, si approfondisce... ma la prima pulce nell’orecchio (è proprio il caso di dirlo) spesso la mette una canzone. A canzoni forse non si fanno rivoluzioni – come hanno detto in tanti – ma senza canzoni la memoria perde uno dei tasselli cui reggersi.

Leo Ferré

Scrivo queste note nel settembre del 2010. Nel luglio di quest’anno è ricorso il cinquantesimo anniversario dei tragici fatti di Reggio Emilia: il 7 luglio del 1960 cinque dimostranti disarmati furono uccisi dalla polizia, che aprì il fuoco nel corso di una manifestazione. Fausto Amodei dedicò a quelle vittime un brano divenuto celebre. Recentemente Fausto è stato presentato al pubblico così: “Questi è Amodei, per chi non lo conoscesse, quello che ha fatto i Morti di Reggio Emilia”.
“Veramente è stato il governo Tambroni a farli” ha chiosato subito “io mi son limitato a celebrarli”. L’aneddoto è buffo e mostra bene come la memoria di certe vicende si affidi ai canti. Oggi quei morti son diventati la loro canzone. Non è una cosa irrispettosa, più vivo di un libro quel pugno di versi trasporta la memoria storica dei cinque di Reggio, la fa vibrare nell’indignazione dei nipoti, come vibrò in quella dei fratelli, come ha vibrato in quella dei figli.
Di fatti simili, di tanta sanguinosa repressione, di troppe storie di piombo sulle folle, e di qualche bel momento di felice rivendicazione manca la testimonianza cantata. Ed è male.
Oggi che la comunicazione di massa mangia e distrugge subito ogni notizia è più che mai necessario scrivere le nostre canzoni e per farlo abbiamo bisogno di una ricerca strenua delle radici più pure e profonde, perché molte delle nostre parole si sono stancate e bisogna rinnovarle, trovare nuovi modi per cantare la stessa storia.
Cantare come Woody Guthrie, che viveva sui treni nell’America degli anni ’40 e aveva scritto sulla chitarra “questo strumento uccide i fascisti”. Come Lluis Llach, il catalano costretto all’esilio per aver scritto L’Estaca. Come Jacek Kaczmarski che riprese quella canzone in polacco e la fece diventare l’inno di Solidarnosc. Come Violeta Parra, la pasionaria cilena che cantava come dipingeva e che si suicidò dopo aver composto Gracias a la vida. Come Victor Jara, suo allievo spirituale, assassinato dai militari durante il colpo di stato del 1973. Come Zeca Afonso la cui canzone Grandola fu il segnale d’inizio della Rivoluzione dei garofani il 25 aprile del ’74. E poi i due francesi Ferré e Brassens, libertari e opposti per carattere e poetica, opposti come due poeti, differenti come due anarchici.
Questa è la ricerca che sta alla base della rubrica “E compagnia cantante” per cantare al presente, scrivendo una lettera d’amore agli uomini che verranno.

continua...