rivista anarchica
anno 41 n. 362
maggio 2011


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Brassens ou la liberté nel trentennale della scomparsa

…E rieccoci con la guerra. I bombardieri partono a bombardare. Gli ospedali sono di nuovo colpiti: “danni collaterali” di interessi economici e politici ciechi e imbecilli.

Per gli invalidi di casa nostra l’altra faccia delle medaglie
Non è il fatto di non poter tenere dietro alle ragazze, per Dio,
Ma di non poter fare ritorno sul campo di battaglia.
Decisamente il rametto d’olivo non sarà mai il nostro simbolo!

La copertina del catalogo della mostra
su Brassens in corso a Parigi

Intanto in questi mesi in Italia la celebrazione ridicola di quel torbido momento della nostra storia noto come risorgimento rinfocola l’astio reciproco di improbabili sostenitori del Re Savoia o anacronistici sostenitori del Re Borbone.

Ah, non si può proprio dire che nella sabbia
abbia messo radici quella dinastia…
Abbiamo poche possibilità che
si detronizzi il Re degli Stronzi.

Può ben dormire quel sovrano
fra due guanciali, sereno…
Abbiamo poche possibilità che
si detronizzi il Re degli Stronzi.

D’altronde i capofila della cultura anti-unitaria, della ricerca delle radici territoriali, della rivendicazione dei dialetti sono – poveri noi! – i più beceri partigiani del razzismo, della xenofobia, i negatori di ogni elementare solidarietà. E così sentiamo fare discorsi contro la guerra non per ragioni umanitarie, ci mancherebbe… ma solo per la belluina paura di essere poi invasi dai profughi disperati. Gli sciovinisti di sempre, quelli che sciorinano cappi e nodi scorsoi, quelli che invocano espulsioni e benedicono le ronde anti-immigrati, ora, nella loro inania, in attesa di tornare conquistatori, si riscoprono un’anima imbelle.

Maledetti siano i figli di ogni madrepatria
impalateli una volta per tutti sui loro campanili (…)
gli imbecilli felici di essere nati da qualche parte.

Mio Dio, quanto sarebbe bella la terra degli uomini
se non vi si incontrasse questa razza incongrua
questa razza importuna che sciama in ogni dove:
la pura razza del posto, la gente col marchio DOC.
Come sarebbe bella la vita così com’è
se non avessi tirato fuori dal nulla questi cretini,
prova definitiva della tua inesistenza:
gli imbecilli felici di essere nati da qualche parte.

Insomma le brutture dei nostri tempi non ci lasciano modo di dimenticare Georges Brassens!
Non lasciano invecchiare le sue canzoni, non smette di essere d’attualità la raffinata ferocia dell’individualista più amato del mondo, morto esattamente 30 anni fa, per la precisione il 29 ottobre del 1981, a sessant’anni appena compiuti.

Qual è il miracolo musicale che fa di un uomo timido, restio ad allinearsi a qualsiasi ideologia, persino quella anarchica, poco incline ai giudizi, incapace di credere alle soluzioni collettive, il moralista più simpatico e attuale che ci sia? L’uomo era un uomo d’altri tempi, con gusti letterari che si arrestavano poco più in là del romanticismo e con passioni musicali ferme allo swing degli anni ’30. Il compagno Georges era così anarchico da aver smesso presto di fare il militante e di scrivere per Le monde libertaire (il glorioso e antico giornale che fu anche di Louise Michel) per coltivarsi una “piccola filosofia” – sono parole sue – in certi casi ai limiti del minimalismo.

Gloria a chi frena di colpo per non travolgere
il riccio perduto, il rospo abbagliato. (…)

Gloria allo sconosciuto che passa e tace
quando la folla grida “impicchiamoli tutti!” (…)

Gloria alla buona suora che nel giorno più freddo
disgelò nella sua mano il pene del monco. (…)

Gloria a chi non avendo ideali sacrosanti
si limita a non rompere i coglioni ai vicini!

L’atteggiamento giocoso però non inganni, i ritmi che fanno battere il piede, l’aria bonacciona, la voce calma, lo sguardo perso che non sa dove posarsi non ingannino. Sotto tutto questo, sotto la polvere degli anni che si posava sui suoi capelli sempre più grigi, sotto il terribile male ai reni che lo renderà più che mai chiuso e la familiarità con quella morte che non tarderà poi troppo a portarlo via, Brassens ha sempre conservato una sua truculenza, una sua ferocia di giudizio. L’orso non fu mai addomesticato. Brassens faceva di tutto per apparire molto equilibrato e sereno, ma non ingannava, ad esempio, uno sguardo finissimo come quello del regista François Truffaut che una volta scrisse di non averlo troppo in simpatia appunto per il suo manicheismo, la sua tendenza a vedere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Nell’universo di Brassens buono è l’individuo e cattivo l’ordine e i suoi emissari, fatte salve le eccezioni che confermano la regola.
Va da sé che Brassens a me è simpatico esattamente gli stessi motivi per cui Truffaut non lo ama, adoro quell’intima contraddizione per cui Brassens vuole apparire tanto equilibrato ma si congeda dal mondo lasciando due canzoni – fra le sue ultimissime, pubblicate postume nel 1982 – che sotto l’apparente bonomia celano il più assoluto manicheismo… una è un’estrema dichiarazione di odio per il potere:

Quando i coglioni non contano nulla
come me, come te, come noi, come voi
non è un fatto grave
che commettano, si permettano
sciocchezze, cattiverie
che diano fuori di matto:
non rompono le palle a nessuno.
Purtroppo sulla terra i tre quarti dei matti
sono gente assai cattiva, cretini settari
che si agitano, si eccitano
piegano, spiegano il loro zelo tutt’attorno
e rompono il mondo.

Se il signor Tizio fosse un fante senza gradi,
lascerebbe in pace i poveri camerati
ma ahimé è un generale guerrafondaio e matamoro
e appena fa un gesto si contano i morti.

L’altra attribuisce al famoso adagio di Voltaire sulla tolleranza una lettura personalissima che ne rovescia la morale.

Facendo l’ingenuo, il padre di Candido
il geniale Voltaire, in sostanza scrisse
che tollerava volentieri – per splendida compiacenza –
che non ci si conformasse alla sua opinione.
“Signore lei proferisce delle enormi sciocchezze
Ma mi batterò fino alla morte perché gli altri
ve le lascino dire. E mi aspetti sotto l’olmo!”
Quelli che non la pensano come noi sono coglioni.

Eppure ha dell’incredibile la simpatia e l’amore, l’unanime ammirazione che un tale gorilla, un elefante che fa continuamente finta di essere dispiaciuto delle cristallerie che fracassa, ma che a ben vedere ci si diverte un mondo, suscita nelle generazioni di ammiratori che continuano a susseguirsi. Si ama Brassens perché è un uomo semplice – si pensa – le sue canzoni sono cristalline, in un sondaggio degli anni ’70 fu ritenuto dai suoi compatrioti “il più felice dei francesi”.

La semplicità che è uno degli elementi costitutivi del suo personaggio è solo apparenza. È una corazza quel modo brusco di rivolgersi al pubblico in teatro, irrompendo senza un saluto, chitarra alla mano, per infilare una dopo l’altra le parole e districarsi in quel groviglio di accordi che suonano troppo jazz, troppo sghembi e raffinati per essere poi così immediati. La burbera timidezza che non nasconde la profonda bontà del suo sguardo è la traccia di una ferita che permane sul fondo. L’espressione d’animale braccato reca la memoria di quando il sedicenne Brassens, che ancora abitava a Sète, venne beccato a rubare assieme a un gruppo di coetanei e fu condannato a sei mesi di prigione, conquistandosi fra i compaesani quella pessima fama che lo spinse a emigrare a Parigi.

Forse è proprio questa dialettica del personaggio e dell’opera, fra una semplicità di facciata e un’estrema complessità di fondo, ad aprire una prospettiva che continua ad affascinare il pubblico dei brassensiani senza confini cronologici e linguistici.

A rinverdire la memoria e a rinfrescare l’immagine del “bravo ragazzo anarchico” (come lo definì uno dei suoi primi esegeti) ci pensa ora un progetto grandioso coordinato da uno dei migliori fumettisti dell’ultima generazione: Joann Sfar, classe 1971, che era dunque un bambino di appena 10 anni quando Brassens smise per sempre di cantare. Sfar, oltre ad essere uno dei pilastri della nuova scena del fumetto francese, aveva già tributato un omaggio alla storia della canzone scrivendo e dirigendo un bel film biografico su Serge Gainsbourg (“Vie héroique” 2010) dove in un breve cameo nei panni di Georges appariva proprio lui, il regista e disegnatore Sfar. Bella identificazione!

Non c’è dunque da stupirsi che sia lui l’ideatore e il deus ex machina della mostra interattiva dal titolo “Brassens ou la liberté” che la Cité de la musique di Parigi dedica al cantautore, ridisegnando completamente il personaggio Brassens, superando ogni distanza col tempo presente, riattualizzandone modi e forme per consegnare intatti i contenuti al mondo che viene. La mostra aperta dal 15 marzo al 21 agosto prossimo è accompagnata, oltre che da un imponente catalogo di 350 pagine, da diversi CD e un DVD con vari materiali rari e inediti, fra i quali la ripresa video integrale di un concerto del 1969.

Tutto questo affianca l’esposizione permanente che la città di Sète ha da molti anni dedicato al suo figlio più illustre (ben più del poeta Paul Valery) nell’espace Georges Brassens.

E poi ancora Parigi e la Francia tutta sarà in questi mesi percorsa da concerti e spettacoli che per ogni dove rinnovano il mito e la poesia di questo trovatore del ventesimo secolo, che a trent’anni dalla sua morte non cessa di cantare per noi.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

Lettera inviata dal Collettivo delle Prostitute
di Parigi a Georges Brassens il 16 giugno 1976.
“Caro Georges Brassens, noi Puttane
vi diciamo grazie per le vostre canzoni
così belle che ci aiutano a vivere. Purtroppo
abbiamo avuto il vostro indirizzo troppo tardi.
Ecco un invito. Noi tutte vi abbracciamo.
Le vostre Compagne del Collettivo di tutto cuore,
sempre con voi”.

 


Potevo attraversare litri e litri di corallo...
per raggiungere un posto che si chiamasse Anarchia

di Mariano Brustio


Il Maestro che Fabrizio non volle mai conoscere, l’anarchico collaboratore de Le Libertaire, il grande poeta dei fuorilegge e delle puttane.
Appunti su Georges Brassens.

Così lo abbiamo sentito cantare tante volte in concerto la sua canzone più personale, quella scritta, come disse, in una notte, complici una bottiglia e tanta “braves gens”, la gente per bene, la sua “musa” ispiratrice di una serata un po’ troppo borghese.
La stessa brava gente che Brassens ha tante volte descritto e cantato nelle sue canzoni: “Eppure non faccio dei torti a nessuno, se seguo la mia strada, ma alle persone a modo non piace che si segua una via diversa dalla loro” (Brassens, La mauvaise reputation).
“Non si risenta la gente per bene se non mi adatto a portar le catene” (De André, Il fannullone).
Mi è capitato tante volte di dover e voler capire, il perché di un cammino parallelo e distante, percorso in tempi diversi da Georges Brassens e Fabrizio De André.
L’uno quasi esiliato prima a Parigi, poi in Germania, poi ancora a Parigi negli anni della guerra, l’altro rifugiato con la famiglia vicino ad Asti negli stessi anni. Gli anni in cui l’emarginazione scelta da Brassens e la reclusione voluta presso gli amici Jeanne (Chez Jeanne) e Marcel (l’Arverniate) lo portano a concepire il suo proclama, la sua lode all’individualismo anarchico, La mauvaise reputation: “il giorno del 14 luglio resterò comodo nel mio letto; la musica che marcia al passo non fa per me; ma non faccio del male a nessuno se non ascolto la tromba che squilla”. “Quando incontro un ladro sfortunato, inseguito da un villano, faccio lo sgambetto e il gendarme si ritrova per terra, eppure non faccio dei torti a nessuno se lascio scappare un ladro di polli”. E ancora: “... una di quelle attacca il gendarme e gli fa gridare ‘a morte gli sbirri, viva l’anarchia’ ” (Hecatombe). Il conflitto con l’autorità diventa così evidente e non fa altro che rendere pubblico il suo pensiero, tanto da fargli dire che il principio di fondo degli anarchici è lo stesso per tutti: la libertà, ma i mezzi sono i più differenti: “Qualcuno è favorevole alla violenza, altri no: io sono individualista”. Così da ritenere più utile e importante la propria individualità di qualunque occasione che muova verso l’annullamento dell’individuo a favore della collettività.
L’individualismo di uno spirito solitario: è dalla stessa voce di De André, quella udita in Faber, splendido documentario di Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, che ci è dato di capire quale fosse la considerazione che De André aveva per ogni forma di aggregazione. E riletto alla maniera di Brassens voglio citare “Le pluriel” che pressappoco dice così: “l’essere in tanti non si addice all’uomo ed appena si è un po’ più di quattro si è una squadra di stronzi. Bande a parte, accidenti, questa è la mia regola e io ci tengo: tra quei nomi altisonanti non leggerete il mio”.

Fabrizio De André

Cosa dire poi delle analogie che in entrambi, Fabrizio e Georges, troviamo con Ballade des pendus di Villon: “Non bisogna essere Geremia per predire il destino che mi aspetta: se trovano una corda che gli va bene me la passeranno intorno al collo” (Brassens, La mauvaise reputation) e ancora: “Gridava mamma come quel tale cui il giorno prima come ad un pollo, con una sentenza un po’ originale aveva fatto tranciare il collo”. (Brassens e De André, Il gorilla). Il gorilla come strumento di vendetta, contro l’autorità subita. E in De André come non citare La Ballata degli impiccati di “Tutti morimmo a stento”, ballata che fu “costretto” a mettere in canzone, “come si usa ancora oggi dire in Gallura: ‘chistu tocca ponillo in canzone’”, per citare testualmente Fabrizio De André nella prefazione di François Villon, Poesie, Feltrinelli 1996.
La Brave Margot di Brassens diventa poi la Bocca di Rosa di De André, e possiamo trovare alcune analogie: “ma le donne del paese senza più i loro sposi, e i loro spasimanti, ammassarono il loro rancore con tanta pazienza... ma poi immolarono il gattino”; “ma le comari di un paesino non brillano certo di iniziativa... Bocca di Rosa si tirò addosso l’ira funesta delle cagnette a cui aveva sottratto l’osso”.
E ancora in Le bistrot: “In un angolo buio della Parigi povera, su una piazza, c’è un vecchio locale tenuto da un uomo disgustoso”; “Nei quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi...” (Città Vecchia). Qui ritmo e melodia sono molto simili, come pure la descrizione delle situazioni. E per entrambi un occhio di riguardo alla poesia Embrassomoi di Jacques Prévert: “Il sole del buon Dio non brilla qui da noi, ha fin troppo da fare nei quartieri dei ricchi”.
Per citare inoltre le traduzioni di altre canzoni, firmate all’occasione De André-Brassens: Marcia nuziale, Delitto di paese, Nell’acqua della chiara fontana, Morire per delle idee, La morte, sino alla splendida interpretazione di entrambi della poesia di Antoine Pol, Les Passantes. E la Leggenda di Natale palesemente ispirata a Le père Noël e la petite fille.
Spesso De André disse di non aver mai voluto conoscere Brassens, per evitare di ridurlo a persona, per evitare di non poterlo più vedere come mito.
Ma tante volte, in tanti concerti, l’ultima dedica era per il Suo Grande Maestro, Georges Brassens, lasciato in fondo, come si usa fare con il vino buono.

Mariano Brustio
(tratto dal libretto del CD di Fabrizio De André
ed avevamo gli occhi troppo belli, pubblicato nel 2001 da Editrice A)