rivista anarchica
anno 40 n. 358
dicembre 2010-gennaio 2011


 

Quell’edicola
Che non c’è più

Nella terza di copertina di ogni numero di “A” c’è l’elenco dei nostri punti-vendita. Fino allo scorso numero, a Milano, accanto a librerie, qualche edicola, centri sociali, ecc. c’era anche questa curiosa indicazione: vendita diretta davanti alla Stazione Nord (p.le Cadorna) tutti i mercoledì dalle 17 alle 19. Se andavi lì, nel luogo e nell’orario indicati, trovavi lui, Franco Pasello, in piedi, di fronte all’entrata più affollata della stazione, proprio nell’ora di punta del rientro. In mano Umanità Nova, “A”, magari Sicilia Libertaria, e appoggiati per terra o nella borsa (per evitare grane con i vigili o i poliziotti), alcuni libri – magari proprio quello ordinatogli la settimana prima da quello studente residente nel Varesotto e da quel professionista, tutto elegante, che faceva il pendolare da Como. Franco era un’edicola umana, o – se preferite – un uomo/edicola.
Con regolarità, da decenni, presidiava quel luogo in quell’ora. Così come aveva fatto per più di vent’anni, il sabato (prima per tutta la giornata, poi – sai, è dura andarci direttamente dal lavoro dopo la nottata del venerdì, quando si fa il pane triplo – solo al pomeriggio) alla Fiera di Sinigaglia, il mercato delle pulci milanese. Per tanti anni da solo, poi insieme con Lillino e Patrizio, poi di nuovo da solo.

Franco Pasello
(foto Ivana Kerecki, grazie a Fabrizio Casavola)

Era mitico Franco, aveva un’innata capacità di vendita, era la gioia di noi editori. In realtà il trucco c’era, quel ragazzone che con il passare degli anni diventava più vecchio restando sempre un ragazzone, investiva molto di sè in quell’attività apparentemente commerciale. Sembrava che vendesse, in realtà cercava l’occasione per parlare, per spiegare le nostre idee, per dire e ascoltare commenti sull’attualità, per “cuccare” o almeno cercare di farlo con le ragazze. Era solido come un’edicola vera, te lo ritrovavi lì con la pioggia e il gelo (che a Milano non mancano, con un inverno che può andare da ottobre a marzo), sempre con la sua chiacchiera, il suo sorriso, la sua comunicativa. Quando me lo ritrovavo al fianco in qualche corteo, si divertiva sempre a fare il confronto con la mia incapacità: io vendevo per venti euro, lui per settanta, più un abbonamento, più il numero di cellulare di una ragazza, più il volantino della cena vegana dato a due di Mortara, ecc.. A volte mi sembrava anche eccessivo, al limite dell’insistenza.
Franco non era amico dei Rom, era un Rom. Non a caso solo nei campi regolari e irregolari lui si sentiva del tutto a casa propria. Più ancora che in redazione, dove in media è venuto almeno una volta alla settimana per 35 anni – e, d’estate, quando non andava in ferie, ti si piazzava qui con la chiacchiera, ed era un problema (e solo qualche Franco ne parliamo la prossima volta, se no non riusciamo a fare la rivista nuova e ti tocca continuare a vendere quella vecchia lo faceva desistere).
I suoi amici Rom (qualcuno anche amico mio) non gli rompevano, come noi a volte facevamo, con l’invito a curarsi i denti, a lavare più spesso i suoi vestiti, a darsi una regolata. Nei campi era amato, faceva foto a tutti, ma soprattutto parlava, stava ad ascoltare, cercava di capire quel mondo così diverso dal nostro. Dal nostro? Che dico: certo Franco, persona di grande sensibilità umana, di attente letture, di fini ragionamenti, partecipava anche al nostro mondo anarchico, ma la componente Rom è andata assumendo sempre maggiore peso nella sua vita. E lui, single certo non per scelta, ha sempre trovato nella grande famiglia allargata degli zingari, dei giostrai, dei Sinti la propria famiglia: quella famiglia che non ha mai avuto, da piccolo, e che non si è creato da grande (e chi lo conosce sa quanto ciò gli pesasse).
E allora ti snocciolava le parentele, i Braidic, i matrimoni incrociati, le detenzioni (tante) e le scarcerazioni (poche), e le fuitine delle ragazze, i raid nei campi delle forze dell’ordine. E poi comprava e divorava tutto quanto c’era sui Rom, la loro storia.
Aveva una forte etica del lavoro. Non saltava mai un turno di notte, aveva un’intima coscienza del valore sociale del panificare.

Franco Pasello
(foto Roberto Gimmi)

Non era un “talebano”. Convintissimo delle idee anarchiche, dedito come pochi altri alla loro diffusione, aveva una mentalità aperta, frequentava anarchici di tutti i tipi, da quelli dei centri studi agli insurrezionalisti, attento a capire ma fermo nei propri convincimenti. Bazzicava i vegani e mangiava carne, era di fondo un individualista ma non si applicava etichette e non considerava quelle altrui dei filtri per l’amicizia o la collaborazione. Era critico verso le forme che gli apparivano troppo organizzate nel movimento anarchico, ma (per esempio) aveva tanti amici nella FAI (di cui non avrebbe mai fatto parte) e ne vendeva il settimanale anche se spesso non ne condivideva il taglio o alcune cose: era troppo libertario e serio per farsi condizionare, nella sua attività di venditore, da giudizi personali e contingenti. In questo, era più serio e affidabile di altri che, pur parlando di militanza e di organizzazione, introducono motivi polemici ad ogni piè sospinto.
Era molto sensibile, anche troppo – se esiste il troppo. E per una sua vicenda personale, che aveva a che fare con amore, paternità e altre cose di grande rilievo personale, perse quasi la testa e arrivammo a litigare di brutto. Per tanto tempo ridusse di molto la sua frequentazione della redazione e si ritrovò “contro”, fortemente critici, tanti compagni e amici. Fu un periodo orribile per lui, per altri e altre, per noi.
Capii in quei mesi, lunghi mesi, che cosa significhi “sangue del mio sangue”. Scientificamente Franco non era sangue del mio sangue, ma di fatto è come se lo fosse: non fui capace di rompere con lui – di litigare sì, e tanto – per quante stronzate potesse fare (e ne fece, quante ne fece in quel periodo). Era come un mio fratello minore, o forse Aurora e io eravamo per lui figure un po’ genitoriali – ed io in particolare, forse, in parte, quel padre che non ebbe mai e che ancora non tanto tempo prima di morire era andato a cercare a Lendinara, il paese del Rodigino in cui era nato 56 anni fa. Risultato: una volta saputo chi era, il padre lo cacciò, intimandogli di non farsi più vedere, se no avrebbe chiamato i carabinieri. Quanta sofferenza nel suo racconto di questo viaggio nella terra natia!
Ne aveva vissute di cose forti, Franco. Come quella notte di una quindicina di anni fa, quando si era ritrovato, come sempre, nel cuore della notte, solo con il panettiere per cui lavorava. Per una tragica fatalità, il suo “padrone” letteralmente perse la testa, risucchiata e maciullata negli ingranaggi di un macchinario. E da solo con quel cadavere decapitato e sanguinante, Franco aveva dovuto avvisarne la moglie, che abitava nello stesso stabile, finendo – Franco – all’ospedale sotto shock. E da qui aveva chiamato Fausta, della redazione di “A”. Noi, la sua famiglia.
Tante immagini si affollano nella mente: la campagna per Monica Giorgi, Senzapatria, il periodo della sua appartenenza al gruppo Anarres (l’unica sua “appartenenza” che io ricordi), le sue critiche a tante cose che abbiamo pubblicato, la sua passione per la bici (rigorosamente l’unico suo mezzo di trasporto), la sua essenzialità nel vivere, con tirchierie e generosità.
Tra tante immagini, spicca la nostra prima volta. Era il 1976, ero in corrispondenza con lui, giovane detenuto per rifiuto del servizio militare. Si era fatto vivo prima dal carcere militare di Gaeta, poi da quello civile (si fa per dire!) di Sondrio, per chiedere l’invio della rivista e di alcuni libri. Poi uscì e ci scrisse. Abitava non distante dalla redazione, ma non venne a trovarci. Insistetti e alla fine venne, era imbarazzatissimo, non spiccicava una parola, ma ci fece subito simpatia. Tornò, lo intervistai. Poi ci fece conoscere sua madre, fummo invitati a pranzo. Il ghiaccio era rotto. Ora tutto questo appartiene al passato.
Franco è morto, un ictus a casa sua, mentre due Rom che lui aiutava da tempo (me ne aveva parlato) erano probabilmente passati a lavarsi i vestiti e a bere un caffè. Quei due Rom rumeni, che dormono in un’auto, non troveranno nessun altro gagio (come i Rom e i Sinti definiscono i non-appartenenti al loro popolo) che apra loro le porte della propria casa e della propria vita, come faceva con naturalezza Franco. Una cosa che nessuno di noi, pur grandi teorici della solidarietà e bla bla bla, farebbe mai. E che lui, invece, faceva. Concretamente.
Ma anche qui il trucco c’era. Franco smettila di imbrogliarci. Ora che sei morto, lasciaci dire la verità: tu non sei mai stato un gagio. E i tuoi fratelli Rom, i soliti imbroglioni, lo sapevano o almeno lo percepivano.

Paolo Finzi

 

In ricordo di
Alex Langer

Nella primavera del 1995 avevo rivisto Alex Langer a Campogrosso, al confine tra Veneto e Trentino. Alpinista, esponente degli “Europarlamentari amici della montagna” e di Mountain Wilderness, auspicava la realizzazione di un Parco naturale delle Piccole Dolomiti. Davanti alla lapide in memoria del partigiano vicentino Toni Giuriolo (esponente di Giustizia e Libertà, ricordato da Meneghello in “Piccoli maestri”), aveva osservato che “Vicenza e provincia, purtroppo, godranno a lungo della notorietà internazionale (all’estero è già stata soprannominata “la Rostock d’Italia”) acquistata con la manifestazione dei naziskin dell’anno scorso”. Partiva da qui una serie di riflessioni su “l’attuale situazione politico- culturale impregnata di rigurgiti razzisti, di conflitti etnici più o meno latenti...”.
L’amara constatazione di Langer era che “al momento attuale interi strati di giovani sembrano non avere alcuna competenza di tematiche quali la solidarietà, la non violenza, la difesa dei diritti umani”. Si salvavano quelle “frange attive di volontariato che comunque sembrano rivolgersi soprattutto ai casi singoli, personali, ma che appaiono meno presenti sul piano collettivo”.
Forse pensavamo – aveva aggiunto – che i giovani hanno comunque in sé le potenzialità per una cultura alternativa all’egoismo, al rampantismo, all’individualismo. Invece sembra che stiano diventando una brutta copia degli adulti”.
Parole molto dure, in parte ancora attuali.
Non era comunque privo di speranze per il futuro: “Molti di questi giovani che si sono fatti drogare dalla televisione non si sono mai sentiti dire una piccola frase:“Vieni e vedi”. Si tratta di creare ambiti in cui poter partecipare senza che questo comporti omologazione o sottoscrizione di una ideologia. Sono convinto che dalla diffusione del volontariato civile potrà derivare una rigenerazione politica”.
Sudtirolese di lingua tedesca, figlio di un medico ebreo austriaco fuggito prima a Firenze e poi in Svizzera durante il nazismo, Langer aveva vissuto con estrema partecipazione i conflitti tra serbi, croati, bosniaci. Era stato uno dei fondatori del Verona Forum per la Pace e la riconciliazione nell’ex Jugoslavia, una rete di collegamento tra tutte le etnie coinvolte nelle guerre balcaniche. “Gli incontri di Verona – ricordava – erano cominciati ancora prima del novembre ‘92 e della marcia pacifista a Sarajevo. E già allora abbiamo verificato come fosse difficile mettere insieme queste persone. Molti di loro non volevano riconoscersi sotto la sigla “ex Jugoslavia”. Abbiamo cominciato a incontrarci con gruppi minoritari, donne, pacifisti, democratici... Sono più di duecento le persone che hanno partecipato ad almeno uno degli incontri, confrontandosi e arrivando a firmare documenti comuni”. E naturalmente ognuno di loro “nel partecipare alla compilazione di un documento, di una dichiarazione deve anche pensare alla posizione della sua etnia”.
L’ultimo periodo della vita di Alex Langer era stato convulso. Aveva investito ogni energia nella lista per la sua candidatura a sindaco di Bolzano, pensata per “sciogliere i grumi esistenti nel mondo della politica, senza ferire le persone e senza sottovalutare la loro esperienza”. Per una “Bolzano città europea, luogo di convivenza stimolante. Città gentile, ospitale, solidale e sociale”. Il 29 aprile arrivò l’esclusione definitiva sia per il candidato sindaco (per aver rifiutato in due occasioni la dichiarazione di appartenenza etnica) che per la sua lista. Il 19 maggio giunse a Bolzano Selim Beslagic, sindaco della città bosniaca di Tuzla, tradizionalmente un luogo di pacifica convivenza. Langer lo aveva accompagnato in vari incontri in Italia e in Europa per istituire proprio a Tuzla un’“ambasciata delle democrazie locali”. Ma una settimana dopo, con una granata che uccise settanta giovani davanti ad un bar, la guerra riprese il sopravvento. Con l’appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo e con la manifestazione del 26 giugno a Cannes, sconfessando in parte la sua storia personale di pacifista, Langer chiedeva, in sostanza, un intervento per “dare qualche segnale chiaro che l’aggressione non paga”.
Poi la tragica conclusione. Non lontano da San Miniato, nella Toscana che amava, quella di Barbiana (sua la prima traduzione in tedesco di “Lettera ad una professoressa”) e dell’Isolotto (dove, coincidenza, lo avevo conosciuto nel 1969). Un cordino da arrampicata, l’albero di albicocco e i tre biglietti, due in italiano e uno in tedesco: “I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti per questa mia dipartita.(....). Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto. Pian dei Giullari, 3 luglio 1995”.
Pochi giorni dopo, l’11 luglio, le milizie serbe di Karadzic e Mladic entravano a Sebrenica.

Gianni Sartori

 

A proposito di terra,
Capitale e lavoro

Nel tempo ho cercato di comprendere il senso dello svilupparsi della situazione economica/sociale cercando di non basare le analisi solo sulle interconnessioni tra i tre fattori: Terra, Capitale, Lavoro, ma osservando la “logica” propria di ciascuno di questi tre fattori, “logica” che, in situazioni difficili, ha finito sempre per imporre il più forte a danno degli altri.
L’originario poco conto che si è dato alla Terra, nel suo complesso, che in quanto considerata dono divino agli uomini, si riteneva sfruttabile illimitatamente, era ovviamente fallace. La “logica” propria della terra oggi si impone con la sua forza di reazione distruttiva agli altri fattori tanto da obbligarli, volenti o nolenti, a tenerne invece il massimo del conto. (Cosa ancora non pacificamente accettata)
Il Capitale, che ha superato l’ iniziale forza limitata ai soli mezzi finanziari, oggi rappresenta l’intera organizzazione legale/sociale della quale si è appropriato contando sulla complicità delle religioni, sul controllo sullo Stato teso, tra l’ altro a garantire, con ogni mezzo, il diritto alla proprietà reso eterno con l’ereditabilità.
Il Lavoro, puntando la sua forza sulla capacità dei lavoratori alla solidarietà e alla sobrietà, ha creato le sue organizzazioni che, esclusi gli anarchici e i primi socialisti, sono andati sempre più alla ricerca della loro legittimazione, appiattendo le loro rivendicazioni, sulle leggi apparentemente economiche, trascurando che il potere Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, erano in mano o condizionati fortemente dal Capitale che, quando non in contrasto con i suoi interessi, avrebbe, al massimo, permesso un lieve miglioramento del tenore di vita ma mai accettato il diritto individuale all’ eguaglianza.
Infatti, man mano che la scienza e la tecnologia hanno consentito, come originariamente previsto in favore dell’ umanità, (ricordate il “Balletto Excelsior) un’utilizzazione numericamente sempre meno impegnativa del lavoro, il Capitale ha preteso, per la misurazione dei valori, i semplicistici (falsamente neutri) risultati di mercato. Questo ha comportato, l’accettazione passiva e la complicità da parte della società dello sfruttamento intensivo di tutti i fattori della produzione contro la promessa di un miglioramento futuro delle condizioni generali di vita.
Mentre per il fattore Terra sappiamo cosa questo sfruttamento intensivo ha significato, è’ opportuno capire come il Capitale ha inteso lo “sfruttamento” per se stesso.
Inizialmente ha diretto il “risparmio aziendale” (accantonamento degli utili) per procurarsi margini per investimenti nell’ impresa. Successivamente l’ obbiettivo degli investimenti si è spostato dall’ impresa alla finanza pura e semplice per via della facilità di formazione dei guadagni. Questa operazione è stata permessa dal fatto che il capitale ha ottenuto, sfruttando i riflessi sociali legati all’ occupazione, che gli investimenti strettamente produttivi, gravassero sul pubblico sotto forma, prima, di finanziamenti agevolati e/o incentivi e poi con partecipazioni vere e proprie che, se anche inizialmente parziali, potevano facilmente diventare totali, minacciando la disoccupazione per gli operai con la chiusura delle imprese e trasferendo così il proprio passivo interamente sulle spalle della società.
Poiché la maggior parte dell’ entrate pubbliche sono dovute; a) ai redditi da lavoro, tassati direttamente nel momento della loro formazione; b) ai contributi, che anche nella quota apparentemente in testa all’ impresa, di fatto sono anch’ essi a carico del lavoro perché esclusi dalla tassazione sugli utili; c) alle imposte indirette che gravano sui consumi, ne consegue che lo stornare fondi verso gli pseudo problemi della produzione diventano di fatto sottrazione di reddito ai lavoratori ai quali, si dice, che non possono ridursi le tasse.
Ai sindacati, chi più o chi meno, non è rimasto che confinarsi al ruolo di rivendicatori di contratti migliori, di salari maggiori ecc. sacrificando il loro scopo primario, l’ unico a cui erano veramente interessati i lavoratori, quello della costruzione di un mondo senza sfruttati e sfruttatori.
Ma oggi che la Terra non consente che sia sfruttata senza freni, al Capitale, non resta, con la scusa della legge del mercato, che sfruttare il lavoro e quindi, come abbiamo visto, l’intera società.
Per questo quanto più i sindacati cercano di difendere, nel paese di riferimento, i posti di lavoro di quei pochi che ancora lavorano, (magari a danno di lavoratori di un altro paese) tanto più e meglio il capitale sfrutterà l’ intera società globalizzata.
Mi rendo conto che le mie osservazioni portano a ritenere che il meccanismo del mercato non è in grado di permettere la “ripresa economica” intesa come sino ad oggi si intende.
Credo, (e spero) che portino a pretendere una “ripresa umana e sociale” per la quale tanti si sono battuti. Ripresa che non ha mai avuto il significato di arricchire se stessi a danno di altri.
Il lavoro ha sempre saputo che la ricchezza di alcuni comporta la miseria per tutti gli altri.

Angelo Tirrito