rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011


USA

Il declino di Obama
di Antonio Cardella

Il presidente degli Stati Uniti probabilmente non sospetta che si è già nella stagione del declino di una civiltà, quella occidentale, che le dinamiche economiche del capitalismo hanno reso insostenibile.

 

Due sono i principali presupposti che motivano l’arroganza: la consapevolezza di esercitare un potere assoluto, imperseguibile, tale da tenersi e ritenersi al riparo da qualunque ritorsione; o, all’opposto, la percezione opprimente di vedersi scivolare tra le dita margini sempre più consistenti di potere decisionale, di assistere impotenti all’assottigliarsi del consenso popolare originariamente accumulato.
Il discorso che, all’inizio di agosto, il presidente degli Stati Uniti ha rivolto al popolo americano per tentare di arginare l’effetto devastante del declassamento della solvibilità del debito pubblico statunitense da parte delle agenzie di rating, ha rivelato tutta la frustrazione di un capo di Stato costretto a rivendicare orgogliosamente un primato del suo Paese contraddetto dalla realtà dei fatti. Certo, è vero che l’istruzione e la ricerca sono ancora punti di forza del sistema americano, ma è anche vero che nel Paese aumentano le tensioni sociali per i crescenti squilibri tra la moltitudine povera o in sofferenza e i pochi privilegiati che riescono a lucrare persino su queste disuguaglianze; è vero che una riforma sanitaria – che avrebbe, non eliminato, ma almeno lenito le difficoltà di larga parte della popolazione di godere di un’assistenza sanitaria che l’affrancasse, almeno in parte, dalla voracità del sistema assicurativo – non è ancora riuscita ad andare in porto ed è stata persino tacciata di incostituzionalità.
E poi, nessuno dei fondamentali dell’economia americana naviga su acque tranquille. Tutto il mondo ha assistito al braccio di ferro tra democratici e repubblicani per autorizzare la Casa Bianca a sforare il tetto del debito pubblico, stabilito costituzionalmente – che, in pratica, significa accumulare altri debiti – per evitare la paralisi dell’intero Paese (non si sarebbero potuti pagare stipendi e pensioni del pubblico impiego, non si sarebbero potuti finanziare le spese militari e gli interessi sul debito del Tesoro: insomma, un collasso vero e proprio che avrebbe inevitabilmente investito tutte le economie del Pianeta).
Tuttavia, questa soluzione in extremis, che ha consentito la soluzione dei problemi immediati e imprescindibili di politica interna, lascia inalterati i dati strutturali della decrescita.
Non si vede alcuno spiraglio per arginare il debito pubblico, che, al netto dell’esito dello sforamento, ha raggiunto l’astronomica cifra di 14 trilioni di dollari (occorre un quarto d’ora per mettere in fila uno dopo l’altro gli zeri che servono per visualizzare la cifra); la bilancia commerciale è in profondo rosso (nel solo mese di maggio ha accumulato un deficit di 5 miliardi di dollari); la produzione industriale è in stallo, mentre la disoccupazione è al 9,1% della popolazione attiva, il che deprime naturalmente anche i consumi che sono il volano di crescita di qualsivoglia sistema economico.
In questa situazione è comprensibile l’arroganza consolatoria di un Obama nel rivendicare al suo Paese una leadership in forte declino. Un declino al quale non è del tutto estranea la stessa Presidenza se è vero che, sin dall’inizio del suo mandato, Obama ha sottovalutato l’imponenza dei poteri forti e la loro capacità di opporsi a qualsiasi riforma che avrebbe in qualche misura ridotto il livello dei loro privilegi. Non si sarebbe neppure dovuto lasciare incantare dal plebiscitario consenso elettorale di un popolo ancora profondamente diviso tra un’elite prevalentemente nordista in qualche modo sensibile ai problemi della modernità e delle nuove esigenze di un mondo nel bene e nel male globalizzato, e un Sud condizionato da un passato schiavista (e razzista) che ancora non ha sufficientemente metabolizzato, e che, in qualche caso, purtroppo non sporadico, mitizza ancora oggi la presunta epopea della Conquista.
Ricompattare queste due anime al fine di recuperare un consenso elettorale in caduta libera non sarà per Obama compito semplice, anche perché le condizioni obiettive del contesto internazionale sono profondamente mutate.

L’illusione di un’America che cambiava volto

Per una tradizione storica consolidata, il popolo americano si stringe attorno all’inquilino pro tempore della Casa Bianca quando si materializza un vero (o presunto) nemico riconoscibile da contrastare. Così avvenne nel secondo conflitto mondiale scatenato dalla Germania hitleriana. Poi fu la volta della Russia di Stalin seguita dalla lunga stagione della guerra fredda. L’emergere della Cina, come nuova potenza territoriale, determinò un conflitto più sfumato, perché, ancora ai tempi di Gorge Bush senior la Cina appariva come un possibile competitor commerciale e, solo in una prospettiva lontana e comunque poco probabile, come potenza in grado di contrastare la supremazia americana nel mondo. Venne poi il fatidico 11 settembre del 2001 e, con l’attentato alle Torri Gemelle, si materializzò il volto truce di Bin Laden e del terrorismo islamico. Tanto bastò a George Bush junior per convincere gli americani sulla legittimità dell’intervento armato americano (con la partecipazione successiva di altri Paesi) in Afganistan prima e in Iraq poi. Nelle previsioni dell’entourage della Casa Bianca, si sarebbe dovuto trattare di interventi veloci e relativamente indolori in termini di risorse umane e materiali. Ma, come tutti sappiamo, le cose andarono molto diversamente ed è ancora viva l’immagine della lunga teoria di salme dei soldati tornati in patria in bare coperte dalla bandiera a stelle e strisce.
La popolarità di Bush figlio si ridusse drasticamente, lasciando dietro di sé una scia pesante di debiti, dovuti certamente alle spese militari ma anche a quel diffuso sport nazionale di vivere spensieratamente ben oltre le proprie possibilità.
Obama, così, fu percepito come uomo della Provvidenza. Nel suo programma, infatti, c’era la promessa di uscire il più presto possibile dal pantano iracheno e afgano, di far rientrare l’America nell’ambito del diritto internazionale con la chiusura del vergognoso lager di Guantanamo, di ristabilire una relativa giustizia sociale con l’approvazione, tra l’altro, di una riforma sanitaria che sollevasse una parte consistente di cittadini indigenti dall’incubo delle malattie, finalmente curabili a spese della fiscalità generale.
L’illusione di un’America che cambiava volto durò lo spazio di un mattino. Subito il nuovo presidente dovette scontrarsi con l’anima profonda di un Paese in cui i poteri forti, gli interessi consolidati, i privilegi costituivano la vera struttura dell’economia e della politica; e Obama si trovò a lottare con resistenze trasversali, che vedevano in prima linea certamente il fronte repubblicano ma anche una parte non esigua degli stessi democratici.
È sempre spiacevole autocitarsi, ma in un articolo pubblicato in questa Rivista subito dopo l’elezione di Obama, dopo aver fatto una tara al programma del nuovo presidente, scrissi che occorreva verificare subito quale fosse la reale capacità decisionale dei nuovi inquilini della Casa Bianca e muovevo qualche riserva su alcuni nomi che manifestamente rappresentavano la continuità rispetto alla precedente amministrazione, soprattutto nei settori dell’economia e delle forze armate.
Nessuno mette in dubbio che le intenzioni di Obama fossero sincere, che nella sua visione del futuro ci fosse un’America più sensibile ai gravissimi squilibri sociali e che riuscisse a transitare in un territorio nel quale si attenuassero i conflitti, soprattutto quelli razziali, e si ricostituisse (o, meglio, si costituisse) un tessuto sociale pacifico e solidale. Che questo fosse il progetto, non vi è alcun dubbio. Ma il compito di un politico che è al vertice di una grande potenza planetaria è soprattutto quello di verificare la praticabilità del percorso tra il dire e il fare.
Se si valutano i primi due anni di presidenza, gli impietosi dati della realtà hanno pochissimo a che vedere con il sogno originario. Certo, per sua sfortuna, Obama si è trovato nel bel mezzo di una crisi che non ha confronti nella storia dell’ultimo secolo. Neppure la proverbiale crisi del 1929 è paragonabile, per dimensioni ed effetti devastanti, a quella che attraversiamo. Ma tutto si può sostenere tranne che gli Stati Uniti non siano all’origine di questo tsunami economico e finanziario. A parte le varie bolle speculative, prevalentemente immobiliari, sono i rimedi frettolosamente posti in essere per arginarne gli effetti che sono risultati inadeguati. Si è salvato il sistema bancario, che della crisi era stato il protagonista in negativo (sono state le banche ad inondare il mercato mondiale con i loro derivati), a spese del denaro pubblico, ricostituendo stati patrimoniali in dissesto senza alcuna garanzia che si tirassero fuori tutti gli scheletri dagli armadi, sicché ancora oggi titoli spazzatura circolano trasformati in obbligazioni nuove di zecca in ogni angolo delle borse occidentali. Non si è fatto nulla per garantire che le stesse banche, salvate dal fallimento con i soldi pubblici, contribuissero alla crescita del sistema produttivo con un più equo e controllato esercizio del credito.
Così, non solo in America, ma in tutto il circuito occidentale le banche godono di ottima liquidità mentre il sistema produttivo sottostante soffre per mancanza di investimenti. Ma se i soldi per partogenesi moltiplicano se stessi è inevitabile che si finisca – come siamo finiti – in un mondo in cui la ricchezza produce soltanto desolati paesaggi virtuali ed è finalizzata solo a promuovere logiche di dominio. Vi è di più: credo che il cancro della finanziarizzazione dell’economia abbia raggiunto l’apice, generando una sorta di antropofagia dell’economia reale quando, nel gioco malato delle operazioni borsistiche, il valore espresso dai listini è inferiore al valore patrimoniale delle imprese quotate. Per fare un esempio: si acquista un’impresa al valore stimato dalle borse e si entra in possesso di un bene il cui valore reale è più alto del prezzo pagato per il suo possesso. Certo, in questo processo involutivo delle dinamiche economiche, sociali e politiche del sistema occidentale, il povero Obama ha responsabilità molto limitate, ma è comunque complice di quell’atteggiamento generalizzato degli apparati statali occidentali molto restio a colpire la speculazione, le rendite parassitarie, i capitali senza patria che, col sistema degli scorpori, devastano i tessuti produttivi del pianeta, privando le imprese dei comparti produttivi e lasciando sul territorio solo le macerie (a questa logica non è estranea la FIAT di Marchionne).

Ricordate il crollo dell’impero romano?

Ma la parte più deludente dell’amministrazione Obama è certamente la politica estera. A cominciare dalle campagne militari nelle quali gli Stati Uniti sono impegnati.
In Afghanistan Obama ha continuato sino a qualche mese fa ad inviare altre truppe a rinforzo di quelle che già c’erano, nella speranza di venire a capo della resistenza (che non è costituita soltanto dai talebani, ma aggrega gruppi armati delle tribù esistenti sul territorio) o, almeno, di costruire l’immagine di un paese in via di pacificazione, immagine che consentirebbe un completo disimpegno senza farlo apparire come una vera e propria fuga. Nel disastro, la figura farsesca di Karzai rappresenta la continuità e nello stesso tempo l’ostacolo principale di un simile progetto. L’uomo puntellato dall’amministrazione americana, corrotto e privo di ogni credibilità, dovrebbe, secondo le intenzioni, pilotare la transizione, ma è inviso a tutte le parti in conflitto e non si sa bene che fine farebbe – e con lui l’intero paese – una volta che le truppe d’occupazione dovesseo preparare armi e bagagli per tornarsene a casa.
Dell’Iraq si è finito col parlare poco. Non si dice che un territorio ricco di risorse, storicamente e culturalmente rilevante, è ridotto ad un cumulo di macerie ancora sotto l’incubo di un conflitto etnico mai sopito, anzi fomentato dalla scriteriata e mai giustificata occupazione militare statunitense. Anche da quelle plaghe tormentate gli occupanti non sanno come uscire senza perdere la faccia. Temo che lo faranno senza pagare dazio, con la complicità di una informazione internazionale collusa che coprirà col silenzio la fuga ingloriosa delle truppe scelte dell’esercito americano che, con molte troupe televisive al seguito, invasero il territorio iracheno nel marzo del 2003.
Sarebbero per l’America di Obama sconfitte come tante altre subite nel recente passato, se non fosse che Afghanistan e Iraq non sono più annoverabili come pedine periferiche dell’Impero, ma, all’opposto, si trovano ad essere epicentro di quel sommovimento epocale e irreversibile che ha spostato a Oriente il baricentro geopolitica del pianeta.
Obama, probabilmente, ritiene congiunturale lo status che costringe il suo paese a condividere con realtà economiche e politiche emergenti una leadership considerata finora patrimonio indiscusso degli Stati Uniti. Probabilmente non sospetta che si è già nella stagione del declino di una civiltà, quella occidentale, che le dinamiche economiche del capitalismo hanno reso insostenibile.
Ci sono similitudini impressionanti tra il tempo presente e i decenni che hanno scandito il crollo dell’impero romano d’Occidente, la cui data simbolica è fissata al 476 dell’era volgare.
Sarebbe una lettura interessante per un Obama che, in un camper blindato da un milione di dollari, ha iniziato il suo viaggio elettorale all’insegna di un ottimismo di maniera per il futuro della nazione che rappresenta.
Spesso, l’umiltà non è la virtù degli sconfitti.

Andrea Papi