rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011



a cura di Marco Pandin

 

C’è un mondo che si muove

Mi incuriosisce come le parole e la musica ci restano dentro, come ci possono suggestionare. Come possano tenerci per mano, accompagnarci per un tratto. Ci affezioniamo a persone distanti, non solo in senso geografico ma anche lontane nel tempo, perché hanno scritto qualcosa che ha messo radici. Qualcosa che non solo ci è rimasto impresso nella memoria, ma che si è trasmesso sotto la pelle ed è diventato parte di noi. Un racconto, una poesia, una frase soltanto possono influenzare o addirittura far deviare il corso di una vita intera: è irragionevole tutto questo? Succede per davvero, o è un’illusione che ci piace? Sarebbe stata diversa la nostra fortuna senza una storia, senza una canzone dove ci siamo ritrovati dentro? Immagino succeda anche a voi, per alcuni di voi anzi lo so per certo: ci si sente fratelli, compagni, magari complici di una banda di musicisti o di un cantautore per un verso che ci ha preso inesorabilmente all’amo, per un ritornello o per una melodia venuta ad abitarci dentro. Cosa sarebbe potuto succedere a me, studente insofferente in prima classe all’istituto tecnico, se non ci fosse stato a scuola quel supplente di Italiano che un giorno mi ha prestato la sua copia dell’Antologia di Spoon River? Perché, incontrando di persona Fernanda Pivano per la prima volta, o i Crass, o John Fahey, provavo una gratitudine così immensa da sconfinare nell’affetto? Mi sono mancate le gambe e il respiro quando mi sono ritrovato di fronte a Fabrizio de André, al concerto napoletano per la stampa anarchica. Quante cose avevo fino a un attimo prima sognato di chiedergli, o meglio quante cose mi sarebbe piaciuto sentirmi dire dalla sua voce: forse si sarebbe fermato il tempo, forse sarebbe stato tutto diverso. Forse anche no, ma in questi riflessi della memoria è bello rincorrere le tracce di tutti i sentieri percorsi, tutte le strade che mi hanno portato qui e ora.
Mezza pagina di ragionamenti messi giù in disordine per introdurre “C’è un mondo che si muove”, il cd che raccoglie una manciata di canzoni registrate in giro dal vivo in concerto da Luca Bassanese con il suo gruppo. Nei concerti di Luca c’è una certa felicità, ci si sta bene dentro anzi si resta un po’ così quando finiscono. Mi riconosco in questo modo sbilenco e colorato di sognare, stanco del grigio dei muri e del cielo e dell’autunno perenne e obbligatorio della rassegnazione. Mi riconosco nell’andatura lunare del camminare per strada guardando in su a cercare le rondini e i contorni delle nuvole, col rischio di sbattere addosso a qualcuno o inciampare in uno scalino che era lì da sempre. Mi ci ritrovo come a casa in questi innamoramenti musicali che si arricchiscono di odori nuovi ad ogni angolo, cento duecento mille ascolti tutti di curiosità vorace, tracce che sedimentano come foglie a fine stagione, che finiscono sotto la neve e poi si svegliano a primavera di nuovo lì in alto in cima ai rami.
Certo, tra noi c’è una differenza d’età importante. Ma nonostante Luca possa essere anagraficamente mio figlio, mi sono ritrovato a raccogliere nelle sue canzoni tante tracce che ho riconosciuto presto e con una certa piacevole sorpresa come parte anche del mio tesoro personale. Un tesoro che ho accumulato in tanti anni, fatto di cose che con ogni probabilità sono preziose solo per me, tipo legni storti raccolti sul bagnasciuga e monetine fuori corso, foglietti con scritti sopra numeri e indirizzi di gente incontrata in treno o a un concerto, vecchie chiavi che ormai non aprono più niente, bottiglie rubate e svuotate in fretta, cassette registrate e scambiate come messaggi segreti, cene tra virgolette fatte di panini riempiti con quel che c’è e birre condivise, strette di mano oppure abbracci oppure saluti senza contatto fatti in silenzio solo con gli occhi da una barca che si allontana, cose così.
Facendo un conto rapido delle cose che mi piacciono e di quelle che mi piacciono meno di Luca Bassanese, vengono fuori due colonne: la prima (le cose che mi piacciono) bella fitta, e l’altra (quelle meno) praticamente disabitata. Ve le racconto, tagliando un po’. Innanzitutto mi piace come prende senza rubare, sia che si tratti d’una frase di Faber o un ritornello klezmer, d’una canzone di Domenico Modugno o un frammento di Charlie Chaplin: Luca offre, condivide, crea arcobaleni senza copyright nel cielo. Certe cose che dice sul palco sono l’eco di frasi che ho sentito anche dalla bocca di Claudio Lolli, Francesco Guccini, Eugenio Finardi, Piero Ciampi, Stormy Six, Gang, insomma i mattoni del nostro mondo sepolti sotto decenni di cumuli di plastica e cibo veloce americano, che adesso Luca scaraventa roventi acidi taglienti contro le vetrate pulite della banca e della villa-con-piscina-e-parco del padrone. Guardate la copertina di questo cd, e non ditemi che non vi ritorna in mente quella di “Rimini”: il mondo che si muove passa anche per le vecchie strade, è una catena umana di mani nelle mani che non può non accorgersi del tempo indietro.

Luca Bassanese

Poi, mi piace come mi fa sorridere: accosta le parole in rima con la naturalezza di un bambino e come un bambino innocente recita aforismi fatti di una verità e mezza ciascuno. Innocenza e gioia come arma: Luca potrebbe essere il bambino di periferia seduto in ultimo banco accanto a Franti, il compagno di scorribande del cacciatore di aquiloni, l’amico del ragazzino che la sfiga ha fatto nascere in un posto sbagliato. Quello che indica alla folla il re nudo.
Le musiche che fa indossare alle parole sono roba trovata ai mercatini dell’usato e nei negozi Oxfam, street style intelligente di tessuti senza data di scadenza, giacchette eleganti smesse dal Mickey Katz giocoliere e recuperate per celebrare il dì di festa dalle bande balcaniche, complice Stefano Florio chitarrista occhi bassi e parole poche, artista misurato e consapevole.
Mi piace come, pur stuzzicando il sorriso, Luca riesce a tenersi alla larga dalla banalità: racconta di cose semplici che non sono ovvie, snocciola storie a portata di mano ma che non annoiano, il livello del divertimento e del ragionamento si mantengono alti senza confondersi mai nella melma degli slogan facili. Mi piace il ritrovarlo in piazza a cantare alla gente senza preoccuparsi se sono colombe o bombaroli, ai militari della base americana barricati dietro ad un reticolato che non ferma le canzoni, ai ricchi che imbottigliano l’acqua che li annegherà, agli studenti che saltano per l’indignazione e per non dover saltare domani i pasti. Lo ringrazio per queste canzoni, per questa felicità straripante, per questa voglia bella di sole, di pulito, di calore e pace.
Non so se questo CD, come gli altri precedenti, sia diffuso commercialmente. La mia copia l’ho presa a un concerto, al banchetto tutto era offerto a cifre abbordabilissime. Contatti: www.lucabassanese.com, sito ben presidiato pieno di roba e sempre aggiornato.

 

Play a song for me

Il 24 maggio scorso c’è stata una festa di compleanno in tante case. Bob Dylan ha compiuto 70 anni, e un po’ per il discorso che facevo prima, per quell’affetto che ci lega a chi scrive parole che rimangono nel cuore, è stato come festeggiare un surrogato di padre (o di nonno, dipende dall’età). Un genitore discreto, esigente sì ma mai incombente, che ti mette idee in testa passando per le strade sterrate, che sussurra o miagola o impreca con quella voce là, che ti racconta ogni volta quella sua idea d’amore così contorta e complicata e spesso difficile da tradurre, ciascuna poesia e canzone un fiume nato da mille sorgenti e da mille piogge.
Sono troppo piccolo e troppo ignorante per raccontarvi di Dylan, sono uno che si è perso ascoltando i dischi e leggendo i testi. Sono uno che non lo ha mai visto dal vivo (per tanti motivi, eccone due: per paura dell’impatto, per sfortuna). Giovanni Cerutti invece è stato uno bravo che non si è perso e che non si è fatto travolgere: ha fatto a Bob Dylan un regalo di compleanno in forma di libretto, mettendoci dentro ragionamenti, traduzioni, ricordi senza preoccuparsi di dare un ordine cronologico o d’altro tipo ma seguendo il cuore e basta. Play a song for me (edizioni Interlinea, 12 euro) è un taccuino di ritagli, ne cito tre a caso: un’intervista breve ad Allen Ginsberg sbobinata da un filmato, un contributo di Francesco Guccini scritto per Muzak nel 1974, una poesia di Stefano Benni che avevo fotocopiato anni fa dal Manifesto e poi ho perso chissà dove, e adesso rieccola qua.
Il libro non ha pretese d’illuminazione, non urla né sgomita negli scaffali. Offre tracce sottili, impalpabili, a basso volume, ma che conducono alla rivelazione. Nella marea nera di roba stampata per l’occasione dall’industria, questo libretto non si perde, non affonda: eccolo lì a brillare come una bella canzone che non muore, eccolo che prende il volo e riflette il sole. Contatti: www.interlinea.com.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it


duemila papaveri rossi

“Duemila papaveri rossi”
2 cd con libretto

I due cd contengono 37 canzoni di Fabrizio de André
interpretate da musicisti e gruppi indipendenti.
Una iniziativa a sostegno di "A" delle Edizioni stella*nera.

Una copia 15 euro

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Paola Sabbatani e Roberto Bartoli
“Non posso riposare”
cd+dvd

Un cd e un dvd, dodici canzoni da ascoltare e un documentario realizzato da
Mario Bartoli e Giangiacomo De Stefano (Va.C.A. Vari Cervelli Associati).
Una co-produzione Editrice Bruno Alpini, Aparte e stella*nera.

Una copia cd+dvd 15 euro

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