rivista anarchica
anno 41 n. 364
estate 2011


società

Attualità di Proudhon
di Antonio Cardella

Attingere agli scritti e alle riflessioni del filosofo francese di due secoli fa, può offrire qualche piacevole sorpresa.

 

Non lo incontravo da tempo: impegnato su più fronti, Franco La Rosa è stato primario di psichiatria in diverse strutture sanitarie pubbliche e private, dirige attualmente un affermato centro di formazione nel settore. Yunghiano di ferro, è anche personaggio amabilissimo, conversatore brillante e, soprattutto, dotato di un senso critico che esercita in molti settori della cultura contemporanea.
La sua telefonata all’ora di pranzo di un giorno della primavera appena trascorsa non mi sorprese: eravamo abituati a sentirci di quando in quando per commentare le vicende del vivere quotidiano in una città, Palermo, dal passato illustre ma dal presente assai precario, inserita in un contesto di inconfessabili interessi politico-mafiosi locali e nazionali che la rendono, agli occhi di osservatori non superficiali, irredimibile. Mi sorprese, invece, la sua proposta che concluse la nostra conversazione: “ritengo – mi disse – che tu debba venire a parlare di anarchia all’Università che dirigo e che svolge i suoi seminari il venerdì di ogni settimana al Museo Mandralisca di Cefalù.
Rimasi francamente sorpreso: trattare di un tema così arduo, nell’immaginario collettivo relegato nell’ambito di un ribellismo visionario, quando non addirittura violento, avrebbe significato tentare di demolire le spesse mura di un castello costruito nel tempo da pregiudizi e disinformazioni difficili da smantellare nell’ambito di qualche conversazione più o meno accademica.
Più ci pensavo, però, più mi piaceva accettare questa sorta di sfida, anche per ritrovare un ordine logico di un’esposizione non facile perché rivolta ad un uditorio di cui non conoscevo l’estrazione sociale, il livello di cultura storica e il grado di informazione politica. Offrii a Franco la mia disponibilità e mi ritrovai il 13 maggio scorso nella sala convegni del bellissimo Museo Mandralisca di Cefalù a parlare di anarchia ad un pubblico di una settantina di persone, prevalentemente insegnanti e lavoratori. Introdotto da una cortese presentazione di un distinto signore che seppi poi, principe del foro da poco in pensione, fui subito sorpreso del silenzio attento di un pubblico che voleva capire in fretta che tipo di animale raro io fossi e che razza di lingua parlassi.
Misi, così, da parte la scaletta che mi ero portato appresso e decisi di affrontare alcuni argomenti specifici, di natura storica e teorica che furono all’origine del pensiero libertario e che tuttavia ne costituiscono, mutatis mutandis, la nervatura portante.
Poiché alcune riflessioni sul pensiero anarchico delle origini sono tornate di un’attualità sorprendente nel mondo contemporaneo, voglio riproporvele in questo articolo che debbo necessariamente contenere in limiti accettabili per la natura della Rivista che queste riflessioni cortesemente ospita.
Scontate le origini illuministiche e del pensiero socialista della metà del XIX secolo, ci si imbatte subito nella figura, a mio giudizio fondamentale, di Proudhon e nelle sue considerazioni sul concetto di dialettica, dal quale derivano tutta una serie di conseguenze che il pensatore francese analizza con puntuale dottrina. La contestazione della terza proposizione della dialettica hegeliana (la sintesi) è il punto di partenza del pensiero proudhoniano. Egli sostiene che le antinomie, i contrasti, perfino la concorrenza non conflittuale sono eventi seriali che debbono esplicare tutte le loro potenzialità, senza lasciarsi cristallizzare da sintesi (da composizioni precostituite) che finiscono con l’essere condizionamenti imperativi incompatibili con il libero fluire della vita. Non è un caso che, per Hegel, la sintesi superiore dello Spirito oggettivo sia lo Stato prussiano (nota, quest’ultima, del redattore).

Pierre-Joseph Proudhon

La proprietà socializzata

Ma, per venire ai nostri tempi, questa presunta necessità di composizione dei contrasti è la base teorico-organizzativa sulla quale si costruisce la ragion d’essere di tutti gli Stati.
Politica, nella etimologia originaria, indicava il luogo dove una determinata comunità si riuniva per stabilire le regole della propria convivenza e scoprire via via il senso da dare al proprio stare insieme. La presenza di tutti i componenti della comunità nei momenti assembleari assicurava il rispetto per tutte le esigenze individuali e collettive espresse. Si trattava, insomma, di un’autogestione scandita, non da leggi che cristallizzavano il tempo del reale in una fissità innaturale e vessatoria, ma da regolamenti transitori, validi solo per il tempo entro il quale le norme stabilite apparivano necessitanti. Poi queste norme venivano sostituite in tutto o in parte, in armonia con le nuove esigenze della comunità. Quindi, nessuna forma di delega che consentisse l’emersione di figure carismatiche o di gruppi di potere la cui volontà potesse passare sulla testa degli individui, ma il liberarsi di funzioni mutualistiche che assicurassero il progredire costante della comunità all’insegna dell’eguaglianza e della solidarietà. In un contesto così strutturato, da me forzatamente sintetizzato ma da Proudhon descritto in centinaia di pagine straordinarie per la forza di una logica stringente e per la fluidità e bellezza di un linguaggio ben articolato e suadente, la proprietà individuale sarebbe una sottrazione egoistica di risorse alla comunità, quindi, un furto.
Tutt’altro è il discorso sulla proprietà socializzata, l’accumulazione di risorse prodotte e gestite collettivamente, disponibili per tutte quelle iniziative riconducibili all’interesse comune.
La liberazione di risorse eccedenti il soddisfacimento delle necessità individuali (il surplus prodotto dal lavoro collettivo), secondo Proudhon avrebbe dovuto confluire in una banca di credito gratuito disponibile per ogni nuova e condivisa iniziativa imprenditoriale e per la realizzazione di infrastrutture necessarie. Questa della banca di credito gratuito fu una proposta che impegnò tutti i primi Congressi della Prima Internazionale, da quello di Ginevra del 1866, al successivo di Losanna del ’67 e finalmente al Congresso di Basilea del ’69, nel quale la proposta fu ratificata.
Questa identità della politica con la complessa articolazione di una determinata comunità, è frantumata dalla declinazione del concetto di Politica prevalente nella modernità.
La modernizzazione – scrive Salvo Vaccaro nel suo libro Cruciverba, Edizioni Zero in condotta, Milano 2001, pag.134) ha frantumato la sfera politica suddividendola in sfera politica vera e propria (più che altro tecnica), sfera sociale, sfera amministrativa, sfera economica, ciascuna dotata di autonomia e di interdipendenze relative. La differenziazione pone problemi inediti di sincronizzazione dei vari movimenti particolari, innescando una competizione al governo dei tempi sotto un unico dominio del tempo generale. Frantumando la politica, questa è diventata il nome dello Stato, lo stile dell’istituzionalizzazione, il segno dell’ordinamento impresso alle parole e alle cose, ai corpi come alle menti…
Da questa parcellizzazione della politica scaturisce inevitabilmente la parcellizzazione dell’individuo, il quale riduce la sua complessità esistenziale al ruolo che l’assetto statale gli assegna in una verticalizzata scala sociale. È una scissione, questa, che aliena il rapporto col mondo esterno e dissocia l’individuo dalla propria identità: egli diviene un soggetto a..., un semplice numero sul quale si gioca la farsa ingannevole della statistica.
Inoltre la suddivisione della politica in sfere separate provoca processi di autoreferenzialità dei singoli settori istituzionalizzati che finisce col dissociare la funzione originaria in strategia autoriproduttiva. In altre parole:le singole sfere istituzionalizzate sono via via divenute più attente ad accrescere la propria quota di potere nella società, piuttosto che fornire alla società i servizi per i quali la struttura è stata creata.
Questo processo è oggi particolarmente evidente in Italia (ma non è un fenomeno esclusivamente italiano). A tutti i livelli della sfera pubblica è pratica consueta, da parte di governi, partiti e conventicole varie, occupare le varie strutture burocratico-amministrative ed economico- finanziarie al fine di consolidare a proprio vantaggio e al di là delle alterne vicende della politica gli snodi decisivi per la sopravvivenza della società.
Ma questo aspetto dell’autoreferenzialità delle istituzioni è particolarmente evidente nel comparto delle attività produttive. Il mondo che chiamiamo evoluto, quello maggiormente industrializzato, cioè il mondo occidentale, è sepolto da prodotti che, nella migliore delle ipotesi, si consumano voracemente e, nella peggiore, si trasformano direttamente in rifiuti. Siamo sommersi dai rifiuti, ma, quel che è peggio, lo spreco è divenuto esplicitamente elemento costitutivo della logica produttiva del capitalismo. La produzione di beni e servizi del mondo consumistico nel quale siamo immersi ha finito sempre di più con l’allontanarsi dalle esigenze reali della collettività: tende soltanto a creare artificiosamente le condizioni perché il processo produttivo si reiteri. Con precisione scientifica, ogni prodotto ha un tempo funzionale precostituito, al di là del quale deve cedere il posto ad un nuovo prodotto dello stesso genere dalla vita generalmente più breve del precedente.

Ricchezza e povertà

Certo Proudhon non poteva prevedere il processo involutivo del capitalismo che lo ha portato a forme degenerative tali da creare più problemi di quelli che riesce a risolvere. Non poteva prevedere che la deriva finanziaria prevalesse sulla produzione, incartandosi sulla dinamica del denaro che produce denaro e in tempi talmente
accelerati da rendere improduttivo qualsiasi investimento nella produzione di beni e servizi. I quali, ancora, saranno componenti importanti del mercato globale ma solo nella misura in cui le imprese che li producono potranno iscriverli a patrimonio per le speculazioni in borsa. Il caso Parmalat è in questo senso illuminante: c’era la produzione, c’era in attivo il mercato, ma il gioco azionario, condotto con criminale spregiudicatezza, ha finito col seppellire l’Azienda. Di scheletri di questo tipo sono pieni gli armadi delle grandi industrie italiane, le quali, per tentare di far tornare i conti, o procedono a ristrutturazioni selvagge o delocalizzano, riversando sul tessuto sociale il peso di una disoccupazione crescente.
Una cosa, di certo, Proudhon aveva previsto: che la miseria sarebbe cresciuta con il tasso di crescita dell’accumulazione capitalistica. Non credo sia necessario scomodare le astrusità dell’economia politica per constatare come il volume delle ricchezze accumulate da una parte sempre più insignificante della popolazione mondiale cresca con il crescere della miseria di sempre più vaste aree praticamente desertificate.

Antonio Cardella