Note sul cinema italiano
Più si parla di rinascita del cinema italiano e più la crisi si fa più grande e più devastante. Questo anno, nonostante gli ottimi incassi di alcuni film (Giù a sud, Femmine contro maschi, Che bella giornata, Qualunquemente, solo per citarne alcuni…) in Italia si realizzeranno non più di 50/60 film contro i circa 100 dell’anno scorso. E molti di questi (i drammatici per dirne alcuni…) saranno invisibili, perché nessun distributore rischierà dei soldi per farli uscire nelle sale. Questo dicono le previsioni. Il problema non è solo finanziario. Le varie congiunture economiche dovute alla grande crisi iniziata nel 2009 si fanno sentire. Ma questo non è il vero motivo della caduta produttiva del cinema Italiano.
Oltre ai tagli al FUS (il fondo unico dello spettacolo, che finanzia la quasi totalità del cinema italiano), oltre al mancato rinnovo (solo fino a giugno 2011) delle agevolazioni fiscali (tax credit) e della possibilità per i privati di finanziare opere a carattere culturale (Tax shelter) il cinema Italiano si trova a fare i conti con una crisi più strutturale, quella cioè più propriamente artistica. Il grande pubblico (quello dei grandi numeri) si riconosce solo nel cinema comico. O meglio in un cinema comico che spesso è solo concentrato di banalità e luoghi comuni. Come se la sola unica necessità fosse ridere, ridere, ridere. Dimenticare, non pensare. Non importa riflettere, importante è svagarsi. Tutto ciò vorrà pur dire qualcosa?
Il problema non è essere contro il cinema comico in generale. Anzi. Ci sono tantissime commedie ben fatte, che ci fanno ridere e al contempo pensare. Quello che proprio non si riesce a comprendere come ci possa essere un cinema fatto di luoghi comuni e di volgarità che attrae un così grande pubblico. Caduta di interesse, rifiuto del pensiero critico, pigrizia e via dicendo. I motivi sono tanti e di non facile risoluzione. Abbiamo già considerato in una precedente riflessione la nefasta influenza della televisione sul pubblico italiano. Questa sorta di “educazione al ribasso” che ci ha trasformato da popolo a pubblico, pronto ad ogni oscenità, capace solo di balbettare. Questa gravissima malattia ha colpito intere generazioni di giovani e non smette di mietere vittime.
Un altro motivo strutturale di questa caduta culturale generalizzata si può far ricondurre agli addetti ai lavori del cinema in generale.
Possono cercare di spiegare questa crisi gli autori (sceneggiatori, registi, attori), quelli che il cinema (in tutte le sue forme) lo fanno, lo pensano, lo scrivono, lo realizzano. La loro responsabilità è grande e non permette più spazi di compromesso. Possono dire la loro i produttori? Quelli non venduti al duopolio Mediaset-Rai. Quelli che non mangiano tutti i giorni a quelle due tavole avvelenate. Quelli che hanno veramente a cuore il cinema come fatto culturale e non solo come fonte di guadagno tout court. Possono farlo i registi e gli attori? Quelli che per vivere devono accettare le regole di questo sporco gioco. Lo possono fare gli sceneggiatori? Scrivere storie che escano dai soliti luoghi comuni e banalità imperanti e magari affrontino temi scomodi o addirittura intoccabili?
Importante è la scelta delle storie e la necessità di saper interpretare la realtà circostante. Il cinema è uno specchio in cui ci riflettiamo. Il cinema parla di noi, ci racconta e ci permette di crescere, forse anche di migliorare. Chi narra storie, guarda la sua immagine riflessa e il più delle volte perde di vista il vero valore di una narrazione: la forma, il modo di raccontare. Il punto di vista, lo sguardo, l’angolazione giusta per cui anche un fatto normale può diventare straordinario. Una scelta drammaturgica precisa, politicamente chiara, senza mediazioni né censure preventive, né adattamenti fasulli è ciò che permette al narratore di arrivare alla nostra testa e ai nostri cuori. E di questo, oggi, abbiamo un gran bisogno.