rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011


lettere

 

Una bicchierata per i 40 anni di “A”

A – Rivista anarchica ”, il mensile che nel 2011 compie 40 anni, è un punto di riferimento in Italia per l’anarchismo più aperto, maturo e innovativo.
Per molti, anarchici e non, “A” è la rivista che ha introdotto in Italia l’ecologia sociale di Murray Bookchin, che ha parlato da un punto di vista libertario di femminismo, di nonviolenza, di Living Theatre e di Surrealismo, di Resistenza e di De Andre’, di Palestina/Israele e di Rom, di Cina, di Libia, di punk, di internet, di architettura, di Valsusa...
Per conoscerla, si veda per esempio il numero speciale uscito per l’anniversario, con brevi articoli su ciascuno dei principali argomenti seguiti in questi anni da “A”: un compendio da conservare e consultare negli anni.
Il volume (accessibile anche online sul sito arivista.org, e a Roma disponi­bile anche presso lo sportello LAD) contiene anche una importante intervista dell’ambientalista Adriano Paolella a Paolo Finzi, che ripercorre la storia della rivista, delle sue scelte politiche, culturali, editoriali.
Sugli ultimi numeri, che trovate online e in varie librerie ed edicole (a Roma anche sullo scaffale del LAD nella Bottega del mondo Kinkeliba’, via Macerata 54), trovate anche informazioni sulle feste organizzate per l’anniversario, a cominciare da quella di domani a Faenza, dalle 12: chi volesse andarci da Roma può contattare anche me.
Diversi anni fa organizzammo (con il circolo libertario “Materiali dolci”: il LAD ancora non esisteva) un bel concerto di autofinanziamento per “A” al csoa Forte Prenestino: vennero ben duemila persone. Da allora a Roma si è fatto poco altro per questa testata.
L’occasione dei 40 anni, se nessuno vorrà organizzare eventi più grandi, merita almeno un brindisi, che potremmo tenere per esempio (dopo aver sentito la rivista e tutti gli interessati) allo sportello LAD di settembre, anche in vista della 5ª Vetrina dell’editoria anarchica e libertaria, dal 7 al 9 ottobre a Firenze (per questa edizione della Vetrina, insieme agli organizzatori fiorentini, stiamo preparando un dibattito sulla decrescita).
Sperando di vedervi in qualcuna di queste occasioni, aggiungo i miei auguri a tutti quelli che “A”, Paolo e il resto della redazione stanno ricevendo, con gratitudine per il lavoro che hanno svolto finora.

Matteo

Libero Ateneo della Decrescita (Roma)
ecoculture.noblogs.org

Sportello LAD:
mercato contadino terra/Terra (19/6, 17/7), h.12-17
c.s.o.a. Forte Prenestino, via F. Delpino Centocelle, Roma

luna piena (12/9...), h.17-19
Bottega del mondo Kinkelibà, via Macerata, 54 Pigneto, Roma

 

Medio Oriente.1/Caro Codello, ma Vittorio Arrigoni...

Cari compagni,
è sempre doloroso doversi straziare tra fratelli e dover attaccare con la forza necessaria e doverosa, e con rispetto dovuto ad un militante della tua stessa causa, è difficile.
Eppure, debbo farlo.
Sono stato a trovare a casa sua, Egidia Beretta Arrigoni, ho abbracciato suo padre, malato. Sono stato ai suoi funerali, c’erano anche compagni anarchici, ho intravisto ed abbracciato persone del già disciolto circolo di Bergamo “Freccia nera”, poi Underground, c’erano migliaia di militanti internazionalisti da tutta Europa e anche oltre.
Conosco l’attività di Vittorio per essere un lettore, quotidiano, da vent’anni e più, del Manifesto ed il suo “Restiamo umani” mi è risuonato, doloroso, nelle orecchie, per tutto l’assedio di Gaza, tra i bambini arsi vivi dal fosforo usato dagli israeliani, circa trecento bambini, e le urla di intervento gridate al mondo e il suo surreale, sozzo, ipocrita, silenzio.
Orbene, per il compagno Codello (“Aldilà dell’apparenza”, sullo scorso numero di “A”, pag. 9), Vittorio non è un pacifista, sua madre, ed egli cita uno scrittore israeliano dal Corriere della Sera, che imputerebbe alla signora Egidia di “non individuare una zona grigia ma di vedere il bene e il male con nettezza”, mi scuso, cito a memoria, e perché, una madre, dovrebbe mai spaccare il capello in quattro? Quanti millenni di riflessione femininile e femminista dovranno ancora trascorrere prima che un maschio, ancorché compagno, senza dubbio, possa arrivare a comprendere che significa per una madre la morte del figlio? L’assassinio del figlio, il Cristo del Mantegna, la Pietà del Michelangelo, di lungi, hanno colto questo immane orrore.
Ad Egidia Beretta Arrigoni non si può chiedere, come pretende quello scrittore israeliano, di adagiarsi in sottigliezze. Su quali media, abitualmente, il compagno Codello formula i suoi giudizi? Leggiamo stampa diversa, dunque.
Non è possibile che egli affermi, in modo vago, senza andare a parlare con i compagni dell’International Solidarity Movement, per esempio, senza andare a far ricerche su quella che è stata, davvero e non “per sentito dire” il lavoro di Vittorio e tanti come lui, nella striscia.
Non c’erano bandiere di Hamas a Bulciago, ai suoi funerali, neanche una. E sono abbastanza esperto di simbologie per capire che questo conta: solo vessilli palestinesi, solo rappresentanti dell’ANP in Italia, se ci fosse stato qualcuno di Hamas, v’era ma in incognito: neanche una spilletta, una fascia, una medaglietta: nulla. C’era l’Arcivescovo emerito di Gerusalemme, c’erano i sindaci della zona, c’erano i parroci, c’era un fiume umano venuto da ogni parte: Hamas io non l’ho vista. Se a Gaza, Hamas, ed è vero ed è un fatto, abbia tollerato, incoraggiato, aiutato i compagni dell’ISM e la loro attività, beh, questo è un dovere di giornalista, di domandarlo a loro o tra compagni non ci si parla?
L’ISM è un’associazione pubblica, attualmente è la compagna di Vittorio a tessere le fila, annodare trame per non far cadere il suo sacrificio nell’oblio, come Rachel Corrie ed altri, caduti, questi, sotto il piombo israeliano – Rachel schiacciata da un bulldozer – no, Francesco, non mi è piaciuta questa approssimazione, questa vaghezza. Nessuno, sulle pagine della rivista, si permetterebbe, ad esempio, di formulare dubbi sulla morte di Serantini o di Pinelli: con il tuo stesso metro d’indagine, nulla, permettimelo, non saremmo mai arrivati a niente sulla morte, non casuale, del nostro amatissimo ferroviere.
Non si agisce così, non tra compagni, non si attribuiscono patenti, di pacifista o meno, senza avere bene indagato, interpellato, lavorato, scavato a fondo, su altri compagni, Vittorio è stato salutato da “Bella ciao” che aveva insegnato ai pescatori di Gaza, ci vuole approfondimento, inchiesta, dialogo.
Non sono nessuno, o meglio, un compagno di 50 anni, militante assiduo, in Lombardia mi conoscono, ma, me lo insegnate, negli ambienti libertari, il soggetto non è mal visto, si ha in gran conto la libera espressione ed azione individuale, e mi son voluto permettere queste osservazioni.
Francesco, non me ne volere, se hai colto altro, oltre a queste obiezioni, ciò imputalo alla mia diversa conoscenza dei fatti, compagni che conosco, della nostra stessa area, libertari, sono stati a Gaza, anche prima di Vittorio e ti assicuro, hanno riportato ciò che attua Tsahal nella striscia: sparano sinanche ai bidoni dell’acqua, hanno postazioni all’ultimo piano dei palazzi e, sotto, le famiglie, si devono tenere l’occupante che fa quel che vuole, e le donne, lasciate ad abortire, ai posti di blocco, impossibilitate a raggiungere un ospedale... troppo dolore, troppa oppressione esercitate su un popolo , quello palestinese. Ci sono anarchici israeliani a combattere contro l’erezione del muro, in Cisgiordania, a centinaia.
Debbo salutarvi, confido che un dibattito venga aperto e sia fecondo. Conservo a Francesco e a tutti voi la mia stima solidale.

Teodoro Margarita
(Asso – Co)

 

Medio Oriente.2/Che tristezza leggere su “A”...

Car@ compagn@, ormai da qualche anno leggo con piacere la rivista e da un paio sono pure abbonato. Ho sempre apprezzato la serietà nell’affrontare i più
diversi argomenti, anche se il vostro punto di vista non ha sempre coinciso col mio. Per fortuna.
Proprio oggi mi è arrivato il numero 363, che ho iniziato a sfogliare nella pausa pranzo, fino ad arrivare all’articolo di Francesco Codello, “Aldilà dell’apparenza”, in cui scrive a proposito dei tratti comuni del barone Asor Rosa e di Vittorio Arrigoni, militante di base per la Palestina, assassinato da integralisti islamici (anche se la vicenda è ancora parecchio oscura) a Gaza.
Aldilà dell’ardito collegamento tra due persone che non potrebbero essere più diverse, la cosa che mi ha reso, debbo ammettere, furente è stata la descrizione fatta da Codello di Arrigoni. Vediamo:
“L’attivista italiano viveva nei martoriati territori governati da Hamas e svolgeva in questi luoghi, da anni, un’intensa attività a sostegno delle rivendicazioni palestinesi, accettato e sostenuto, nella sua azione, dall’organizzazione palestinese con la quale collaborava attivamente. Arrigoni aveva fatto una sua scelta coerente, di tipo politico e ideologico, di stare dalla parte di Hamas”.
Scrivere questa frase come secondo capoverso dell’introduzione alla figura di Arrigoni è già partire col piede sbagliato di chi le cose le sa per sentito dire; un sentito dire, tra l’altro, assai più vicino al Giornale o a Libero, che ad aree di movimento e/o libertarie.
Anche perché, banalmente, è falso.
Arrigoni stava dalla parte dei palestinesi, a prescindere dal partito politico di appartenenza, di cui se ne fotteva sonoramente (per quanto possibili a quelle latitudini). Tanto che era una delle figure di riferimento del G.Y.B.O. (Gaza Youth for Break Out), il cui manifesto (tradotto per primo proprio da Arrigoni sul suo sito: http://guerrillaradio.ioblog­go.com/2017/il-manifesto-gybo-dei-giovani-di-gaza) inizia con un eloquente:
“Vaffanculo Hamas. Vaffanculo Israele. Vaffanculo Fatah. Vaffanculo ONU. Vaffanculo UNWRA. Vaffanculo USA! Noi, i giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di Hamas, dell’occupazione, delle violazioni dei diritti umani e dell’indifferenza della comunità internazionale! Vogliamo urlare per rompere il muro di silenzio, ingiustizia e indifferenza, come gli F16 israeliani rompono il muro del suono; vogliamo urlare con tutta la forza delle nostre anime per sfogare l’immensa frustrazione che ci consuma per la situazione del cazzo in cui viviamo; siamo come pidocchi stretti tra due unghie, viviamo un incubo dentro un incubo, dove non c’è spazio né per la speranza né per la libertà”.
Per descrivere i ragazzi del G.Y.B.O Arrigoni scrisse:
“Fustigati da un governo interno che soffoca i diritti civili basilari, frustrati dal collaborazionismo criminale di Ramallah che viene a patti coi massacrati d’Israele, delusi e defraudati da una comunità internazionale lassista e compiacente coi carnefici, il grido cibernetico di questi ragazzi coraggiosi sta raccogliendo sempre più consensi a livello globale, a giudicare dai commenti sulla loro pagina web che si susseguono istante dopo istante da ogni dove”.
Tipica prosa filo-Hamas, non c’è che dire.
Ma non è finita qua. Poco dopo Codello ci spiega, come e meglio del Feltri di turno, il perché Arrigoni non si possa definire “pacifista” (le virgolette sono sue). Perché
“Arrigoni, sicuramente coerente, ha dedicato la sua vita a lottare, in modo intransigente, e a combattere, con tutte le forme possibili, un nemico odiato e disprezzato. Insomma, una persona che, dal mio punto di vista, difficilmente si potrebbe considerare pacifista”.
E perché mai? Perché combatte l’occupazione Israeliana della Palestina?
Sì, la combatte, e l’ha sempre fatto stando con gli ultimi, contadini e pescatori, ed usando come “arma” l’interposizione, il proprio corpo. Se Codello è a conoscenza di altri dettagli, ce ne renda partecipi, perché per quanto ne sappiamo noi, Arrigoni non ha mai usato la violenza, in nessuna forma. Quindi, parrebbe, il problema è che era nemico del Sionismo. Accidenti, un bel problema...
Per finire il suo “ragionamento” (le virgolette sono mie) sul non pacifismo di Arrigoni, il buon Codello porta ad esempio la scelta della madre di non far passare il cadavere del figlio per il suolo Israeliano.
A questo punto mi arrendo: non sono abbastanza intelligente per seguire il raffinato eloquio di Codello, per cui “la sinistra assegna patenti di pacifismo a proprio uso e consumo” – evidentemente l’unico atto a questo ingrato compito è lo stesso Codello; ora che lo sappiamo gli chiederemo informazioni su dove come provare a superare il sicuramente difficilissimo esame.
Quello che però, dal basso della mia scarsa intelligenza, mi permetto di suggerire è che prima di scrivere su qualcuno, chicchessia, si provi un minimo ad informarsi. Arrigoni ha scritto a lungo sul conflitto tra Israele e Palestina; sulla Palestina stessa, su Hamas e Fatah. Codello poteva leggere – e non solo “a quanto ci è dato sapere, dalle notizie apparse nei vari media” – il suo sito è ancora online e in libreria, a soli 10€, si può trovare il libro delle corrispondenze di Arrigoni per il manifesto durante la democratica operazione “Piombo fuso” (“Restiamo umani”, manifesto libri).
Non m’hanno fatto un baffo le cose inaccettabili scritte su di lui dai media mainstream; mi fa un po’ tristezza leggerle su A, rivista anarchica.
Parecchia tristezza.

Franco Vite
(Monticello Amiata – Gr)

 

Medio Oriente.3/Ma Arrigoni aveva criticato Hamas

Cara A,
ho letto l’articolo di Francesco Codello, “Aldilà dell’apparenza” su Arrigoni e Asor Rosa a pag. 9 del penultimo numero e trovo che Codello sia molto male informato sull’attività di Vittorio Arrigoni.
In particolare, Vittorio Arrigoni non si era mai schierato dalla parte di Hamas, semmai aveva fatto il contrario; vorrei chiedere a Codello di spiegarci dove ha preso questa informazione, che mi lascia basito.
Infatti, Vittorio aveva criticato apertamente Hamas sul suo blog, che evidentemente Codello non si è preso la briga di sfogliare.
Per fortuna Vittorio ha evitato di incappare nella fantomatica “coerenza” – parola di Codello – di schierarsi con Hamas. E lo scriveva esplicitamente: “Scendere in piazza è troppo pericoloso a Gaza, se non piombano bombe dal cielo, piovono manganelli da terra. Fustigati da un governo interno che soffoca i diritti civili basilari, frustrati dal collaborazionismo criminale di Ramallah che viene a patti coi massacrati d’Israele, delusi e defraudati da una comunità internazionale lassista e compiacente coi carnefici, il grido cibernetico di questi ragazzi coraggiosi sta raccogliendo sempre più consensi a livello globale, a giudicare dai commenti sulla loro pagina web che si susseguono istante dopo istante da ogni dove.” [dal blog di Vittorio Arrigoni ].
Insomma, se Codello vuole fare discorsi da bar, gli consiglio di rivolgersi a Vespa o al TG1, ma non ad “A”.

Tommaso Dradi
(Milano)

 

Medio Oriente.4/Ancora su Vittorio Arrigoni

Vi scrivo in relazione all’articolo di Francesco Codello, “Aldilà dell’apparenza”, pubblicato nel numero 363 di “A”.
Nonostante il titolo promettente mi trovo davanti un paio di colonne condite da pressappochismo e superficialità inquietanti, e mi limiterò alla parte relativa ad Arrigoni essendo quella che mi ha maggiormente indignato.
L’articolo si svolge su tre filoni principali, l’attivismo di Arrigoni “dalla parte di Hamas”, la richiesta della famiglia di far transitare il corpo dall’Egitto evitando Israele come gesto “di odio, di guerra e di rifiuto” e infine la assegnazione arbitraria della “patente di pacifismo” ad Arrigoni. Le analizzerò nel dettaglio non perché voglia promuovere una mia tesi contraria a quella dell’autore ma perché ciò che viene affermato nell’articolo è semplicemente falso. Già le premesse sono nere, Gaza viene definito come “il territorio martoriato governato da Hamas”. Se proprio uno volesse caratterizzare Gaza in una frase, forse sarebbe più opportuno fare qualche riferimento a qualcosa altro? La speranza di riferimenti al blocco criminale attuato da Israele con l’appoggio del resto dell’occidente resterà delusa anche leggendo il resto dell’articolo.
“Arrigoni aveva fatto una sua scelta coerente, di tipo politico e ideologico, di stare dalla parte di Hamas, contro lo stato di Israele”. Appena ho letto la frase iniziale di questo paragrafo mi sono chiesto quali fossero le fonti di chi scrive. Arrigoni non era un anonimo attivista, è stato l’unico corrispondente italiano rimasto sotto i bombardamenti di “piombo fuso” – l’attacco criminale israeliano del dicembre 2008 che provocò 1400 vittime di cui 400 bambini – e per anni ha continuato a far avere a chi lo seguiva notizie di prima fonte da Gaza. E chi lo seguiva, io tra questi, sa benissimo che Arrigoni era un laico, pacifista ed era schierato dalla parte del popolo palestinese, oppresso da un assedio criminale che dura da anni. Dalla parte dei palestinesi, non di Hamas, e questo è stato per noi uno dei motivi di ansia appena saputa la notizia del rapimento. Arrigoni aveva simpatizzato apertamente con i dissidenti del movimento Gybo, aveva anche ripetutamente denunciato le repressioni di Hamas nella striscia. E pur volendo tralasciare queste critiche recenti, posso citare uno dei tanti passaggi, ad esempio l’articolo “Palestina, unità nazionale o guerra civile?”, del 16/12/2006 in cui vi si legge fra l’altro:
“Non ho mai simpatizzato per Hamas, tutt’altro, però ritengo che delegittimare un governo democraticamente (ahimé) eletto, significhi solo una cosa: colpo di stato.
Auspichiamo allora un nuovo governo di unità nazionale, in cui i trattati precedentemente conquistati e riconosciuti dall ‘OLP siano ratificati anche dagli esponenti di Hamas.
Auspichiamo soprattutto che l’embargo voluto da Israele venga immediatamente cessato [...]
L’oltraggiosa imposizione delle sanzioni internazionali ha avuto un impatto devastante su un’economia già gravemente compromessa, data la sua estrema dipendenza da risorse finanziarie esterne. [...]
Solo uno stolto non può comprendere che tutto ciò contribuisce al deterioramento della situazione israelopalestinese.
Quindi, da dove attinge le sue informazioni il nostro Codello? Per fortuna lo ammette lui stesso: “Le sue posizioni, a quanto ci è dato sapere dalle notizie apparse nei vari media[…]”. Ora, cercare nei “vari media” per capire le posizioni di un attivista che tiene un blog, una pagina facebook, che scrive su giornali forse è un po’ superficiale. Forse qualche citazione bisognerebbe pur farla. Ed ecco l’unica di Arrigoni, per far capire che tipo sanguinario fosse. Era tanto estremista da “criticare e condannare scrittori israeliani come Oz e Yeoshua ritenuti comunque complici (“con le mani sporche di sangue” sembra abbia sostenuto)”. Il fatto è che Oz e Yeoshua, e non solo loro, hanno giustificato ed appoggiato il genocidio perpetrato a Gaza nel 2008 da parte dell’IDF. Eccessivo questo Arrigoni che rischiava la vita sotto le bombe mentre questi personaggi, che vengono pure indicati come “il fronte della pace”, appoggiavano l’attacco israeliano.
Il passaggio in cui asserisce “Un uomo, Arrigoni, […]che ha dedicato la sua vita […] a combattere, con tutte le forme possibili un nemico odiato e disprezzato” è moralmente disonesto, un’ingiuria alla memoria di un pacifista che il massimo atto di aggressione che ha fatto è stato offrire il suo corpo come protezione nelle ambulanze a soccorso dei feriti.
“La madre di Arrigoni ha chiesto e ottenuto che il corpo del figlio venga riportato in Italia senza transitare da Israele, perché l’attivista aveva combattuto tutta la vita contro lo stato ebraico”. Sulla base di questa impostazione, falsa come vedremo dopo, l’autore sviluppa un ragionamento astruso che porta fino all’assurdo, l’autore si/ci chiede “negare il diritto agli ebrei e agli arabi che abitano questo territorio [Israele] di avere uno spazio fisico, organizzato secondo i loro voleri, servirà forse a risolvere il problema dell’altrettanto diritto dei palestinesi ad averne uno proprio?”. Eccoci, questo sedicente pacifista, che si oppone all’occupazione colonialista e criminale di Israele è quello che si auspica di negare i diritti agli ebrei e agli arabi di un territorio proprio. Incredibile.
La famiglia di Arrigoni ha chiesto di non far transitare il corpo del figlio non per le lotte fatte ma perché Vittorio era indesiderato in Israele da vivo. Era stato arrestato e incarcerato nel 2008 per un orrendo crimine, aveva accompagnato e documentato il tentativo di un pescatore di Gaza di svolgere il suo lavoro. Da anni, in modo del tutto arbitrario e illegale, Israele impedisce ai pescatori di Gaza di uscire con le barche. Intercettato e arrestato, Vittorio è stato espulso dal territorio di Israele. E questo è stato da subito l’esplicito motivo che la famiglia ha addotto nel richiedere che la salma non tocchi il territorio israeliano, non l’avete voluto da vivo, non passerà da morto. “Simbolo di odio e di guerra” dice l’autore. L’occupazione israeliana, la colonizzazione, il sistema di apartheid costruito, la pulizia etnica della Palestina, l’oppressione che una potenza nucleare effettua su una piccolissima area densamente popolata, la riduzione a batunstan dei territori palestinesi, sono i simboli di pace che probabilmente Codello apprezza di più.
E sullo sfondo la tesi che prima di Codello hanno sostenuto i diversi Ferrara sparsi sul nostro panorama giornalistico, cioè quella per cui siccome Arrigoni è un attivista, e per di più schierato, allora non è un pacifista. Arrigoni deplorava l’uso della violenza per la risoluzione di un qualsiasi conflitto. Lo ha scritto e sostenuto centinaia di volte, sarebbe bastato informarsi. Ma l’autore porta avanti un ragionamento superficiale che vorrebbe il pacifista come “equidistante” tra oppressi e oppressori, come non schierato, come antonimo di attivista, che arriva perfino all’ipocrita tentazione (sic) “di sostenere che ognuno pianga i suoi morti”.
Era tollerato ed aveva anche relazioni con le autorità locali, democraticamente elette a Gaza, del partito islamico di Hamas. Rapporti con le autorità locali sono indispensabili per chiunque voglia agire all’intero di un’area in guerra. Non era un militante della resistenza palestinese, non era un membro di Hamas e non credeva nella soluzione del conflitto attraverso la violenza. Era un pacifista. Ed è un fatto, non un’opinione.
Ritrovare in “A” le argomentazioni – che solo su falsità possono poggiare – che ho trovato in diversi articoli della destra più becera mi lascia stupito e con la sensazione di aver letto un articolo di sicuro non degno della vostra rivista. Il titolo, poi, sembra una beffa.

Mariano Heluani
(Caserta)

 

Referendum.1/Perché non voto

Periodicamente si ripresenta il tema politico del referendum e tra gli schieramenti si riaccende il dibattito che coinvolge anche gli anarchici: nascono discussioni sulla partecipazione o meno alla consultazione.
Scrivo quanto segue stimolato da una conversazione con Giordana Garavini che, in occasione dei festeggiamenti per il quarantennale della fondazione di A, mi ha chiesto un’opinione appunto sui referendum. Metto per iscritto quindi, ciò che ho sempre pensato e sostenuto a proposito di rappresentatività e scelta consapevole e che, comunque, è già stato argomentato da altri in maniera esauriente ed efficace, convinto che una voce in più costituisca un tassello di riflessione anarchica che fa riferimento alla coerenza tra mezzi e fini.
Il significato di anarchia designa una condizione senza autorità. Ciò dà senso al diniego del dominio e all’affermazione della libertà. L’azzeramento del potere comporta, da parte di chi è anarchico, il rifiuto di tutte quelle istanze di impianto autoritario in cui si stabilisce un rapporto asimmetrico tra chi comanda e chi ubbidisce, tra chi decide e chi subisce la decisione. Viceversa, la concezione secondo la quale si rende inevitabile e necessario il potere dominante, determina un immaginario che orienta i comportamenti passivamente esclusivi della gente che pensa che non si possa fare altrimenti. In questo modo si istituzionalizza la gerarchia.
Occorre cambiare, riorientando l’immaginario verso un agire senza dominio. E questo è fattibile.
Gli anarchici non hanno e di fatto non riconoscono capi, dirigenti, leader ai quali consegnare la propria volontà perché essi manifestano direttamente, individualmente e responsabilmente la libertà. Essere liberi significa autodeterminarsi esercitando le proprie scelte senza i vincoli di leggi stabilite da un parlamento di eletti e rese operative da un governo. Gli anarchici perciò rifiutano, negandone la validità, la partecipazione alle consultazioni referendarie in quanto essi non delegano a chicchessia le proprie scelte. Partecipare al referendum equivale a dare mandato al parlamento l’abrogazione o meno delle norme che regolano la legge. I parlamentari sono una casta di privilegiati oligarchi eletti democraticamente da un popolo piegato alla servitù volontaria e che si sentono perciò investiti di un’autorità legittimante atta a legiferare e prendere decisioni esercitando il potere in nome di molti.
Noi vogliamo, viceversa, una società senza leggi dove non vi siano maggioranze che prevarichino sulle minoranze e/o viceversa. Una società autoregolata dal buon senso stabilito unanimemente dal libero accordo tra uguali che praticano perciò l’azione diretta e l’autogestione.
L’istituto del referendum che, rispetto alle elezioni, sembra coinvolgere maggiormente le persone nelle decisioni, in realtà è soltanto consultivo, cioè chiede di esprimersi in merito all’abrogazione o meno di norme riguardanti una legge, ma la stessa permane, magari modificata, o viene sostituita da un’altra legge ed è essa che determina ciò che si può e non si può fare. Vincoli istituzionali, gestiti sempre e comunque da un potere di pochi che domina.
E io sarei contrario anche nel caso vi fosse un referendum propositivo in una qualsivoglia legge in quanto quasi certamente potrebbe essere espressione di una spinta dal basso corrispondente ad una volontà popolare, ma a decidere sarebbe comunque una minoranza delegata di deputati rappresentanti in un ambito di funzionamento democratico rappresentativo e verticistico – quell’alto che vogliamo abolire – contrario quindi ai valori condivisi dell’anarchia e affermati nella pratica dell’anarchismo.
In conclusione le regole di un sistema autoritario vanno disattese disertando le consultazioni elettorali e referendarie per dare campo alla creatività dell’autoregolazione paritaria e orizzontale della società come risposta attiva per un autentico cambiamento atto a abolire le disuguaglianze tra gli esseri umani e per accedere alla possibilità di un mondo diverso, un’organizzazione sociale di liberi ed uguali.
Insomma, essere anarchici comporta conseguentemente ad agire liberamente da anarchici, astenendosi dal partecipare ai meccanismi democratici “offerti” dallo Stato.
Acraticamente,

Tommaso Bressan
(Forlì)

 

Referendum.2/Oltre le logiche della delega

Come libertari non ci facciamo facili illusioni sugli strumenti elettorali o di partecipazione “dal basso” messi a disposizione della società da parte dello Stato, come quello referendario. In quanto non li consideriamo come il mezzo per dare una risposta il più possibile adeguata alle problematiche ed alle necessità della vita su questo pianeta.
Crediamo infatti in un attivismo di tipo variegatamente quotidiano dove mezzi e fini tendano il più possibile a combaciare, dalle cui pratiche concrete e lotte reali possa scaturire la prospettiva di un coordinamento di diversi soggetti e spazi sociali. Ed una regolamentazione autogestionaria non impositiva o coercitiva come attrezzi di miglioramento e potenziamento della vita stessa, da raggiungere tramite processi di autocoscienza in una direzione che inverta la tendenza generale alla concentrazione del potere, propria di tutti i sistemi di dominio.
Tuttavia siamo anche consapevoli del fatto che questa inversione di tendenza – che già di per sé è rivoluzionaria – può avere bisogno per svilupparsi di passare da un gradualismo che implica anche la necessità di trovare delle mediazioni su specifici contesti e conflitti.
Il 12 e il 13 giugno c’è la possibilità di votare o meno per un referendum abrogativo riguardante tre temi (quattro quesiti) che in sé sono di importanza capitale per il repertorio delle rivendicazioni libertarie del presente e del prossimo futuro: la lotta contro la corruzione tipica di qualsiasi classe politica, il libero accesso da parte di tutti/e ad un bene primario come l’acqua, l’opposizione alla costruzione di centrali nucleari sul territorio italiano.
Sappiamo bene che non basta abrogare una legge per risolvere il problema della corruzione politica, in quanto la sua soluzione non può essere affidata alla stessa causa che l’ha generata, ovvero il sistema di poteri dello Stato. Così come sappiamo che non c’è vera parità di opportunità ed accesso ecologico alle risorse della Terra se “pubblico” fa rima con “statale/aziendale” e non con “sociale/autogestito”. Né pieno antidoto al nucleare senza una ricerca e sviluppo di fonti energetiche alternative e rinnovabili che non sia espressione di un altro modo di fare business.
E tuttavia siamo dell’idea che se le leggi in questione dovessero rimanere in vigore, significherebbero un ulteriore pesante colpo a quelle stesse lotte autorganizzate che attraversano tutto il territorio italiano costituendo un’autentica linfa vitale per il movimento anarchico, ed alle loro rivendicazioni che direttamente riguardano i temi in questione.
Non sarà certo andando a votare domenica e lunedì che affermeremo una via di protagonismo e azione diretta come quella che più autenticamente cerchiamo. Ed anzi, sappiamo che spesso gli strumenti partecipativi possono avere l’effetto boomerang di restituire fiducia negli organismi democratici e liberali proprio quando i loro vertici si allontanano dalla base, rivelando le contraddizioni latenti del sistema.
Ma di fronte al continuo ed indiscriminato attacco alla dignità ed alla libertà delle persone da parte delle istituzioni governative e padronali di questo Paese, riteniamo necessario e doveroso non lasciare niente di intentato, neanche il 12 ed il 13 prossimi.
Su questa base invitiamo tutti i lavoratori e le lavoratrici, giovani e disoccupati, studenti e studentesse, insieme a tutte le realtà e i singoli individui dell’universo libertario, ad andare e votare quattro Sì al prossimo referendum, per raggiungere il quorum necessario e vedere abrogate tutte e quattro le leggi sottoposte a valutazione popolare.
Ma invitiamo a farlo con la volontà ed il bisogno di iniziare nuovi processi di lotta diffusi che sappiano andare oltre le giornate di domenica e lunedì, e le logiche ad esse soggiacenti.

CUSA – Umanesimo Anarchico
www.cusa.splinder.com

 

Referendum.3/Prenderli con le molle

Il tema del referendum è delicato e ne porta degli altri, ma va preso con le molle. È un dato pratico il fatto che non si tratta di elezioni con delega politica diretta, ma è pure da considerare che, in fin dei conti, è una legittimazione del potere statale, più parlamentare o meno. Nel 1974 gli anarchici di Trieste (e quasi tutti quelli della FAI e di altri gruppi) non andarono a votare nel referndum sul divorzio sia per motivi di principio sia perché eravamo convinti che la soluzione dei rapporti personali in crisi andava costruita dentro nuove relazioni aperte e libere da ingerenze clericali o statali. Eravamo in una fase nella quale ci sentivamo in grado di affrontare questioni enormi con le nostre proposte libertarie e extralegalitarie.
Il problema, per un gruppo anarchico, non è tanto la decisione personale (voto o non voto:comunque rilevante) quanto quella di vedere quanto e come si può restare se stessi anche se si cede sul piano della coerenza assoluta tra teoria e pratica. Da un lato si sa che non pratichiamo la coerenza assoluta in quanto viviamo in una società autoritaria e quasi ogni giorno dobbiamo scontare delle contraddizioni tra ciò che sappiamo essere coerente e valido anarchicamente e ciò che facciamo. Accettare dei compromessi non significa mai considerarli parte integrante della nostra idealità e dei nostri valori di riferimento o del nostro modello di vita e di attività. Al contrario. Secondo me significa che non abbiamo, quasi sempre, la forza per opporci alle scelte che ci impone il potere e la nostra sussistenza nella realtà presente.
Questi eventi referendari hanno, di fatto, mobilitato molta gente, anche compagni in senso lato, che hanno visto una possibilità di cambiamento sia politico che sociale che culturale. Da tempo stiamo facendo i conti con un modello di gestione sociale sempre più privatizzato e corrotto, sempre più verticistico e consumista, sempre più razzista e repressivo, sempre più fondato sul profitto e sulla distruzione dell’ambiente. Secondo me, il punto su cui riflettere è questo: la vittoria dei no cambia qualcosa nei rapporti tra potenti e subordinati, aumenta le speranze di rovesciare la gerarchia esistente (ovviamente non per sostituirla con alcun’altra).
Purtroppo quando vedo, anche per Internet, molta gente con cui ho/abbiamo collaborato essere felice per i risultati, mi chiedo se dobbiamo accettare temporaneamente di vivere con chi nutre illusioni sui “poteri buoni”. Al tempo stesso mi rendo conto che non pochi di quelli che si sono dati da fare per i referendum li troviamo nelle proteste antirazziste, ecologiste, antirepressive, ecc.
In sostanza: siamo (o vorremmo essere) diversi da chi si illude di vivere meglio sotto un’amministrazione democratica e di sinistra che semplicemente inganna e opprime in un modo alquanto diverso (ma non troppo) da quello delle destre che ora sembrano in calo di consensi. Cosa proponiamo a chi ci dice che è inevitabile opporsi anche col voto (oggi referendario, domani politico)? Aumentano o si riducono gli spazi per le nostre proposte, in fin dei conti antistatali e di azione diretta?
Il lavoro da fare è grande. Per dare speranza alla autogestione della vita, alla liberazione degli esseri umani, all’equilibrio ecologico, alla ricerca della libertà coniugata con l’eguaglianza,...Però le occasioni e gli spazi ci sono. Partecipare a molti, piccoli o meno, movimenti antirazzisti, contro TAV, e vari altri ci dà, credo, la soluzione al “che fare” di lontana memoria.
In conclusione: relativizzerei la questione referendum a un fatto poco più che psicologico per valorizzare le iniziative più collegate ai nostri valori di riferimento antiautoritari. Che non perdono tanto in vitalità se, per qualche tempo, le speranze di emancipazione totale dei nostri interlocutori passano per deleghe elettorali. In Spagna prima del golpe,...ma qui mi fermo. Tutti/e sanno cosa fecero, in termini di rapporto con la politica istituzionale, le organizzazioni anarchiche e libertarie. Caso logicamente diverso, ma anche che riproduce temi con cui sempre l’anarchismo, qui e là, ieri e oggi, deve fare i conti.

Un abrazo libertario
desde Barcelona,.

Claudio Venza

PS. Per Malatesta, al di là delle forti polemiche antielettorali, il consenso elettorale ai socialisti non era un grave danno all’anarchismo. Lo prendeva come oggi si prenderebbe un sondaggio che dimostrava la volontà confusa e contraddittoria di liberazione sociale. Può ricordare qualcosa?

 

 

Le cooperative e la cultura americana

Gli Stati Uniti si distinguono dall’Europa per una profonda diversità storica, una tradizione storica molto più libera e liberale. Mentre in Europa le componenti liberali e socialiste si battevano contro il potere del re e dei tiranni negli USA si viveva il mito della frontiera e della libertà da un organismo centralizzato, uno stato quello americano che almeno alle origini era del tutto inesistente. Da questa matrice culturale si sviluppa anche l’odierna cultura libertaria americana che affonda le radici nel pensiero liberale dei padri fondatori e negli articoli più belli e liberi della Dichiarazione d’Indipendenza.
Negli Usa gli anarchici delle seconda metà dell’800 combattevano lo stato semplicemente cercando di deviarlo, di sperimentare con concretezza l’alternativa alle istituzioni statali e autoritarie. Come dimenticare il magnifico progetto, fallito per la repressione fiscale, di Lysander Spooner l’anarchico individualista americano che mise su una nuova compagnia postale, con tariffe molto basse, in concorrenza con quella inefficace dello stato. L’America dove, e per certi versi ancora oggi, fiorivano comunità indipendenti dallo stato che si riunivano sia per carattere religioso che politico.
Questa è l’America culturale delle “Cooperative dei lavoratori”, metodi di gestione da diffondere anche in Europa che comunque ha una tradizione storica forte in mutualismo economico. Si è dati una valenza ancora più fortemente liberale alla concezione libertaria della “Sovranità dell’Individuo” (Warren) facendola divenire “Sovranità del Consumatore”. Le Cooperative Usa rappresentano efficacemente e concretamente l’alternativa di mercato al capitalismo, alla burocratizzazione e allo stato. Libertà d’Impresa, spirito di ricerca, responsabilità, trasparenza di gestione, decentralismo delle decisioni, democrazia diretta e partecipata, attenzione alle tematiche dei diritti sindacali e all’ambiente, ecco cosa muove nel mercato queste cooperative, un mercato che per ricordare le parole di Pietro Adamo potenzia tutte le sfere dell’esistenza, non solo economiche, da divenire libertario. D’altronde stesso negli Stati Uniti si è diffusa una nuova teoria politica-economica definita neo-mutualista, una teoria economica inizialmente definita da Pierre – Joseph Proudhon ma rivista e perfezionata dal mutualista contemporaneo americanokevin Carson. Secondo tale teoria il mercato non è la fonte del male, bensì un sistema neutrale di scambi volontari che è stato alterato dallo e per lo Stato per far arricchire pochi: i banchieri, le grandi corporazioni, i proprietari terrieri ed i burocrati. Senza il suo schienale, questi monopoli cadrebbero, dando luogo ad una società più ugualitaria di qualunque regime comunista, rispettando la proprietà e la libertà individuale.
La sfida è nel diffondere la nascita di queste cooperative anche per la produzione di servizi essenziali e di monopolio. Immaginate un simile modello che produca assistenza medica o sicurezza, oppure immaginate una cooperativa che produca moneta alternativa allo stato, che diffonde ai membri che aderiscono a tal modello facendo propri sia i vantaggi che i rischi. Lo stato si frantumerebbe sotto i colpi della libertà, perché attaccato economicamente quindi semplicemente fallirebbe. Spirito di intrapresa, mutuo appoggio, trasparenza dei bilanci e della produzione, ecco cosa diffondere da noi, magari mettendo su dei corsi in: “Organizzazione e Formazione di Cooperative”.

Domenico Letizia
(Maddaloni – Ce)

 

Ancora su Bobby Sands

Vorrei aggiungere qualche commento alla recensione di Gianni Sartori su “Il diario di Bobby Sands” (“A” 363, giugno 2011). La sua critica sui vari tentativi da parte della destra di monopolizzare sia la sua figura che la lotta è più che giustificata se esaminiamo la “storia” di questo conflitto. È sempre problematico parlare di “storia” nel contesto nordirlandese perché in un attimo ci troviamo arenati nelle sabbie mobili di King Billy, battaglia del Boyne, ecc.. Io mi riferisco a fatti successi durante la mia vita e che, anche se non ho potuto testimoniare in prima persona sul posto mi toccavano tramite TV, giornali, attentati nelle città inglesi e sopratutto tra contatti personali con colleghi di studio e di lavoro nordirlandesi.
Governi britannici, lealisti ed altri preferiscono dimenticare che questa lotta – comunemente conosciuto come i “troubles” – non è iniziata con un’insurrezione armata per rivendicare o avere la rivincita su chissà quale antica battaglia da parte della popolazione cattolica o repubblicana, ma è iniziata come un tentativo pacifico di rivendicare i diritti civili in emulazione delle marce dei diritti civili di Martin Luther King.
Esisteva nell’Irlanda del Nord una situazione di apartheid basata non sul colore della pelle ma sulla appartenenza religiosa ed anche etnica della popolazione. Così le marce per i diritti civili a Derry, Belfast ed altri posti suscitò la rabbia delle autorità locali. Nel caso di Derry, reparti speciali della Royal Ulster Constabulary sceserò nel quartiere cattolico di Bogside una domenica mattina per malmenare e manganellare i residenti nei loro letti, come punizione per avere ardito di suggerire che la loro società “civile” fosse invece estremamente incivile. Tragicamente, altre manifestazioni e proteste portarono anche al massacro di Bloody Sunday (“la domenica sanguinosa”).
È importante capire che quei poliziotti della RUC che malmenavano la gente nei loro letti non si fermavano per chieder loro prima se erano cattolici praticanti o atei, o se erano socialisti, conservatori, o altro. Per la maggior parte dei protestanti nordirlandesi, di stretta osservanza presbiteriana – calvinisti fondamentalisti – ogni cattolico è seguace dell’Anticristo,ccioè il Papa (secondo la loro interpretazione dell’Apocalisse). Essi sono dunque predestinati alla dannazione eterna e dunque vanno repressi e puniti senza misericordia. La loro identità “cattolica” dunque era di una importanza vitale che non si poteva rinnegare per motivi ideologici...
Dunque non c’era scelta per qualsiasi giovane nordirlandese cattolico o repubblicano – un’intera comunità veniva attaccata indiscriminatamente per il semplice reato di esistere. E perlopiù, la decisione del governo britannico di mandare i suoi soldati in “missione di pace” diede la forza delle armi ai protestanti. Data la lunghissima storia di lotte contro il Regno Unito in Irlanda perfino il fantasma dell’Irish Republican Army si svegliò. Ma anche la Official IRA non era in grado di confrontare questa nuova lotta (anche perché vari gruppi d’interesse nella Repubblica Irlandese non desideravano scuotere troppo la barca) e così nacque la Provisional IRA.
La prima espressione d’impatto nazionale ed internazionale non è stata l’insurezzione armata ma l’elezione all’età di 21 anni (l’età di maggioranza in quell’epoca) di Bernadette Devlin/McKluskey come deputato del parlamento britannico. Andai ad una sua conferenza negli anni settanta tenutasi a Londra dove mentre lei parlava, dalle balconate membri del National Front gridavano “Fenian whore” (lascio agli esperti di lingua la traduzione). Quei pochi cretini furono subito espulsi.
Lo stesso Bobby Sands, nato nel 1954, passò una gioventù “normale” con espulsioni dal posto di lavoro e dovere abbandonare la casa di famiglia varie volte dopo violenze da parte di uomini armati e mascherati.
Fra colleghi e incontri casuali, di tanto in tanto mi trovavo a discutere con protestanti dei ceti medi nordirlandesi, o peggio ancora, bigotti inglesi che avevano visitato l‘Irlanda del Nord. I primi mi assicuravano che loro stessi erano “brava gente” ma che i cattolici erano delinquenti, spesso nomadi e molto sporchi e che spesso tenevano il carbone nella vasca da bagno. Qualche bigotto inglese m’informò che i cattolici nordirlandesi decoravano i muri con escrementi – così deformando, banalizzando e utilizzando la “dirty protest” dei detenuti repubblicani per ancora diffamare e discriminare l’intera comunità cattolica nordirlandese.
Fra i miei ex-colleghi di lavoro mi ricordo di due in particolare – uno di Belfast, protestante, membro dal suo tempo trascorso a Belfast come pubblico ufficiale della Orange Lodge, e l’altro di Derry della comunità cattolica e che aveva visto i fatti famosi agli inizi dei “troubles”. Questi passavano molte serate insieme in un pub londinese ingerendo fiumi di Guinness. Ma m’informarono in tutta serietà che la loro permanenza a Londra gli era molto cara perché se per caso s’incontravano a casa loro dovevano fare finta di non conoscersi, altrimenti sarebbero sicuramente malmenati o uccisi.
Forse una vecchia barzelletta nordirlandese potrebbe spiegare molto bene il dilemma di tutto il popolo nordirlandese – C’è il censimento nell’Irlanda del Nord ed un ufficiale bussa ad una porta e fa le solite domande su quanti in famiglia, quante stanze, ecc. e alla fine del questionario dice “Ora signore vi devo chiedere se siete cattolico o protestante”. L’interpellato risponde “Sono ateo.” Con un sorriso compiacente l’ufficiale insiste. “Sì, caro signore. Ma io devo sapere se siete un ateo cattolico o un ateo protestante.”
Dunque grazie Gianni Sartori per aver ricordato Bobby Sands con la tua recensione. Sono pienamente d’accordo con la tua critica verso l’estrema destra in questo riguardo perché già quarant’anni fa usavano parlare del popolo oppresso dell’Irlanda del Nord con le stesse parole e sentimenti dei nostri più familiari leghisti.

Nino Staffa
(Mongrassano – Cs)

 

Lettera aperta alle/ai compagne/i di Ferrara

Dal lontano 1872 la provincia di Ferrara poté vantare una propria sezione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, l’inizio non fu certo promettente a causa di una scarsa coscienza politica ma, fra altri e bassi a volte determinati da incomprensioni interne e da avverse condizioni esterne (si veda il periodo del regime fascista), il movimento è riuscito a mettere radici nel territorio grazie anche all’attività sindacale e alla febbrile attività di personalità di notevole spessore politico e morale.
Nell’immediato dopoguerra il nostro movimento ha continuato ad esistere in una sorta di limbo, schiacciato fra l’onnipresente ed asfissiate P.C.I. e movimenti extraparlamentari di estrazione marxista, nonostante il contributo dato alla ricostruzione della società civile ferrarese.
Disgraziatamente dagli ‘80 ad oggi, indipendentemente da grandi personalità come il compianto Remo Tartari, il movimento ha iniziato una lenta ed inesorabile corsa verso l’oblio. Forse ha pesato la mancanza di una strategia che andasse oltre la pura testimonianza, forse hanno pesato i grandi mali che contraddistinguono l’esistenza ed il declino di tanti gruppi e realtà: il personalismo di alcuni, a cui fa da contrappeso l’apatia di altri. A quei tempi non sapevo neppure chi fossero gli anarchici quindi posso fare solo inutili speculazioni, molto più produttivo invece guardare al futuro.
Purtroppo ogni volta che in una determinata area viene meno una continuità d’azione, seppur flebile e quasi embrionale, le condizioni per la rinascita sono abbastanza proibitive e necessitano di molto tempo per poter tornare ad essere favorevoli all’operatività di un gruppo ben strutturato.
Oggi il movimento nella nostra provincia è oggettivamente sfilacciato se non addirittura inesistente dal punto di vista politico: altalenante fra il vecchio decano sconfortato che vive di ricordi ed il giovane militante che non vede oltre l’azione immediata, molto spesso sterile e controproducente per l’Idea. Non si riesce a ritrovare lo stimolo per uscire dall’oblio mentre il mondo intorno a noi sta cambiando e non certo in meglio. Il mondo ha bisogno di nuovi stimoli ed una differente prospettiva, che abbia come punti di riferimento la Libertà e la Solidarietà attraverso la democrazia diretta.
Questa nuova prospettiva la può dare solo il pensiero anarchico (da cui il buon Grillo ha ben pensato di scimmiottare alcuni principi in salsa borghese per darsi quell’alone di “antisistema”). Essere anarchici non significa stare seduti in poltrona a leggere “A” o fare semplici elucubrazioni teoriche al bar insieme agli amici (a cui magari non importa nulla oltre la partita domenicale), come non significa imbrattare muri con frasi scontate che inevitabilmente incontrano solo la riprovazione di tutti; essere anarchici significa essere protagonisti della propria esistenza rispettando l’altrui dignità, lottare affinché tutti capiscano l’importanza della democrazia diretta attraverso l’esempio concreto, puntare i piedi davanti all’ingiustizia e al privilegio di una classe politica marcia e corrotta che rappresenta solo se stessa, significa essere padroni del proprio destino ed assumersi la responsabilità delle proprie scelte.
Chiedo quindi a tutte/i di contattarmi per ricreare insieme, un passo per volta, lentamente ma inesorabilmente, quei presupposti affinché anche nella nostra provincia possa rinascere il nostro movimento. Chi vuole può contattarmi tranquillamente al 347 85 24 779.
Saluti anarchici.

Giorgio Franchi
(Ferrara)

Cesare Battisti

 

In margine al “caso Battisti”

Nel mese di giugno il supremo tribunale brasiliano ha definitivamente negato l’estradizione di Cesare Battisti, disponendone al contempo l’estradizione. La maggioranza dei giudici ha così approvato la decisione proferita da Luiz Inacio Lula da Silva di non concedere l’estradizione dell’ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo, in base ad una scelta compiuta lo scorso dicembre, nell’ultimo giorno del suo mandato di presidente della repubblica.
Il caso è fin troppo noto per doverne ulteriormente approfondire i risvolti cronachistici. Nelle righe seguenti si vuole considerare l’ “affaire Battisti” come sintomo e indizio per una considerazione più generale su quanto è accaduto in Italia negli anni Settanta e sulla ricezione che se ne riceve oggi attraverso i media, senza entrare nel merito di questa specifica vicenda giudiziaria. Non interessa qui il particulare, ma il risvolto generale a cui il caso inevitabilmente rimanda.
I giornali hanno dato ampio rilievo alle sdegnate reazioni del mondo politico italiano, una volta tanto decisamente bipartisan, condividendone la sostanza. Le eccezioni sono state rare e, il presente contributo, intende proprio collocarsi all’interno di questo piccolo resto. Non considereremo qui i commenti dei politici e della stampa di destra, in quanto delegittimati alla radice: come è possibile, infatti, impuntarsi nel richiedere l’applicazione di una sentenza, quando da anni null’altro si è fatto nel campo della giustizia se non denunciare la faziosità e quindi l’inattendibilità dell’operato dei magistrati? Se la magistratura è marcia, ergo dev’esserlo – o può esserlo – anche nella vicenda di Battisti: why not?
Più complessa è la situazione riguardante l’intelligencija di sinistra, la quale intende coniugare, almeno nelle intenzioni, la fedeltà e la fiducia nelle istituzioni repubblicane con i temi forti dello stato di diritto e con principi della tradizione liberal, in una prospettiva quindi stellarmente distante da ogni irrazionalismo persecutorio. All’interno di questo ampio schieramento colpisce la posizione di uno dei maggiori quotidiani nazionali, da sempre in prima fila nel richiedere l’applicazione della condanna nei confronti di Battisti, poiché sulle colonne dello stesso quotidiano da anni compare la firma di Adriano Sofri, divenuto nel frattempo un opinion-maker del giornale; ma anche su di lui, come su Battisti, grava una condanna passata in giudicato per omicidio politico; e pure lui, come Battisti si è sempre dichiarato innocente. Ma simile doppipesismo non ha suscitato alcuno scandalo, facendo tutti finta di nulla.
In questa prospettiva l’“affaire Battisti” assume proprio i tratti di un sintomo, di una spia che non si può non analizzare per verificare tali dichiarazioni di principio. Vediamo come.
Prima di rifugiarsi in Brasile, Battisti ha vissuto diversi anni in Francia, usufruendo della cosiddetta “dottrina Mitterand”, la quale tendeva a negare l’estradizione di persone condannate o ricercate per «atti di natura violenta ma d’ispirazione politica», diretti contro qualunque stato, purché i loro autori avessero rinunciato a ogni forma di violenza politica. Mitterand, di fatto, concedeva diritto d’asilo a ricercati stranieri che in quel periodo si erano rifugiati in Francia.
Non solo: tale prassi era basata solo su dichiarazioni orali di Mitterrand e si poneva in contrasto con le obbligazioni internazionali della Francia. I principi di questa dottrina furono successivamente elaborati da un gruppo di lavoro (formato da alti ufficiali di polizia, avvocati, magistrati e da consiglieri dell’Eliseo e del governo francese), ma non vennero mai trasposti in alcun provvedimento avente una qualche efficacia o validità giuridica; semplicemente, nel caso dei rifugiati italiani, tale prassi veniva giustificata con una dichiarata “non conformità” della legislazione italiana agli standard europei.
Ora nessuno può negare che Mitterand sia un’icona della cultura politica della sinistra italiana. Medesima considerazione può essere fatta a proposito di Lula; anzi i due proprio per via delle loro diversità risultano complementari, integrandosi bene nell’immaginario collettivo della nostra sinistra, la quale in più circostanze li ha additati come esempi da ascoltare e da seguire: il raffinato e colto presidente francese, espressione della grandeur europea, da una parte; il presidente dalle origine terzomondiste, autodidatta, metalmeccanico e sindacalista, dall’altra.
Ma come mai allora queste due icone le troviamo accomunate proprio in quei provvedimenti a favore di ricercati per fatti riguardanti la violenza politica degli anni Settanta? Non è, forse, che la loro distanza (non tanto geografica, s’intende) rispetto a quegli avvenimenti li ha posti nelle condizioni di comprenderne la portata e di “fare qualcosa di sinistra”, compiendo l’unica cosa sensata che c’era da fare?
Si ha così l’impressione che la decisione del tribunale brasiliano (come in precedenza la “dottrina Mitterand”) abbia fatto emergere in Italia ciò che il linguaggio psicoanalitico definirebbe come l’irruzione di un contenuto rimosso, come allontanamento dalla sfera della coscienza di aspetti reputati inaccettabili.
Ma cosa c’è di inaccettabile agli occhi e alle orecchie del giornalismo, della storiografia e della politologia liberal? In breve: riconoscere il semplice fatto che in Italia, negli anni Settanta, è nato e si è sviluppato un vasto movimento sociale e politico, al di fuori dei partiti e dei sindacati della sinistra istituzionale; riconoscere che questo movimento ha operato concretamente per una trasformazione in senso rivoluzionario della società, operando anche in una prospettiva di illegalità di massa e diffusa (cortei non autorizzati, picchetti davanti a fabbriche e scuole, autogestione delle scuole, occupazione di case, “basi rosse” nei quartieri di periferia, autoriduzione delle bollette, “espropri proletari” nei grandi magazzini, ecc.); riconoscere anche che dentro questo movimento, estremamente articolato e variegato al suo interno, sono sorte formazioni armate e combattenti, ispiratesi o al tema della ”resistenza tradita” o alle guerriglie terzomondiste allora in auge o a correnti immediatiste descrivibili nei termini di un “esistenzialismo armato” o, più in generale, alle varie teorie di presa del potere marxiste-leniniste (ma non solo) – alcune di queste con l’intento dichiarato di voler sovradeterminare gli esiti di questo ampio movimento, altre più semplicemente (e drammaticamente) come schegge incontrollate e impazzite.
Questo movimento, nel suo complesso, ne è uscito sconfitto, non vi è dubbio; in parte anche a causa delle derive combattenti. Ma da parte dello stato e di coloro che l’hanno rappresentato in questo lungo arco di tempo non si è voluto andare al di là di una definizione di quanto avvenuto in termini giudiziari, rifiutando aprioristicamente – fatte alcune episodiche eccezioni – una qualsivoglia soluzione politica della questione. In una prospettiva, quindi, opposta rispetto a quelle intraviste appunto da Mitterand e Lula.
È vero gli anni Settanta hanno visto anche episodi di una violenza aberrante; ma è pure vero che episodi analoghi li possiamo riscontrare in ogni accadimento storico di una qualche intensità, come nella storia della resistenza o nel risorgimento, senza per questo dover screditare l’evento nella sua interezza, come amerebbero fare i revisionisti di turno.
Sia chiaro, questa affermazione non vuole contenere sic et simpliciter una valenza assolutoria, ponendo sullo stesso piano ogni avvenimento. Degli “anni di piombo” sarebbe stato importante da parte di tutti ritornare (purtroppo l’uso del condizionale dopo tutti gli anni trascorsi diviene obbligatorio), per guardarli e raccontarli per quello che sono stati, riuscendo a coltivare ed affinare una percezione e una comprensione dell’accaduto, magari ancora partecipata, sentita e di parte, ma sufficientemente depurata dal trascorrere del tempo, tale da consentire di provare a chiudere un capitolo della storia del fine secolo trascorso, per andare avanti. Le cicatrici, le ferite, i lutti sarebbero rimasti, certo, ma si sarebbe potuto andare avanti per lo meno alleggeriti di qualche peso e con una prospettiva differente dinanzi.
Invece la liquidazione giudiziaria che ne è stata fatta non ha facilitato tutto ciò, anzi. L’uso delle categorie del pentitismo e della dissociazione come unico viatico per uscire da quegli anni (laddove la definizione giudiziaria, etica e politica di tali categorie veniva costantemente e ambiguamente mescolata e confusa), con la conseguente condanna irrevocabile del nostro passato prossimo (compendiabile nello slogan “ribellarsi è giusto”), sembra avere ben altro fine rispetto a un sano desiderio di appurare la verità o di ripristinare la giustizia. Più che altro ciò che si è visto e si vede tuttora in atto è la volontà strisciante, attraverso le ricostruzioni inquisitoriali nei confronti degli anni Settanta, di voler al contempo condannare un passato ed ipotecare e colonizzare presente e futuro. Tanto per fare un esempio, il richiamo alla legislazione emergenziale degli anni Settanta, evocata spudoratamente quest’inverno nel pieno delle manifestazioni studentesche contro la riforma Gelmini, esplicita ciò che si va dicendo. “Viviamo nel migliore dei mondi possibili, non bisogna ribellarsi!”, tale è l’imperativo subliminale e minaccioso che si vuole insinuare nelle menti dei più giovani.
“Il diritto è la vendetta che rinuncia”, scrivevano Adorno e Horkheimer. Forse, nella sua limpidezza disarmante, questo aforisma può spiegare il motivo del livore nei confronti della sentenza del tribunale brasiliano ed è pure la ragione per cui non vi è stata, negli ultimi trent’anni, da parte dei governi che si sono succeduti l’apertura e la lungimiranza in grado di declinare a livello legislativo una soluzione politica di quanto successo negli anni Settanta. Per questo, nonostante tutto, è importante, pur andando “in direzione ostinata e contraria”, continuare a parlarne: bisogna uscire dall’immaginario dentro il quale hanno voluto ingabbiarci.

Federico Battistutta
(Gropparello – Pc)

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Boris Baiguini (Costa Volpino – Bg) 3,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Ferro Piludu, 500,00; Cristiana Bruni (Castel Bolognese – Ra) 60,00; Paolo Pignocchi (Ancona) 20,00; Antonio Marchello (Milano) 30,00; Luisa Cortese (Folgaria – Tn) 35,00; Massimo Torsello (Milano) 500,00; Giulio Spiazzi (Verona) 100,00; raccolti alla cena per i 40 anni di “A” all’Ateneo degli Imperfetti il 18 giugno (Venezia-Marghera), 550,00; Luca Galletti (Lancenigo – Tv) 10,00; Pietro Steffenoni (Lodi) 70,00; Enzo Francia (Imola – Bo) 10,00; Enrico Calandri (Roma) 100,00; Orazio Gobbi (Piacenza) 20,00; Marco Galliari (Milano) 350,00; Roberto Colombo (Boffalora Ticino – Mi) 10,00; Alessandro Delfanti (Piacenza) 10,00; Fabio Rosana (Fossano – Cn) 10,00:Claudio Dionesalvi (Cosenza) 20,00; Milena e Paolo Soldati (Clermont-Ferrand – Francia) 88,00: Giovanni Baccaro (Padova) 10,00; Umberto Lenzi (Roma) 50,00; Gijuseppe De Matteis (Maddaloni – Ce) 20,00; Anna Melchior (Fagagna – Ud) 20,00; Giorgio Buccola (Cogoleto – Ge) 10,00;Claudio Neri (Roma) 20,00; Battista Saiu (Biella) 20,00; Danilo Sidari (Sydney – Australia) 100,00; a/m Danilo Sidari, Associazione “Cani Sciolti” (Sydney – Australia) 100,00; Jack Grencharoff (Quama – Australia) 393,33; Francesco D’Alessandro (Milano) 50,00; il Centro di Documentazione Anarchica di Padova ricordando il compagno Natale Spampinato (Spampy '38) recentemente scomparso, 100,00; ricavato dalla cena per i 40 anni di "A" organizzata il 16 luglio dalla Federazione Anarchica di Reggio Emilia (aderente alla FAI) 400,00; Giuseppe Anello (Roma) 27,00. Totale euro 3.806,40.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Luigi Natali (Donnas – Ao); Giovanna Ciorciolini (Roma); Roberto Tozzi (Mercatale Vernio – Po); Roberto Di Giovannantonio /Roseto – Te). Totale euro 400,00.