Canzoni, scritti, disegni, sculture
A voi non succede che qualche volta internet non è abbastanza? A me sì, a volte faccio fatica ad accontentarmi della valanga di link che mi restituisce un motore di ricerca. Non è, va da sé, una questione di quantità di informazioni, quanto di una loro consistenza. Massimo rispetto per l’ambiente, ma sento che per informarmi di certe cose importanti ho bisogno di tenere tra le mani della carta, parole stampate con cui avere un contatto fisico invece che leggerle tenendole dietro uno schermo di plastica. Detto questo, avevo voglia che ci fosse un libro su Herbert Pagani: quando ho saputo che era uscito l’ho preso subito, e l’ho letto e riletto più volte. Questa sete di conoscere me l’aveva accesa, qualche tempo fa, Alessio Lega che ce l’ha messa tutta per convincermi a traghettare qualcuno dei miei ascolti preferiti al di qua dell’Atlantico e della Manica. Una sete che non sono riuscito a spegnere davanti al pc. Di siti web mantenuti da appassionati che cercano di tenerne vivo il ricordo ce n’è, non tanti né aggiornati né con pretesa di completezza, ma ce n’è: sono, appunto, siti di appassionati che fanno quello che possono. Di altri libri che raccontassero la storia e le storie di Pagani che io sappia ne erano usciti un paio, anni fa, introvabili da subito. Oggi per recuperare una copia usata de “La scrittura della vita” di Arturo Schwarz e una usata di “Oeuvres 1963-86” a cura di Paolo Levi e Aldo Spirito, duecento-e-passa euro non bastano (spese postali escluse). Ma adesso un libro di e su Pagani finalmente c’è: leggerlo mi ha incuriosito, senza dubbio, ma mi ha messo un po’ a disagio. Vediamo perché. “Canzoni, scritti, disegni, sculture” (ed. Barbes, 25,00 euro), curato da Rosanna Castellani, è grosso quasi trecento pagine, fitte di testi e traduzioni e ritagli (che trovo però sarebbe stato opportuno pubblicare per intero) e disegni e foto, e c’è pure un cd allegato con dentro un’oretta di canzoni, scelta decorosa e abbastanza rappresentativa. Eppure nonostante il volume e la consistenza l’impressione prima e perdurante è che mi sfugga qualcosa. Anzi, che manchi qualcosa.
Di Pagani manca da vent’anni tutto, e quando parlo di un vuoto che non si può riempire non mi riferisco soltanto e banalmente alla scomparsa prematura, dovuta a una malattia veloce e spietata, scomparsa incomprensibile per chi resta, di un quarantenne che tanto aveva detto, immaginato, cantato e fatto ed altrettanto avrebbe potuto. Era un personaggio noto, frequentatore di programmi televisivi e pioniere di programmi radiofonici. Adesso di lui e del suo lavoro mancano l’eco ed anche l’odore, mancano i proclami ed il loro riverbero dall’aria, da quel che resta dei vaghi ricordi televisivi mancano l’esagerazione e la testardaggine, i gesti delle mani, il sorriso. Una sola parola, pesantissima: è stato dimenticato.
Non so giustificare i ricordi anneriti dal tempo, né trovare scuse al peso del tempo, alla nebbia che si accumula e che allontana. Posso soltanto abbozzare delle ipotesi: penso che sia per un istinto di conservazione che ci si dimentica di chi ha osato avvicinarsi troppo ai nostri segreti profondi, nostri e basta. Lui, Pagani, c’era riuscito spesso: giovanissimo, s’era permesso di tradurre in Lombardia la pianura di Jacques Brel dipingendola di grigio come la nebbia e come il veleno dell’aria e delle promesse non mantenute. Proprio lui, ch’era un incrocio di radici nato altrove, uno straniero per forza, s’era permesso di cantare ad alta voce di quella gente là in quella maniera là. Quella gente là che siamo noi, quel nostro raccoglierci in famiglia come tana di lupi, quelle nostre uscite in pubblico mascherati con addosso un sorriso mentre dentro, nell’anima, progettiamo spartizioni e fantastichiamo di orrori proibiti. Ci aveva portato via un pezzo d’anima, come una fotografia rubata, senza annunciarsi e senza nulla chiedere, men che meno un permesso, un’autorizzazione: ci siamo ritrovati un estraneo dentro casa a raccontare apocalissi e corse a perdifiato che credevamo nostro esclusivo possesso. Una caricatura tagliente per ciascuno, lunga quei tre minuti giusti per lasciare il segno: il canzoniere di Pagani è uno zoo di ribaldi ed assassini, di mendicanti e condannati, cani randagi e commedianti.
Forse stanno meglio all’ombra, quei testi, in questo tempo: inadatti a canzoni da diffondere, versi da non condividere, da leggere standosene da soli. Eppure dietro a ogni racconto nero, dietro a ogni nota amara, Pagani tratteggiava fili di speranza. Sapeva vedere primavere intere in una pratolina, aveva orizzonti lontani ed una chitarra a tracolla per raggiungerli. Ho letto da qualche parte che chi ci ha lavorato assieme lo considerava un perfezionista (quando andava bene) e un rompicoglioni (quando andava meno bene). Anche a me piace immaginarmelo un po’ così, con quell’agitazione attorno, quel nervosismo, quella frenesia che appartengono a chi cerca di far coincidere sotto le dita le cose che si sognano con quelle che si afferrano. Mi piace immaginarmelo che raccoglie i legni e i pezzi di plastica buttati a riva dal mare, piace farlo anche a me. Era una presenza bizzarra della mia giovinezza, un cantante alto, magro e riccio, sorridente e strano, che incuriosiva i miei genitori: mentre io adolescente bestia persa sognavo solo di andarmene via, loro due se ne stavano lì ad ascoltarlo alla radio, vicini, zitti, insieme. Si intristivano delle sue storie di emigranti e di ragazzi suicidi, e canticchiavano per farsi passare la paura.
Lontano
Writing about music is like dancing about architecture. Cioè: scrivere di musica è come danzare l’architettura. È una frase che circola da una trentina d’anni, dibattito acceso su chi l’ha pronunciata e chi l’ha citata: è stato Elvis Costello? O forse Laurie Anderson? Ma non l’aveva detto Frank Zappa in un’intervista? Importa poco, secondo me: chiunque abbia immaginato o comunque abbia riportato questa frase desiderava sottolineare l’assurdità di tradurre in parole il lavoro del musicista, in particolare se la prendeva con certa stampa specializzata sempre più attenta agli inserzionisti e ormai incapace di ascoltare. Questa frase, e soprattutto la sua seconda parte, mi è tornata rumorosamente in testa ascoltando il nuovo lavoro in solitaria di Roberto Dani “Lontano” che, annunciato per lo scorso autunno, esce soltanto adesso dopo qualche spiacevole incidente tecnico. Suono su suono come pietra su pietra, strato su strato, gesto dopo gesto, Dani ha costruito una cattedrale di silenzio, sussurri, strofinii e rumore. E si muove attorno a questa creatura come danzando attorno a una nuvola. Figura atipica di percussionista che si sofferma su silenzio e piccole luci, nei suoi lavori Roberto Dani sembra accompagnare l’ascoltatore in un’escursione in montagna ad apprezzare il rumore del cuore e del respiro mescolato a quelli del vento, dei passi, delle rocce e dell’erba. In questo ci ritroviamo ad altezze e dentro panorami sempre diversi ad ogni ascolto, e sono tutte meraviglie a distanza breve da casa: i posti di Roberto non sono gli ottomila da affrontare allenatissimi ed attrezzatissimi, ma le Dolomiti con la borraccia, una partenza poco prima dell’alba da un rifugio in quota, un ghiaione da scendere a rotta di collo con fiato e risate e agitazione spezzettati insieme. “Lontano” racconta questo perdersi tra distanze ravvicinate e pensieri lontanissimi, un’opera semplice e trasparente come l’acqua e complicata come una nevicata improvvisa, dove non ci sono due fiocchi di neve uguali. Contatti: www.robertodani.com.
La rossa primavera
La colonna sonora del mio 25 aprile di quest’anno sono stati i Gang col loro nuovo cd (“La rossa primavera”, ed. Latlantide www.latlantide.it). Leggetela, se vi va, come una bestemmia, ma Marino e Sandro Severini hanno la capacità di spostare il mio cuore a sinistra: cantano di bandiere rosse e rosse primavere in una maniera che mi prende. È perché li conosco da tanti anni, c’è rispetto e stima, e gli voglio pure bene. Amo il loro modo di sporcarsi le mani con le parole: mi colpisce come le scelgono e le mettono insieme, anche quelle prima e dopo le canzoni vere e proprie, quando spiegano le radici e le ali e raccontano le storie. Mi ha sempre fatto riflettere il loro modo di mettersi in viaggio, di gustare la strada. Mi emoziona quando non si vergognano di parlare di lavoro e Resistenza a ragazzi che oggi hanno venti-trent’anni, che potrebbero essere anagraficamente i loro figli, e che degli operai e dei partigiani hanno potuto scorgere magari solo qualche striscia in televisione. Mi emoziona quando mescolano i Clash e gli Stormy Six, Billy Bragg e Fabrizio de André e le mondine, e invece che un pastone ne viene fuori una gioia gigantesca, un sorriso e un batticuore senza rassegnazione. È stato un 25 aprile bellissimo, anche perché ci sono state queste canzoni nell’aria. Grazie, ancora grazie. In giro, pubblicati sempre da Latlantide, trovate anche la testimonianza del reading di Daniele Biacchessi “Il paese della vergogna” (2cd, 2011) con le canzoni dei Gang meravigliosamente incastrate ai testi, e “Tribe’s reunion” (cd, 2010) con la registrazione di un concerto dal vivo a Recanati durante il quale i fratelli hanno offerto manciate generose dello sferragliante repertorio degli esordi. Contatti: www.the-gang-it.
Marco
Pandin
stella_nera@tin.it
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“Duemila papaveri rossi”
2 cd con libretto
I due cd contengono 37 canzoni di Fabrizio de André
interpretate da musicisti e gruppi indipendenti.
Una iniziativa a sostegno di "A" delle Edizioni stella*nera.
Una copia 15 euro
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Paola Sabbatani e Roberto Bartoli
“Non posso riposare” cd+dvd
Un cd e un dvd, dodici canzoni da ascoltare e un documentario realizzato da
Mario Bartoli e Giangiacomo De Stefano (Va.C.A. Vari Cervelli Associati).
Una co-produzione Editrice Bruno Alpini, Aparte e stella*nera.
Una copia cd+dvd 15 euro
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