rivista anarchica
anno 41 n. 362
maggio 2011


immigrati

Quella riga di nulla
di Maria Matteo

Di fronte alla questione profughi/immigrati/ecc. questo governo non ha che una ricetta: gabbie, poliziotti, deportazioni.

 

Nelle trame dei labirinti che intrecciano i tentativi di cogliere gli snodi cruciali di questo primo decennio del secolo è raro trovare un incrocio dove tante strade convergono. Lampedusa è uno di questi. Un posto dove la fisicità del male ci investe direttamente, senza troppo spazio per gli artifizi della retorica e per le mediazioni sottili della ragione che calcola e divide.

Sono scene di una «Apocalypse now» mediterranea. A mezzogiorno del terzo giorno di primavera si accalcano sul molo della stazione marittima almeno mille tunisini. Nel piccolo promontorio di pietra dolomitica piantato alle loro spalle sventolano i resti delle tende di cenci e cellophane dove si sono rifugiati per trascorrere la notte. Qualche chilometro più al largo, ben visibile dalla costa, troneggia la nave San Marco: un enorme elicottero a poppa e altri tre attaccati l’uno all’altro nella zona di prua grande quanto un campo di calcio.
Nel frattempo una motovedetta della Guardia costiera scarica proprio ai piedi dei mille migranti altri 82 tunisini appena sbarcati, il boato di tre caccia dell’aeronautica militare in volo verso la Libia squarcia l’aria. Lampedusa è in guerra, l’Italia è in guerra.
” Così scriveva Mariano Laugeri sul “Sole24 ore” del 24 marzo.

Lampedusa è l’emblema della frontiera, una riga di nulla su una carta tutta azzurra di mare, una riga di nulla che separa i sommersi dai salvati.
Una riga di nulla dove si ammassano migliaia di corpi, come in un teatro, dove l’odore della paura è più forte di quello di chi trascorre le notti a terra, senza nulla.
Chi vive sulla frontiera vive di paura, la paura del vicino, povero, giovane a caccia di un futuro da acchiappare al volo. Le stesse mani che si sono tante volte allungate per accogliere profughi stremati si sono strette a pugno per respingere.

Un’immensa fossa comune

Poteva andare diversamente. Ma questo governo – chi sta all’opposizione non si colloca poi tanto lontano – non ha che una ricetta: gabbie, poliziotti, deportazioni. E una tentazione: abbandonare quello scomodo scoglio in mezzo al canale di Sicilia, farne una prigione a cielo aperto. Solo la marea che sale obbliga il ministro leghista a decidere di toccare quei corpi, che raccontano alla vecchia Europa la rivolta che ha scosso la sponda sud del mediterraneo, che testimoniano la fine di regimi deprecati ma sostenuti, finanziati, coccolati dai governi della sponda nord.
Sono i giovani tunisini che hanno cacciato Ben Alì, che hanno assaporato il gusto aspro e seducente della libertà e colgono l’occasione che si è aperta. Sulla strada del mare ci sono meno guardiani: partire è l’avventura desiderata e temuta. L’avventura di fratelli ed amici, un’avventura che spesso ha inghiottito le vite di tanti ragazzi. Il Mare Nostrum è un’immensa fossa comune, un sudario che ne avvolge le speranze. I giornalisti a caccia di informazioni da addomesticare non scatteranno mai una foto con didascalia di una fetta qualsiasi di quest’azzurro, muto testimone della ferocia delle civili, democratiche, sponde nord.
Per un breve momento i tunisini che arrivavano sono stati considerati profughi e convogliati nei CARA, i centri per richiedenti asilo. Solo quelli che non avevano l’accortezza di fare domanda di accoglienza finivano nei CIE, le prigioni per immigrati senza carte. Ma è durata poco: il moltiplicarsi degli sbarchi ha indotto il governo a fare chiarezza: i tunisini sono clandestini, solo i libici possono essere considerati profughi. Naturalmente di libici non ne sono arrivati.
Le uniche barche partite dalla Libia trasportavano somali, eritrei, sudanesi. I primi dopo due anni. I primi dopo gli accordi criminali tra l’Italia e la Libia per i respingimenti in mare. Gente in fuga da guerre e persecuzioni, che cercava asilo nel nostro paese, ma è stata rimandata verso l’inferno. Il governo di Tripoli faceva il lavoro sporco per conto del governo di Roma. Un servizio completo: respingimenti, galere, abbandono nel deserto.
Ne sanno qualcosa i profughi di guerra eritrei rinchiusi per anni nelle prigioni di Misurata e di Brak.
La Lega Nord stampò un manifesto con l’immagine di un barcone pieno di gente e la scritta “abbiamo fermato l’invasione”. I diritti umani, sui quali tante volte si sono tracciati discrimini di civiltà, diventano carta straccia quando fa comodo. Alla faccia delle convenzioni internazionali, alla faccia delle deboli proteste dell’ANHCR, l’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati.
L’ennesima partita di civiltà tra le bombe democratiche e il satrapo mediorientale di turno, ha il sapore amaro della beffa. Berlusconi e Gheddafi – come Sarkozy, Obama, Merkel, Cameron – declinano i diritti umani alla stessa maniera. Gheddafi adesso è un criminale. Eppure è lo stesso uomo che hanno baciato ed accolto, lo stesso che il governo italiano pagava per tenere serrate le porte ai disperati d’Africa.
Oggi questi stessi disperati, probabilmente sfuggiti alle galere libiche nel marasma della guerra civile che scuote il paese, si riaffacciano a Lampedusa. E al governo tocca fare buon viso a cattivo gioco ed accoglierli, in attesa che i nuovi governanti libici possano mantenere la promessa di rispettare gli accordi stipulati con l’Italia da Gheddafi.
Due anni fa l’immagine di un uomo adulto in ginocchio su un barcone aggrappato alle mani in guanti di plastica di un finanziere non spezzò l’omertà dei più verso i respingimenti in mare.
Oggi sui quotidiani appare la foto della puerpera etiope e del marito eritreo dopo il parto in mare del loro bambino. Di loro non si dice nulla, perché la loro storia a cavallo di una guerra lontana, è bene che non si sappia. Bastano le foto per far sentire tutti buoni, a posto con la coscienza.
Gli italiani, si sa, sono brava gente, mammoni con la lacrima facile facile. Ed un discreto senso degli affari. Quando gli sbarchi dalla Tunisia sono arrivati a mille al giorno, Maroni e Frattini, sono volati a Tunisi con un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Un credito sino a 150 milioni di euro più pattugliatori e uomini della Guardia di Finanza per l’addestramento. Nel pacchetto ci sarebbe anche la promessa di 2000 dollari ai tunisini che accetteranno di tornare indietro spontaneamente.
In cambio il governo tunisino ha promesso di fermare le partenze verso l’Italia e a facilitare le operazioni di rimpatrio. Un pacchetto del tutto simile a quello offerto ed accettato a suo tempo dalla Libia.

Memoria e vergogna

Quando leggerete queste righe saprete se la Tunisia è stata capace di mantenere gli impegni sottoscritti ed incassare il premio promesso. Sinora nulla si è mosso.
Per metterci una toppa, la premiata ditta del filo spinato sta aprendo 13 nuovi CIE temporanei in strutture abbandonate dell’esercito. La prima tendopoli è stata aperta nell’ex aeroporto militare di Manduria. Le altre le stanno preparando, riaprendo caserme fatiscenti ed aree militari abbandonate da decenni.
Ma che importa. Quel che conta è spegnere la paura, suscitata ed alimentata da anni di propaganda razzista: quel che conta è erigere muri. La linea di frontiera è diventata mobile, attraversa tutta la penisola, con centinaia di metri di filo spinato e uomini in armi.
Nel caos chi può salta le recinzioni e si rimette in viaggio. Verso le città del nord, verso la Francia.
Pochi lo dicono ma i conti non tornano. Se le cifre diffuse dal ministero dell’Interno sono vere, se negli ultimi due mesi e mezzo sono sbarcati oltre 24.000 tunisini, ne mancano parecchi all’appello. Solo una minima parte è stata trasferita nei CIE – da due mesi in rivolta (1) – o nei CARA o nell’ex residenza dei militari statunitensi di Mineo, riattata a CIE/CARA. Alcune migliaia sono stati trasferiti nelle tendopoli.
E gli altri? O le cifre degli sbarchi sono state volutamente gonfiate oppure i tunisini fantasma sono andati ad ingrossare – in Italia e in Francia – le file dei senza carte, che campano lavorando in nero.
Il contrasto dell’immigrazione illegale è il pedaggio da pagare ad un elettorato cresciuto nell’odio e nella paura dei “clandestini” e, allo stesso tempo, il mezzo per disciplinare i lavoratori stranieri. Con o senza carte. Padroni e padroncini ringraziano in silenzio per l’arrivo di carne fresca da mettere al lavoro. Senza tutele, senza orari, senza pretese.

Siamo in guerra. Ormai a Lampedusa come in ogni dove d’Italia il confine tra guerra interna e guerra esterna è divenuto impalpabile. Si è frantumato nelle galere libiche, tra le acque del Mediterraneo, nelle campagne di Rosarno, nelle periferie delle metropoli, dietro il filo spinato delle tendopoli.
Per fermarla non basterà la testimonianza, non sarà sufficiente l’indignazione, occorrerà mettersi in mezzo, praticando una solidarietà concreta con chi incappa nelle reti dei cacciatori d’uomini. Servono robuste cesoie. Simboliche e reali. Per spezzare il filo spinato e per rompere il muro d’odio e paura che ci sta schiacciando.
Ci servono memoria e vergogna. Una memoria che non c’è, la memoria del passato coloniale dell’Italia, la memoria di una conquista criminale, di una repressione feroce, di un razzismo mai sopito. Senza memoria e senza vergogna non fermeremo la guerra. Quella interna, contro rifugiati e migranti, come quella per la Libia.
Non è facile. Eppure non si può non sentirne l’urgenza. L’urgenza di cancellare quella riga di nulla nell’azzurro tutto uguale della carta.

Maria Matteo

Fronte del CIE
Rivolte, incendi, fughe

Brindisi, Bari, Milano, Torino, Gradisca. I CIE italiani tra febbraio e marzo si sono nuovamente infiammati. Per oltre un mese si sono susseguite rivolte, incendi, atti di autolesionismo, fughe.
Protagonisti delle proteste sono quasi sempre gli immigrati tunisini, spesso imprigionati dopo lo sbarco a Lampedusa. Al loro paese hanno combattuto per la libertà e il pane e non vogliono rassegnarsi alle gabbie in cui li rinchiude lo Stato italiano.
Ecco la cronaca di questa lunga resistenza. Una resistenza alla quale lo Stato ha risposto con inaudita ferocia.
Restinco. Venerdì 18 febbraio provano a scappare in cinque dal CIE di Brindisi. Uno solo guadagna la libertà, tre vengono arrestati.
Mercoledì 23 febbraio due reclusi provano a fuggire dal CIE di Bari Palese: vengono arrestati in seguito ad un colluttazione con gli agenti di guardia. L’accusa è di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale.
Sempre il 23 febbraio a Torino, nel Centro di corso Brunelleschi, un ragazzo si taglia i polsi: mentre viene condotto fuori, altri due provano a scavalcare la recinzione. Uno ci riesce ma è subito ripreso e malmenato dalla polizia.
Al CIE di Trapani, dove la tensione è sempre molto forte, nella notte tra il 23 e il 24 febbraio i reclusi spaccano tutto quello che gli capita sotto mano.
Giovedì 24 febbraio al CIE di Bologna un ragazzo tunisino si è cucito le labbra. Il giorno successivo viene convinto a farsi scucire e riportato al Centro. Naturalmente i giornali, fingendo di ignorare che labbra e palpebre cucite sono una forma di lotta ormai tristemente abituale nelle gabbie degli immigrati, dicono che il ragazzo è “fuori di testa”.
A Gradisca, la protesta comincia il 24 febbraio. In mattinata mattina i reclusi danno fuoco ai materassi, danneggiando gravemente quattro stanze della zona blu. Una decina di immigrati vengono pestati dalla polizia.
Le stanze investite dal fuoco sono in tutto sette, cui tre completamente inagibili. In serata cinque tunisini vengono arrestati e rinchiusi nel carcere di Gorizia con l’accusa di aver fomentato la rivolta. I cinque erano stati trasferiti nella struttura isontina con un volo speciale da Lampedusa.
Venerdì 25 febbraio va in onda la replica del giorno precedente: altre camerate bruciano. Un tunisino viene arrestato con l’accusa di aver appiccato il fuoco.
Sabato 26 febbraio, la Questura di Gorizia decide di liberare con foglio di via 32 immigrati, scelti tra quelli “meno pericolosi”.
Altri venti dovrebbero essere rilasciati domenica 20 febbraio, ma il Ministero dell’Interno blocca tutto. E la protesta esplode più forte di prima: bruciano altre sei camere. A fine giornata del Centro di Gradisca resta ben poco: una stanza con 8 letti per 105 detenuti.
In tre giorni i reclusi hanno dato alle fiamme la loro prigione, demolendola, stanza dopo stanza.
Maroni non sa più che pesci prendere: i CIE sono stracolmi e non c’è più posto da nessuna parte. Ammettere il fallimento nelle politiche repressive verso i clandestini sarebbe uno smacco troppo grande per un Ministro dell’Interno leghista, che sulla “durezza” verso gli immigrati ha costruito gran parte delle proprie fortune. Per questo, infischiandosene allegramente delle condizioni di vita dei reclusi, Maroni fa finta che nulla sia capitato. Il centro, nonostante non sia più agibile, non viene chiuso: un centinaio di immigrati.
I prigionieri dormono e mangiano in terra, in giacigli di fortuna, come bestie.
Torino, lunedì 28 febbraio. Nell’area gialla del CIE va a fuoco: i reclusi, in buona parte tunisini; bruciano materassi e suppellettili: la zona viene sgomberata e gli immigrati spostati in un’altra area.
Il capo di gabinetto della prefettura, Erminia Cicoria, dice testualmente: “Restano lì dove sono”. Nella tarda serata di domenica 20 marzo un ragazzo tunisino si taglia la gola, dopo una discussione molto animata con l’ispettore del centro, che lo aveva preso di mira, con amenità del tipo “mi scopo tua sorella”.
Bari. Nel pomeriggio del 15 marzo un tunisino di 29 anni ingoia delle lamette: trasportato d’urgenza all’ospedale fugge, riguadagnando la propria libertà. In serata altri sei tunisini danno fuoco ai materassi e vengono arrestati e tradotti in carcere per danneggiamento aggravato. Nella notte altri reclusi distruggono alcune suppellettili.
Milano. Nella notte tra sabato 19 e domenica 20 marzo al CIE di via Corelli ci sono stati ben cinque tentativi di suicidio. Tre ragazzi hanno bevuto detersivo e sono stati male, altri due avrebbero cercato di impiccarsi. Forse i cinque speravano di essere liberati o di riuscire a fuggire. Forse la disperazione di vedersi negato ogni futuro è diventata contagiosa in una serata di inizio primavera.
Gradisca. Non è durata a lungo la quiete al CIE. Domenica 20 marzo un gruppo di prigionieri tenta la fuga: sei immigrati riescono a far perdere le proprie tracce mentre sette vengono arrestati. Durante la sommossa quattro o cinque reclusi riescono a salire sul tetto e vengono fatti scendere con la forza. Le stanze ancora agibili dopo rivolta di fine febbraio sono state danneggiate ulteriormente.
Torino. Intorno alla mezzanotte del 20 marzo i reclusi dell’area verde danno alle fiamme materassi e suppellettili. I danni sono gravi: il fuoco rende inagibili tre dei cinque moduli abitativi. I reclusi, secondo l’ormai collaudato “modello Gradisca” non vengono trasferiti altrove ma ammassati nell’area mensa. Il 22 marzo vanno a fuoco anche i tavoli e le sedie della mensa. Radunati nel cortile e perquisiti i prigionieri vengono privati degli accendini. In un’altra sezione alcuni reclusi si tagliano per protesta: due sono vengono medicati in ospedale.
Il 23 marzo è il turno dell’area blu: vengono bruciati alcuni materassi. Il giorno successivo nella stessa area gli immigrati fanno un falò di materassi in cortile. Venerdì 25 marzo la polizia arresta due immigrati accusandoli di danneggiamento. Processati per direttissima e condannati a cinque e sei mesi, i due vengono riportati al CIE.
Solo il 27 marzo, dopo cinque notti all’aperto, quelli dell’area verde vengono smistati in altre sezioni. Per riuscirci hanno riempito anche le celle di isolamento.

Ma. Ma.