rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011


mass-media

La crisi in diretta
di Carlo Oliva

Dietro alla retorica sulla crisi, si possono cogliere i meccanismi con cui i mezzi di informazione legittimano le misure “eccezionali” e i sacrifici imposti ai cittadini. Come sempre al servizio di quel potere, che è esso stesso il responsabile di quella situazione che viene presentata come “ineluttabile”.

 

Fino a qualche anno fa, se ricordate, le vicende della finanza non erano, come oggi, tra gli argomenti preferiti dei mezzi d’informazione. I giornali potevano parlare, naturalmente, dei finanzieri o dei “capitani d’industria”, specie quando commettevano qualche azione imprevista e/o disdicevole, come mandare in fallimento una banca, sposare una ballerina, scappare con la cassa o perdere l’intero capitale sociale alla roulette, ma ai normali alti e bassi di Borsa, agli andirivieni del mercato, le vicende che oggi suscitano nei lettori più ansia ed emozione di quante ne provocassero ai tempi le partite di campionato, non si dedicava davvero uno spazio soverchio. L’intero settore era considerato un segmento specialistico dell’attività economica, che poteva rivestire un qualche interesse, al massimo, per gli addetti ai lavori e solo per loro: i quotidiani “seri” vi dedicavano tre o quattro colonnine in corpo piccolo, collocate in genere in quell’area neutra del giornale posta a metà strada tra i servizi culturali e le notizie sportive; i più frivoli neanche quelle. Per avere lumi e dati precisi bisognava rivolgersi alla stampa specializzata, proprio come facevano, più o meno, gli appassionati del golf, delle corse dei cavalli o di altre attività altamente specializzate.
Oggi, si sa, se non ci fosse la Borsa direttori e redattori capo non avrebbero di che riempire le prime pagine. Si direbbe che, svanito, almeno provvisoriamente, l’interesse per i giochi – invero sempre più ripetitivi – del ceto politico, attenuatosi assai quello per gli eventi sportivi (forse in seguito alla scoperta che anche di quelli si fa soprattutto mercato), soffocato sotto una spessa coltre di assuefazione il gusto per le divagazioni sessuali dei potenti – visto che a nessuno potrebbe interessare, ormai, il nome dell’ultima protetta di Berlusconi o della fidanzata del figlio di Bossi – non resti altro, per emozionare il pubblico leggente, che l’ultima caduta in picchiata dell’indice Dow Jones o l’ampliarsi vertiginoso dello spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi. Sfruttando al tempo stesso la dimensione globale della finanza e le possibilità offerte dai fusi orari in tempi di telecomunicazioni istantanee, i telegiornali della sera chiudono le trasmissioni con i dati della chiusura a Wall Street, i primi giornali radio del mattino ci informano con sollecitudine della situazione borsistica di Tokyo e di Singapore e le edizioni pomeridiane sono dedicate, in pratica, soltanto alle prestazione delle piazze di Francoforte, Londra e Parigi (e Milano, naturalmente, anche se della significatività di quel dato tutti sanno che è lecito dubitare). I capi di stato e di governo, ormai, intervengono sulle pubbliche faccende e sui problemi economici del paese soltanto il venerdì pomeriggio, a mercati chiusi, e i commentatori, riferendone al sabato, si chiedono soprattutto quali effetti avranno le loro parole sulla ripresa delle contrattazioni al lunedì mattina, pronti ad attribuire al maggiore o minore carisma di chi le ha pronunciate le occasionali impennate o il più consueto inabissarsi degli indici. I quali indici, peraltro, sembrano muoversi sempre più secondo una logica propria, indifferenti a qualsiasi tentativo di controllo o di influenza da parte del mondo politico. Il tutto può essere attribuito, a seconda dei criteri di interpretazione assunti dalle varie testate, alla debolezza del sistema, alla volatilità dei mercati o all’insistere della speculazione.

Impoverimento sociale, arricchimento individuale

Ora, il livello del giornalismo, in Italia, è notoriamente assai basso, sia dal punto di vista dell’etica sia da quello della professionalità (nel cui ambito rientrano, ovviamente, la scelta e l’ordinamento gerarchico delle notizie da proporre ai lettori). Tuttavia la logica dell’informazione non può mai essere completamente arbitraria, dovendo comunque tener conto dei criteri e delle aspettative vigenti nella comunità che se ne avvale. E da questo punto di vista, una tale sottolineatura mediatica delle vicende finanziarie non può significare altro che la convinzione diffusa che l’attività prevalente a livello economico nazionale da altro non sia rappresentata che dallo scambio, secondo regole proprie, di ricchezze prodotte in altra sede. La dimensione dello scambio, formalizzata secondo gli oscuri criteri che presiedono alla formazione dei vari “indici”, prevale su qualsiasi altro aspetto dell’economia (anche se qualche nostalgico insiste sulla necessità di valutare i “fondamentali” o sulla distinzione tra l’economia finanziaria e quella “reale”), il che significa, visto che da qualche parte i beni che in questa forma simbolica vengono scambiati dovranno ben essere prodotti, che l’attività cui soprattutto gli operatori economici si dedicano è di tipo, per così dire, parassitario. O anche, ma è la stessa cosa, di tipo predatorio, visto che il risultato di questo genere di operazioni è che i cittadini, in numero sempre maggiore, vengono espropriati in varia forma dei loro beni, che si concentrano progressivamente in mano altrui. In effetti la “crisi”, come la si dipinge, richiede, per essere “sanata”, delle “manovre”, che, consistendo essenzialmente in tagli dei servizi, sovraccarichi fiscali e aumenti dei prezzi, altro non rappresentano che un educato eufemismo per indicare una spoliazione sempre più efficiente di lavoratori, pensionati e ceti subalterni. Anche i risultati della Borsa possono essere considerati sotto questo punto di vista, visto che un saldo negativo delle contrattazioni non significa affatto, come spesso si scrive, che tot miliardi di euro, dollari, sterline o che altro sono stati “bruciati”. Anche in questo campo nulla si crea e nulla si distrugge e se un certo numero di operatori ha dovuto vendere a condizioni sfavorevoli, vorrà dire che certi altri hanno potuto comprare con vantaggio e che non di distruzione, ma di trasferimento della ricchezza si tratta. La crisi può rappresentare un impoverimento sociale, ma possiamo scommettere che esso sarà compensato, in un certo senso, da qualche forma di arricchimento individuale.

Al servizio dei ricchi e dei potenti

Ora, avrete notato che mentre di impoverimento sociale i cronisti della crisi parlano parecchio, nessuno di loro spende troppe parole sugli arricchimenti individuali. E si capisce: tra tutte le possibili attività professionali, la spoliazione del proprio prossimo è tra quelle che meno si desidera esibire, preferendo coloro che vi ci si dedicano agire discretamente nell’ombra. Onde la tendenza, da costoro presumibilmente incoraggiata, di descrivere l’intero processo come se si trattasse di un meccanismo spontaneo e autoricorsivo, dietro il quale non è il caso di cercare di individuare alcun progetto determinato. In effetti, si parla molto di mercati e pochissimo di mercanti, come se i primi potessero esistere senza i secondi e a loro potessero venire attribuiti davvero i predicati (la sfiducia, la debolezza, l’inesorabilità, l’imprevedibilità...) con cui di solito si spiega il loro comportamento. La crisi, da questo punto di vista, è un qualcosa che incombe per necessità naturale sul mondo economico – se ne sottolinea spesso, infatti, la natura ciclica – e che sfugge a qualsiasi possibilità di contenimento. All’opinione pubblica è data la possibilità di seguirne gli sviluppi, per così dire, in diretta, dal manifestarsi dei primi sintomi fino allo scatenarsi inesorabile della catastrofe, come si trattasse di una inondazione, di una valanga, di un’eruzione vulcanica o di un qualsiasi altro fenomeno naturale.
Dei responsabili della vita economica nazionale si parla solo in relazione degli sforzi che fanno (o non fanno) per arginare il fenomeno, insistendo soprattutto sulla loro impotenza e sulla pateticità dei loro tentativi. Se proprio si sente la necessità di introdurre nella vicenda dei protagonisti umani “cattivi”, si potrà far cenno all’attività di non meglio definiti “speculatori” o fare un po’ di moralismo sulle responsabilità delle agenzie di rating, ma sempre senza esagerare. Lo scopo di tutta la rappresentazione, di fatto, è quello di indurre nel pubblico un sano timore e far sì che esso invochi a gran voce l’adozione di quei provvedimenti da cui pure è destinato a essere colpito e travolto.
E si capisce. Il modo migliore per far sì che le pecore si convincano della necessità di venire tosate è spiegargli che lo si fa per il loro stesso bene, per proteggerle da chissà quale incombente pericolo. E bisogna evitare, naturalmente, che si rendano conto del fatto che a prendere quei dolorosi, ma inevitabili, provvedimenti sono gli stessi responsabili della situazione cui affermano di voler porre rimedio. A chi dovesse casualmente rendersi conto dell’assurdità di questa pretesa e azzardare, magari, qualche protesta, si potrà spiegare che essa dipende, appunto, dall’eccezionalità della situazione, se no che crisi sarebbe. Di fronte all’inevitabile, non si può far altro che rassegnarsi.
Naturalmente in tutto questo di inevitabile c’è soltanto il cinismo di un sistema mediatico al servizio sempre e comunque dei ricchi e dei potenti e la volontà di autoinganno di una opinione pubblica disposta ad accettare questo tipo di rappresentazioni. Ma questo, naturalmente, è un altro discorso.

Carlo Oliva