rivista anarchica
anno 41 n. 362
maggio 2011


dopo il 13 febbraio

Berlu is a virus
di Francesca Palazzi Arduini

Sul mercato globale dell’immagine.

 

“Mi hanno ferito in ciò che ho di più caro, la mia immagine”
(Silvio Berlusconi)

 

Dieci giorni dopo la manifestazione Se non ora quando, che ha portato in piazza in tutta Italia un milione di persone, in maggioranza donne, un sorridente Berlusconi ha apostrofato così la presidente di Confindustria di fronte alla stampa: “la mia presidentessa, … quello che si dice una bella tusa…”. Così qualunque donna, qualsiasi cosa essa faccia, è pur sempre la sua “figliola”, automaticamente oggetto della tutela maschile del paparino.
Proprio in quei giorni è diventato lampante che la strategia dei partiti di opposizione italiani per ricacciare il Pdl, un partito che vive della faccia di B., dal governo, era inevitabilmente perdente. Questo da un momento storico ben preciso: quello in cui il Parlamento ha permesso a B. di acquistare la maggioranza dei mezzi di comunicazione di questo paese, prima col Decreto del 1984, atto a proteggere Fininvest da interventi della magistratura contro il monopolio, poi con la Legge Mammì nel 1999, infine con le liste elettorali bloccate dalla Legge del 2005.
Il 13 febbraio, in varie piazze italiane nelle quali le donne manifestavano, il Pd ancora raccoglieva le sue inutili firme per le dimissioni del prèmier … evidenziando l’assoluta convinzione di non potere fare altro. Il coraggio è mancato perché, contagiati dal virus di B., non c’è la forza di fare quello in cui si crede anche a costo di rischiare una sconfitta.
Berlusconi ha contagiato tutti con la paura di perdere. Tutti vorrebbero il Teatro trasformista di Mangiafuoco, nessuno vuole essere da meno.
E la tanto irrisa tendenza di Berlusconi a trasformarsi in “amico di tutti”, non è altro che quel gioco spesso ipocrita del “mi piace”, quel recitare a fini piacioni cui anche Facebook ci abitua. Il vecchio B. ha solo il torto di non essere abbastanza elastico, e andrà cambiato con qualcuno meno demodé. Auguriamoci che, come per il modello Wojtyla, non trovino invece che sostituti alla naftalina!

Dove c’è lesbica c’è libertà

È così anche per la sessualità: occorre piacere a tutti.
Parlando con ragazzi e ragazze, si capisce che il fatto di non provare attrazione “anche” per persone dello stesso sesso viene considerato un handicap, un restringimento del mercato, il rischio è che questa ricerca della propria onnipotenza erotica privi a poco a poco l’orientamento sessuale degli strumenti della coscienza politica ed anche dell’autocoscienza.
Parlando di orientamento sessuale, in Italia la tendenza a usare sinonimi più “trendy” e a non volersi definire con un termine, “lesbica”, che ora sembra contenere pericolose connotazioni non casuali ergo poco universali, ha risvolti politici più pesanti, perché ancora il braccio sporco del Vaticano confonde opportunisticamente in Parlamento le “pratiche” sessuali (come la pedofilia, o il …bunga bunga, cioè la sodomizzazione punitiva) con l’orientamento sessuale.
L’esperienza lesbica è essenzialmente un’esperienza di libertà. Ovunque ci sia una lesbica c’è il fantasma della non-famiglia, dell’eros non industrializzato. Ovunque noi siamo, seppure introducendo elementi riformativi come la famiglia lesbica con figli, i nostri restano sentimenti virali per il patriarcato e la potenza dell’autonomia femminile è percepita come una mina vagante. Come possiamo condividere con le altre questa nostra esperienza, che è politica?
Come Sarah Hoagland ci ricordava (già 22 anni fa!) l’orizzontalità nei gruppi, il riconoscimento delle altre, una differente etica basata sul focalizzarsi l’una con l’altra e sull’integrità e non su comunità e regole chiuse, sono patrimonio lesbico che rompe l’etica tradizionale patriarcale basata sul controllo. Possiamo usare questi valori per cercare di capire se i nostri bisogni sono reali o indotti dal mercato, quanto il moralismo patriarcale sta intaccando la nostra libertà di giudizio.
I giudizi morali sulle D’Addario, le Ruby, le Brambilla, le Carfagna, sono fuorvianti: occorre un giudizio politico.?Cosa possiamo dire a queste donne che non somigli a una predica o a un insulto, se che non sono veramente libere, nonostante la loro spregiudicatezza e il loro atteggiamento da Jeune fille... una che non si coinvolge mai totalmente una che “per sottrarsi alla tirannia della merce ha deciso di diventarlo essa stessa”. Un’altra lesbica, Audre Lorde, può venirci in aiuto col suo ricordare come l’erotismo possa essere abuso di se stesse, se non viene condivisa con l’altro/a la propria capacità di sentire. Senza voler fare moralismi quindi, questa riflessione è fondamentale per uscire dal pantano che ci ha addirittura ridotto a considerare donne come la D’Addario delle nuove “eroine”.
Siamo donne nella privazione di parola, in una società dello spettacolo ormai spacciata come l’unica società reale, gestita da uomini i quali, oltre a mantenere gli orpelli dell’eterosessualità e a volerci bamboline nell’arena mediatica, scoprono il fascino conformista del trans gender e dei suoi prostituti, “più donne” che noi nate donne. In questa ricerca maschile di autarchia, a noi che aria resta da respirare?

Politica inefficace?

La libertà, e l’abuso, riguardano anche il discorso dell’ organizzazione e della scelte in politica , innanzitutto la deriva leaderistica attuale, quella che un uomo, Paolo Barnard, chiama “l’annullamento verticale” o la “cultura della visibilità”.
Quella visibilità, che noi lesbiche abbiamo usato negli slogan degli anni ‘80, ora è termine negativo nel fenomeno della politica-spettacolo.
In occasione della manifestazione del 13 febbraio, molte femministe storiche hanno preso la parola, alcune rivelando una tendenza al travisamento: Luisa Muraro, e in parte anche Lea Melandri, hanno invocato il fatto che gli uomini dovevano essere “indignati” per il comportamento di B., come se non lo fossero stati. La Muraro ha spocchiosamente definito la scelta di manifestare come dimostrazione di una “politica inefficace” e non ha partecipato. Lea Melandri ha affermato che la mobilitazione era la “proiezione” dell’offesa sul corpo delle donne da parte degli uomini. Altre voci, come quella di Paola di Cori, hanno operato critiche più costruttive, sottolineando ad esempio in “Madamine, il catologo è questo” l’uso di liste o cataloghi anti-veline operato dai giornali per “dimostrare” che le donne non sono solo le bambole che costruisce il Pdl in tv e in politica, uso che di solito ottiene il risultato contrario.
Monica Lanfranco ha riaffermato con una bella nota critica che occorre fare attenzione alla difesa tout court della prostituzione, perché “connettere sessualità e denaro … non cambia per nulla la logica capitalistica e neoliberista nella quale oggi siamo prigioniere e prigionieri”.
Lidia Cirillo, dopo aver analizzato il fatto che la destituzione di B. non possa avvenire se non dopo altre elezioni, conferma la visione di chi ha visto la mobilitazione del 13 febbraio, indetta dal giornale diretto da Concita de Gregorio, l’Unità, come “moralista” perché basata solo sugli scandali sessuali, Cirillo però fa di peggio, quando afferma che le ragazze come Ruby sarebbero “poveracce alla ricerca di un reddito che non trovano altrove, e che è impietoso additare al pubblico disprezzo”.

Ma noi non tolleriamo più un’organizzazione verticistica

Si è spesso operata una critica feroce, esagerando le affermazioni contenute nel testo delle promotrici. Certo, il disagio provocato anche in Chiara Saraceno, perché, a suo dire, l’indignazione coinvolge per lo più la compravendita dei corpi e non ad esempio quella dei voti, è stato un disagio reale causato dal pericolo che il Pd volesse strumentalizzare la protesta femminista, più che dalla realtà, che è stata quella di una multicolore manifestazione di massa. Perché, invece di esagerare nelle “sensazioni”, noi femministe non diciamo le cose come stanno, e cioè che non tolleriamo più un’organizzazione verticistica e di potere nell’ambito femminista, le “convocazioni” invece delle consultazioni, le “matrone” più che le “autorevoli”? Che abbiamo bisogno di riconoscimento e non di essere usate per far numero quando le “opinion leader” si muovono su parole d’ordine già decise da loro?
Persino donne di paesi sottosviluppati sembrano evolutissime rispetto alle nostre burocrate che fanno il verso alle vere femministe! La condizione femminile in Italia è un pantano di ambizioni culturali, velleità politiche e frustrazioni globali...” così scriveva Carla Lonzi nel 1973, ed eravamo ancora lontane dal constatare come il femminismo italiano si divaricasse tra, da un lato, le conquiste ed i paletti istituzionali e dall’altro un’esoterica compagine di Madri simboliche, nei fatti più simboliche che... materne.

Il corpo delle donne, un marchio registrato?

Ora anche in Italia si avvera il fenomeno descritto da Susan Faludi nel suo recente saggio “American Electra. Feminism’s Ritual Matricide”, la scissione tra “vecchie” e “nuove” femministe, e mentre l’orizzonte politico muta, per ovviare alla scarsità di rappresentanti ufficiali spunta un nuovo soggetto: la donna Trademark, Lorella Zanardo.
Eravamo tutte incuriosite, all’uscita del documentario “Il corpo delle donne” di Zanardo, che ha fatto pervicace opera di diffusione mediatica di se stesso.
Il video visibile sul blog era interessante per la scelta di contenuti che altrimenti non avremmo mai visto se non in sessioni da Arancia meccanica di Mediaset. Le citazioni dell’onnipresente “Re Pomodoro”, il filosofo Galimberti, non ci convincevano ma eravamo geneticamente predisposte al buonismo. Poi apprendevamo che si chiedeva una robusta cifra, dell’ordine di un migliaio di euro, per la presentazione del video con l’autrice. E ancora dopo scoprivamo che “Il corpo delle donne” diventava un marchio registrato.
Vi sono giovani docenti, femministe, che studiano questo argomento e si relazionano tra loro; sono sicura che il loro stipendio di un mese, se c’è, consiste in poco più del costo di otto ore del nuovo prodotto di Zanardo, “Occhi nuovi per la tv”, che prova che il confezionamento a misura di mass media è vincente sulla ricerca. Le “popstar della cultura” sono pronte/i alle tournée.
Nell’universo della politica dei movimenti la situazione non è differente, e dai solipsismi “femministi” si passa ai leaderismi maschili. Scriveva Monica Lanfranco dopo il G8 di Genova che il linguaggio “smilitarizzato” è necessario per combattere l’oppressione, quel linguaggio invece ribadito col colpo di mano deciso da pochi: la “conquista” territoriale della “Zona rossa”. Come lesbiche possiamo capire bene il discorso di Monica sulla pericolosa somiglianza tra i linguaggi, perché viviamo da sempre la nostra non-collocazione e modaiola omologazione (femme o butch) nell’universo parlato al “maschile”. Dobbiamo imparare a capire quando esprimere rabbia è nocivo per noi, ed omologante, e quando liberatorio.
Questo mi è accaduto anche con le amiche di Rivolta, e accetto che sia stato così: come si può aprire una strada senza che ciò avvenga?... mi hanno sentita superiore e questo è un equivoco che pagherò. Adesso devo ritirarmi e fare solo gesti alla pari” le parole di Carla Lonzi suonano marziane in un periodo in cui manca la riflessione sul leaderismo nei gruppi, e sulle pratiche organizzative. Molte Comunità virtuali (ad esempio Wikipedia) hanno un sistema oligarchico per la gestione generale e democratico per la contribuzione, nei movimenti politici la contribuzione orizzontale è ancora più rara e continuamente a rischio.
Passando alla politica istituzionale, altro dissenso a Mister B. è sceso giù per rivoli più o meno insospettabili, così per Rosy Bindi nel momento in cui pronunciava la frase “Non sono una donna a sua disposizione” citando involontariamente un comma lesbico, che per Franca Corradini del No Berlusconi Day, che all’improvviso ha un’intuizione femminista, esce dal gruppo e denuncia : “non sopporto che si facciano cose nuove con metodi da politicanti vecchi. Non è la prima volta che prendo le distanze, ma fino ad ora ho taciuto perché la manifestazione riuscisse...”.

Se patriarcato non è

Che le donne non amino i nuovi leader, come Beppe Grillo, è comprensibile, vista la sua verve ben imperniata sul leaderismo, l’uso della stessa aggressività e volgarità dei suoi avversari, e il far girare un meccanismo di comunicazione tra “iscritti” privo di garanzie partecipative a livello generale, come ben specificato sul sito del Movimento: “Il nome del Movimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso”.
Un marchio, quindi, sul quale solo una persona ha dei diritti di uso ed il controllo della macchina mediatica, tanto è vero che, dopo il raduno 2010 a Cesena, tragicamente denominato “Woodstock a 5 stelle”, non sono mancati gli interventi sul web di questo tenore: “Grillo non ci diamo pace, come è possibile ? Se, per finanziare gli eventi c’era bisogno degli introiti pubblicitari perché a Cesena ci hai preso per il culo tuonando contro la pubblicità? Quanto è stato l’incasso per due giorni di spot sul web e su Sky?
“La fabbrica di Niki” è anch’essa animata da uno spirito obamiamo di fabbricazione del leader, che deve leggere “video-lettere” al Prèmier e scegliere immacolate camicie bianche per i congressi. Imma Barbarossa di recente ha criticato l’uscita di Vendola il quale, senza chiederglielo, ha proposto la Bindi come nuova futura Prèmier, la signora, giustamente, “con una patina di orgoglio femminile”, ha detto no.
E non parliamo di tv: vediamo Santoro saltellare con le operaie Omsa verso i suoi contratti milionari, assistiamo alla parata dei prodotti dell’industria culturale, come ad esempio nella vetrina di Fabio Fazio, in cui sfilano intellettuali ben più matusa dello stesso Silvio. Unica eccezione, i monologhi su politica, fiori, frutta e cose dell’eroe giovane che dà la vita, Saviano. E ditemi se patriarcato non è.

Francesca Palazzi Arduini
Un grazie a “Femminismi” (femminismi.wordpress.com) per gli spunti politici, a Tiqqun per gli “Elementi per una teoria della Jeune Fille”
e ad Alessandro Trocino per il termine “popstar della cultura”.