rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011


 

Petrolio
In Basilicata

Viggiano (Pz) – Nel memorandum d’intesa sottoscritto l’aprile scorso da Regione e Stato, la Basilicata viene riconosciuta come nodo centrale del sistema energetico per il Mezzogiorno. Un tale riconoscimento sinceramente appare del tutto ovvio, dal momento che nei trentanove pozzi attivi della Val D’Agri si estraggono centoventimila barili di greggio al giorno, corrispondenti all’ottanta per cento della produzione nazionale nonché al 6% del fabbisogno energetico degli italiani. In previsione dell’apertura nel 2015 del giacimento Tempa Rossa, nel comune di Corleto Perticara, l’accordo Stato-Regione annota che, portando le attività estrattive a 170 mila barili al giorno, ci dovrebbe essere un incremento del 40% della produzione di petrolio e del 10% dell’apporto della Regione Basilicata al bilancio energetico nazionale. Nelle premesse il memorandum attesta un quadro in cui la Basilicata, dopo già vent’anni di attività estrattiva (ed altrettanti se ne andrebbe ad assicurare), si confermerebbe nella più grande riserva europea di greggio, nell’Eldorado del vecchio Continente. Alla firma dell’intesa la classe dirigente lucana – sia di centro-sinistra che di centro-destra, ad iniziare dal presidente della Regione Vito De Filippo e dal sottosegretario Viceconte – ha espresso entusiasmo e pareri favorevoli.
Ma non sono mancate i dissensi, su tutti quello del segretario regionale dei radicali, Maurizio Bolognetti, il quale ha sentenziato: “Il memorandum è solo una carta d’intenti, nei fatti si risolverà in beffa per le comunità dell’area”. Il parere di Bolognetti non si può non condividere, l’intesa Stato-Regione non fa un minimo accenno alle condizioni degli operai che lavorano al Centro Oli, né alle innalzamento delle royalties, né all’opzione di assicurare a tutti i comuni, e quindi non solo a Viggiano, Grumento e Calvello, la gestione in autonomia del trasferimento statale. Ad oggi le compagnie minerarie consegnano alla Basilicata royalties per il 7% dei loro mega-profitti. Sulla carta quel 7% di royalties appare come una barca di soldi, ma nella sostanza non è che una miseria, anzi quasi un raggiro se si pensa che non esiste nel mondo un luogo dove le compagnie minerarie che portano in superficie petrolio e gas lascino ai territori locali meno del dieci per cento dei loro profitti. Tant’è.
Se la Basilicata fosse in Canada coi suoi pozzi incasserebbe il cinquanta per cento degli introiti totali, se in Italia si applicasse l’accordo sottoscritto dall’Eni con Iran nel 1957 la Lucania dovrebbe incamerare profitti per circa il 70% per cento, mentre se fosse in Norvegia la Basilicata si ritroverebbe con due terzi degli utili e una petrolpensione per tutti gli abitanti. Se sul fronte dei ritorni economici i conti non tornano, su quello della tutela ambientale le comunità limitrofe al Centro Oli di Viggiano nemmeno possono da star tranquilli. Un recente convegno tenutosi in uno dei comuni dell’area solo qualche giorno addietro, ha evidenziato come, ancora una volta, i dati (rassicuranti) resi pubblici dai tecnici dell’Arpab (l’agenzia ambientale della Regione Basilicata) non sono omogenei a quelli piuttosto preoccupanti rilevati dagli operatori Agrobios. Secondo alcune associazioni ambientaliste locali, inoltre, non è spiegabili che le stesse società petrolifere presenti in Lucania non hanno l’obbligo di giustificare perché i loro impianti hanno un limite di emissione di idrogeno solforato ben sei volte superiore a quello stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. E se la salute dell’area intorno ai pozzi lucani non dà le garanzie dovute, bisogna riconoscere che al momento il petrolio rimane solamente un affare per le compagnie minerarie. Nei comuni della Val D’Agri il lavoro manca, i giovani vanno via senza più tornare, e, paradossalmente, la maggioranza delle maestranze dell’Eni e delle imprese che lavorano in subappalto arrivano da fuori regione. Tuttavia dentro un misero quadro occupazionale per la gente del posto, i lavoratori del Centro Oli e dell’area industriale di Viggiano da tempo rivendicano che la questione petrolio venga dibattuta anche dal loro punto di vista. Contestano che nel Centro Oli permangono situazioni contrattuali diversificate che determinano disuguaglianze di trattamento, sia in termini di salario che di condizioni legate alla prevenzione dei rischi e della salute. Non è un caso se lo scorso aprile venti operai del turno pomeridiano di una fabbrica prospiciente il Centro Oli di Viggiano siano stati ricoverati in ospedale per un’intossicazione causata dalla fuoriuscita di agenti tossici riconducibili al processo di idro-desulfurizzazione del petrolio greggio lavorato nel sito dell’Eni. L’incidente occorso ai venti operai ha generato un forte stato d’allarme, tant’è che ora i lavoratori chiedono protocolli rigidissimi di sorveglianza sanitaria, una capillare rete di monitoraggio della salubrità dell’aria ed un presidio permanente dell’Arpab per garantire in tempo reale, minuto per minuto, il rilevamento dei possibili agenti tossici ed inquinanti.
I lavoratori vogliono garanzia per la loro salute, un diritto che rivendicano alla pari del contratto sito, cioè quella clausola che dovrebbe impegnare l’Eni a farla sottoscrivere alle imprese appaltanti, in modo che ai lavoratori possa essere garantito la continuità occupazionale, ed evitare come in passato che alla scadenza dell’appalto le maestranze (locali) con le nuove aziende (appaltatrici) vengano buttate fuori dal processo produttivo.

Mimmo Mastrangelo

 

 

Antiautoritari
In Slovenia

Come annunciato su Germinal n. 115, il gruppo di Umago (Movimento Umaghese per la Libertà, in croato UPS, cioè: Umaški Pokret za Slobodu) ha celebrato i primi 10 anni di attività. L’impegno antiautoritario è stato di vario tipo, dall’antimilitarista all’animalista, dall’astensionista alle Critical Mass con le bici, e ha rotto un muro di pregiudizi del piccolo paese. Per vari anni gli anarchici erano considerati delle persone strane, metà ingenue e metà matti. Ora la gente li conosce e, in parte, li apprezza.
Un segno del recupero di credibilità e di attenzione è stata proprio l’iniziativa promossa per il 19 maggio. La locale Biblioteca Civica, un ambiente aperto e ben disposto agli incontri e ai testi libertari, ha ospitato alcune decine di partecipanti alla serata dedicata, non a caso, alla figura di Umberto Tommasini (Trieste, 1896-Vivaro, 1980). Si sono ricordate le sue qualità di compagno semplice e coraggioso, tollerante e determinato, attento ai giovani e non paternalista. Senza cadere nella mitologia, si sono rievocate le azioni di un compagno che ha dato molto alle idee e al movimento anarchico in Italia, in Francia, in Spagna. La proiezione del video “Tra guerra e rivoluzione”, girato nel 1986 da Paolo Gobetti e da Claudio Venza, ha fatto entrare i convenuti in un clima entusiasmante e contraddittorio: la rivoluzione e guerra nella Spagna del 1936. Una bella mostra di fotografie ha reso più vicina la sua esperienza ricca e sofferta, animata dalla ricerca tenace della libertà propria e degli altri.
Per più di due ore la memoria orale di Tommasini ha attirato l’attenzione dei presenti che hanno fatto varie domande e considerazioni. Un banchetto di libri e giornali anarchici, in italiano e in croato, ha offerto l’occasione per saperne di più dell’idea e delle persone che rifiutano l’autoritarismo in tutte le sue forme e che, malgrado tutto, continuano a nutrire fiducia nelle possibilità dell’umanità di liberarsi e di autogestirsi.
Nell’occasione si sono rivisti anche dei compagni e compagne della regione che hanno collaborato col Gruppo Germinal di Trieste e che ora vivono in Istria, una terra multietnica. Qui la guerra del 1992-1995, con le enormi morti e distruzioni, non è riuscita a devastare né gli abitanti, uomini e donne, né la natura che però deve fare i conti con l’invasione turistica, fonte di entrate economiche, ma anche di problemi di equilibrio territoriale.

Claudio Venza

 

 

Pedofilia/La chiesa
Irlandese tampona

Nell’ottobre del 2010 il sito irlandese Count Me Out, che sino ad allora aveva distribuito il modulo per effettuare la Defezione formale dalla Chiesa cattolica (“actus formalis defectionis ab Ecclesia Catholica”), sospende la distribuzione dei moduli e la sua attività a causa di un comunicato della Chiesa cattolica irlandese sull’accoglimento delle richieste di defezione.
“CountMe Out” aveva ottenuto un grande seguito a causa dell’ indignazione suscitata dai casi di pedofilia (531mila email al sito e migliaia di moduli compilati) venuti all’attenzione pubblica dopo sconcertanti denunce, fino ad allora passate sotto silenzio dalla Chiesa irlandese e dalla Congregazione per la dottrina della Fede.
L’atto di defezione, per voce della Chiesa cattolica stessa, è da intendersi come una rinuncia totale ai sacramenti e intende operare quella che viene definita la “rottura dei vincoli della comunione ecclesiastica”, esso è equiparabile allo Sbattezzo italiano (promosso prima dalla Associazione per lo sbattezzo e in seguito dalla Unione Atei, agnostici razionalisti, Uaar), non è quindi un mero “giustificare” il non pagamento di una tassa di religione ma un “atto di vera apostasia”, per il quale il codice canonico prevede dure conseguenze (inclusa la scomunica) e che, più concretamente, se esternato per iscritto e con chiarezza alle autorità ecclesiastiche, consente l’annotazione della defezione sul registro battesimale, così come prescritto dal Decreto Generale della Conferenza Episcopale Italiana del 30 ottobre 1999 recante “Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza”. Questo Decreto ha riconosciuto per la prima volta il diritto d’ottenere la correzione dei dati sui registri battesimali, una sentenza del Tribunale di Padova del 2000 non ne autorizza invece la loro cancellazione. Inutile dire che questi pronunciamenti sono stati fortemente richiesti dalle attività per lo Sbattezzo e dal ricorso, fatto in Italia nel 1999 da un socio Uaar, al Garante per la privacy, istituto allora appena inaugurato.
Ma perché questa improvvisa decisione della Chiesa cattolica irlandese di sottrarsi, forse temporaneamente, alle dichiarazioni di defezione? Nel 2010 entra in vigore il già emanato Motu proprio “Omnium in mentem” (26 ottobre 2009, traducibile con un “All’attenzione di tutti”), da tempo allo studio dei giuristi canonici vaticani, che reca modifiche a tre articoli del Codice di Diritto Canonico riguardanti la possibilità di defezionare dalla Chiesa, i tre articoli però, riguardano solamente il matrimonio. I riferimenti alla defezione formale vengono lì soppressi dopo lunghe consultazioni per: “la convenienza di non avere in questi casi un trattamento diverso da quello dato alle unioni civili dei battezzati che non fanno alcun atto formale di abbandono; la necessità di mostrare con coerenza l’identità “matrimonio-sacramento”; il rischio di favorire matrimoni clandestini; le ulteriori ripercussioni nei paesi dove il Matrimonio canonico possiede effetti civili, e così via” (Pontificio consiglio per i Testi Legislativi, 15 dicembre 2009).
Il Pontificio consiglio spiega inoltre che la modifica riguarda “l’ambito matrimoniale” circa gli obblighi dei battezzati di non sposare non-battezzati o non cattolici, e cita a conferma l’iter delle consultazioni durante le quali, anzi, si ritenne necessaria l’emanazione di una Lettera che invece chiarisse la modalità della defezione, riconosciuta la mole delle richieste poiché “Nel frattempo, la soppressione di questo inciso riguardante la disciplina canonica del Matrimonio è stata messa in collegamento con una questione del tutto diversa, che richiedeva però opportuno chiarimento, e riguardava esclusivamente alcuni Paesi centro-europei: si trattava dell’efficacia ecclesiale dell’eventuale dichiarazione fatta da un cattolico davanti al funzionario civile delle tasse di non appartenere alla Chiesa cattolica e, in conseguenza, di non essere tenuto a versare la cosiddetta tassa per il culto”. Di qui l’emanazione della Lettera che il Ponticio consiglio cita: “A questo concreto proposito e, quindi, in ambito diverso da quello strettamente matrimoniale al quale faceva riferimento il summenzionato inciso nei tre canoni del Codice, venne avviato uno studio da parte del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede per precisare quali siano i requisiti essenziali della manifestazione di volontà di defezione dalla Chiesa cattolica. Tali condizioni di efficacia sono state indicate nella Lettera Circolare ai Presidenti delle Conferenze Episcopali” che il Pontificio consiglio inviò il 13 marzo 2006 e che quindi non c’è ragione di ritenere non più valida poiché scritta durante lo stesso iter della Omnium in Mentem e contemplante la possibilità di defezionare e il riconoscimento dell’apostasia, storicamente ormai avvalorate.
La Chiesa cattolica irlandese ha invece dichiarato e tutt’oggi non integrato che: “… Non sarà più possibile la defezione formale dalla Chiesa Cattolica. Ciò non toglie che molte persone possano defezionare da essa, e possano continuare a farlo, però non tramite un procedimento formale. Questo cambiamento riguarderà la Chiesa in tutto il mondo. L’Arcidiocesi di Dublino conta di mantenere un registro di nota di chi esprime il desiderio di distaccarsi dalla Chiesa. I dettagli verranno comunicati a coloro che sono coinvolti nel procedimento quando essi saranno definiti.” (RTE). Pare più che altro che sia in atto il tentativo di temporeggiare sulle dichiarazioni di defectio (non per fini matrimoniali ma di coscienza) che continuavano a pervenire, non tenendo conto delle delucidazioni del Pontificio consiglio di cui sopra, da tempo pubblicamente consultabili sul sito del Vaticano, e causando perplessità e frustrazione nei ricorrenti.
Altri silenzi, altre nebbie si stendono sull’Irlanda? È d’obbligo che la Chiesa cattolica smentisca l’uso strumentale della Omnium in mentem a scopo … riparativo delle fughe di fedeli.

Francesca Palazzi Arduini
(traduzione dall’inglese di Nestor McNab [FdCA])

http://it.wikipedia.org/wiki/Associazione_per_lo_Sbattezzo
http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/ 356/dossier_anticlericale.htm

 

 

Festa “A” Marghera
Elis Fraccaro
Venezia-Marghera, 18 giugno. Con la partecipazione di una sessantina di persone, e il contributo organizzativo
determinante dei mitici compagni di Dolo, si è tenuta nell’ospitale sede dell’Ateneo degli Imperfetti una cena
di sottoscrizione per i 40 anni di “A”. Momenti musicali e artistici hanno caratterizzato l’incontro, che si è
prolungato dal pomeriggio a notte. Ottimo e abbondante il buffet “autogestito”.
Nelle foto: un aspetto del bel giardino della sede. Nel riquadro a destra: Elis Fraccaro, del Collettivo
organizzatore, interviene durante il dibattito sul ruolo di “A”.

 

 

 

Maroni
E i suoi clandestini

Come Biancaneve e i sette nani, Alice e le meraviglie, Alì e i 40 ladroni, arriva la conferma che dovremmo ricordare il Ministro degli Interni Maroni per il suo pallino per i clandestini. Maroni e i clandestini. Se li è creati (con il pacchetto sicurezza che istituiva il reato di immigrazione clandestina), non perde occasione per ribadire la pericolosità di queste persone, anzi immigrati, e si compiace di aver finalmente imboccato la strada migliore per fermare quella che la sua compagine e non solo chiama invasione. In periodo di elettori padani irritati, con domenica l’incontro annuale di Pontida e con il viso dolente dalle recentissime due sberle democratiche – magari arriva anche la terza, questa la paura del Ministro – non si può certo stare con le mani in mano. E su quale argomento è più specializzato l’onorevole Maroni? La lotta all’immigrazione clandestina.

Che siano rinchiusi sino a 18 mesi nei CIE. Non gli bastavano i 6 mesi dello scorso pacchetto sicurezza. Dimostrare alla base elettorale che qualcosa è stato fatto, e con decisione, perché i clandestini non sono graditi in Italia. E allora sarebbe interessante capire perché da aprile nessun giornalista può entrare in questi centri di identificazione ed espulsione. Non si possono raccontare le condizioni di vita all’interno. Il meccanismo del capro espiatorio non accetta ratifiche. Se lì sono ci sarà un motivo e se soffrono perché sono venuti qui? Ricordo solo che gli immigrati, le persone che lì dentro sono rinchiuse, preferirebbero la galera, sovraffollata e invivibile, alle grate di un CIE. E un motivo ci sarà. Ognuno ha le sue ragione dice Pennacchi.
Ma questi clandestini meritano di marcire per un anno e mezzo dentro centri che quando furono inaugurati avrebbero dovuto essere solo luoghi di verifica e transito? Al massimo un mese rinnovabile a due mesi. Ovvio che le strutture sono inadeguate ad un soggiorno forzato di un anno e mezzo. Non serve entrare lì dentro per comprenderlo. Vogliamo porci questa domanda? Vogliamo porla al ministro Maroni?
E se l’attuale custode della nostra democrazia, da più parti osannato, l’amato Presidente della Repubblica Napolitano, ha dato il nome alla legge che di fatto nel 1998 li istituiva, non sente oggi il dovere di richiamare la politica ad un terreno di umanità? Probabilmente no.
È l'indifferenza che sostiene questo approccio all’immigrazione. L’indifferenza del popolo italiano che non si rende conto e non vuol rendersi conto della condizione in cui le leggi del suo stato relegano gli immigrati. Persone che vivono negli stessi palazzi, fanno la spesa negli stessi negozi, mandano i figli alle stesse scuole, ma che non hanno diritto ad avere le stesse, poche e sempre meno, tutele dei cittadini italiani.
Non è importante che sia la politica la strada maestra che permette alle società di sviluppare le proprie necessità grazie al meccanismo della rappresentanza, e del resto non è nemmeno importante che sia la spinta democratica a valutare quali fra le istanze crescenti in seno all’opinione pubblica sia talmente pressante e condivisa da dover essere presa in considerazione, il punto di Maroni e dei suoi clandestini è che il Ministro dell’Interno, certamente in buona fede, costruisce cospicua parte della propria legittimità amministrativa ( verso l’elettore leghista duro e puro come verso l’indifferente) tessendo regole e approvando decreti che hanno la forza simbolica del governo del fare e conseguenze pratiche che, esulando dalla consapevolezza e dall’interesse quotidiano del cittadino medio, partoriscono indegnamente un diritto alternativo, il diritto degli esclusi, puniti e rinchiusi.
Che da qui in avanti i clandestini di Maroni possano rimanere all’interno di un CIE 18 mesi, invece che 6, interessa strati marginali della società civile italiana e della sua opinione pubblica. È inutile sottovalutare infatti che il clandestino con la forza della comunicazione leghista è diventato parte integrante e della volgata di tutti i giorni e dell’immaginario collettivo e soprattutto, cardine della legislazione in tema di immigrazione, che garantisce i successi alla Lega, perché: “Non vogliamo i clandestini a casa nostra”.
Nel frattempo la società italiana cresce grazie al contributo degli immigrati. Che se non facessero figli loro hai voglia a difenderci dall’invasione, l’Italia non è invasa, infatti, ma semplicemente ripopolata. Se l’italiano non figlia l’italiano si estingue, se lo straniero figlia e la sua prole cresce nel Belpaese, quei bambini sono italiani o no? Cito dall’articolo del 15 giugno trovato sul Giornale di Brescia:

Sorpresa: i giovanissimi superano gli anziani. La società è progressivamente invecchiata, è innegabile, ma ci sono segnali positivi di cambiamento. È sbocciata una sorta di “primavera demografica”. Una controtendenza dovuta soprattutto agli stranieri: sono loro, in particolare per le classi di età inferiore, a portare nuova linfa nei nostri paesi.

Portare nuova linfa, primavera demografica, ma quando questi bimbi saranno maggiorenni, che ne sarà del loro percorso, delle loro aspettative, dei loro sogni impavidi di adolescenti? Se perdono il lavoro avranno un anno e 6 mesi per pensarci.

Fabrizio Dentini

 

 

Documentari per
Raccontare la città

Nella didattica, nella ricerca, nel cinema sperimentale e nel documentario, Docucity vuole essere un pezzo di storia di oggi non raccontata altrove.

http://www.docucity.unimi.it/ interface/docucity.html

Docucity nasce, in ambito universitario, dalla volontà di affiancare alla normale programmazione didattica la proiezione di film documentaristici e di favorire il dibattito critico tra docenti, studenti e esperti di cinema intorno al tema della polis contemporanea. Così, attraverso una scansione in giornate di studio, il pubblico e gli studenti dell’Università degli Studi di Milano hanno potuto confrontarsi guardando documentari di nicchia, ovvero esclusi dalla distribuzione mainstream, che sono poi diventati risorse della Biblioteca del Polo di Mediazione Interculturale e Comunicazione UNIMI.

Maurizio Nichetti e Valentina Pedicini
durante la premiazione C'est tout

In particolare, al centro della riflessione teorica e visiva di Docucity – rassegna nata nel 2006 grazie alla collaborazione di professori del Polo di Mediazione, CTU (Centro Servizi per le tecnologie e la didattica multimediale a distanza), e che ha acquisito la collaborazione del Comune di Sesto S.Giovanni, e, in tempi più recenti, lo IED (Istituto Europeo di Design) e l’Istituto Confucio – sono state proposte tematiche quali il rapporto tra Nord e Sud del mondo, l’archeologia industriale urbana, il confronto tra città solo apparentemente lontane come Caracas e Dakar, le differenti esperienze di vita dei giovani di Milano, Tel Aviv e Torino. Ma è poi espansa la rappresentatività geografica e culturale dello sguardo abbracciato, a titolo esemplificativo, dai documentari del 2010-2011: il Montana della cittadina mineraria di Butte, teatro di aspre lotte sindacali consegnato al destino di ghost town afflitta dal fallout estrattivo (An Injury to One, T. Wilkerson, 2002); la Berlino città-cantiere in continuo divenire dopo il crollo del muro (Berlin Babylon, H. Siegert, 2001); la Caracas dei poveri e vitali barrios de ranchos spuntata attorno alla “città formale” (Caracas: The Informal City, R. Schröder, 2007); il road-movie girato lungo la M25, ultimo anello stradale a cingere Londra (London Orbital, I. Sinclair e C. Petit, 2002) e il cortometraggio dedicato al Boulevard Périphéric, l’arteria di 35 km che si snoda tra la capitale e le sue banlieue (Paris périph, R. Copans, 2004); la Montreal/Montréal simbolo dell’unicità culturale canadese ripresa da Ennio Flaiano negli anni settanta (Oceano Canada, E. Flaiano, 1971); la New York degli underdog americani, i senzatetto che vivono nel ventre metropolitano e che le politiche di gentrification vorrebbero cancellati dal volto turistico della città (Dark Days, M. Singer, 2000); la Pechino “ventosa” raccontata con sguardo studiatamente minimalista di Ju Anqi (Beijing de feng hen da, J. Anqi, 1999); gli spezzoni e i frammenti dell’assedio di Leningrado salvati dai polverosi archivi sovietici restituiti senza retorica da un documentario che ripropone la bellezza di San Pietroburgo e la sua eroicità (Blokada, S. Loznitsa, 2006); l’esperienza industriale e l’irriducibile anima operaia di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia (Sesto San Giovanni, CESPI, 2008); la periferia torinese di Laura Halilovic (Io, la mia famiglia Rom+Woody Allen, 2009) che racconta in prima persona il desiderio di fuga e riscatto di una ragazza rom; il quartiere di Sheikin Street a Tel Aviv, The Bubble – diventato un rifugio interculturale per giovani pacifisti bohémiens dediti all’impegno politico, all’edonismo e all’amore libero riletto in chiave contemporanea (The Bubble, Eytan Fox, 2007).

Nicoletta Vallorani durante la premiazione (2011)

L’ambizione di portare all’interno dell’università milanese temi e modalità rappresentative raramente considerati nell’ambito accademico tradizionale viene affiancata da un concorso per cineasti esordienti o professionisti che, dal 2010, costituisce il cuore di una maratona filmica dedicata alla rappresentazione della città. L’edizione 2011 del concorso di Docucity ha visto partecipare 74 opere di non-fiction (documentari, animazioni e film-saggio), 13 delle quali protagoniste di una tre giorni presso il Polo di Mediazione Interculturale e Comunicazione UNIMI di Sesto San Giovanni, valutate da una giuria presieduta da Maurizio Nichetti (Regista), Marie Pierre Duhamel (Critico Cinematografico), Ivelise Perniola (Docente di cinema – Università Roma 3), Luca Sanfilippo (General Counsel – Sky) e Agostino Zappia (Giornalista RAI). Dall’11 al 13 maggio 2011, sugli schermi del Polo di Mediazione dell’Università degli Studi di Milano, si sono susseguite le proiezioni dei 13 film finalisti a cui sono state affiancate due “finestre” culturali affini a cura dell’associazione di cineasti “100autori Lombardia” e dell’Istituto Brasile-Italia. Una delle finalità del progetto Docucity rimane l’urgenza di far dialogare tra loro realtà culturali distanti all’interno di un contesto trasversale come quello della narrazione urbana contemporanea. Pertanto, la componente universitaria ha visto partecipi non solo docenti, ricercatori e addetti ai lavori di rilevanza nazionale, ma soprattutto un gruppo di studenti che, a seguito di un laboratorio di critica cinematografica a cura di Nicoletta Vallorani – scrittrice nonché docente di letteratura e cultura inglese presso l’Università degli Studi di Milano – e in collaborazione con il CTU (Gianmarco Torri e Marco Carraro) e la Biblioteca del Polo di Sesto San Giovanni, ha attribuito il premio del pubblico offerto Nanook Media a Paradiso di Alessandro Negrini (2009, 60’).

Fotogramma di A Nord Est, L. Adami, L. Scivoletto (2010)

Nella “cinematografica” cornice dello Spazio M.I.L. di Sesto San Giovanni la serata finale di Docucity ha visto alternarsi proiezioni, discorsi ufficiali, performance (come la sonorizzazione live di Trees of Mint durante la visione di un filmato su Milano a cura dell’Archivio Nazionale del Film di Famiglia). La menzione speciale è andata a Paradiso di Alessandro Negrini (2009, 60’), 42 Storie da un edificio mondo di Francesca Cogni e Donatello De Mattia (2009, 18’), e Le White di Simona Risi (2010, 50’) mentre il premio Docucity 2011, offerto dall’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano, è stato attribuito a My Marlboro city di Valentina Pedicini (2010, 50’). L’opera della giovane regista brindisina si rifà al contrabbando di sigarette che, nella storia della città portuale del Salento, costituisce da sempre tanto una piaga sociale (alimentata dal sottobosco criminale che ne gestisce i traffici illegali), quanto una risorsa economica spesso centrale alla sopravvivenza delle fasce più povere della popolazione. Aprendosi sulle immagini sgranate di un approdo di scafisti che trasportano casse di “bionde”, il documentario della Pedicini continua poi a dipanare i tanti fili di una realtà urbana i cui protagonisti – padri di famiglia che scontano il loro passato di contrabbando tra carcere e lavori socialmente utili, ragazzi del sottoproletariato in bilico tra pulsioni adolescenziali e il richiamo del mondo della strada; insegnanti tenaci e baristi generosi – pur messi a dura prova dalla vita, non si rassegnano – non del tutto, non ancora – al destino che li vuole inchiodati alle brutture della loro “Marlboro City”.

E.M. – C.S.

 

Mastrogiovanni
Il processo continua

Il processo Mastrogiovanni e la critica politica di un’atrocità

Il processo che vede alla sbarra 18 imputati, tra medici e infermieri del reparto di psichiatria dell’Ospedale “San Luca” di Vallo della Lucania (SA), accusati della morte dell’insegnante libertario Francesco Mastrogiovanni, iniziato il 28 giugno 2010, continua a svolgersi grazie alla calendarizzazione delle udienze voluta dalla neo-Presidente Dott.ssa Elisabetta Garzo, con assoluta regolarità. In queste pagine non riassumeremo le vicende processuali (le cui corrispondenze i lettori potranno leggere, online, sul sito del settimanale Umanità Nova) ma cercheremo di analizzare il lato politico di una vicenda che racconta di come l’applicazione errata di una legge possa trasformarsi in sopruso, violenza, ossia in tutto ciò che rende vergognosi e insopportabili alcuni aspetti dell’attuale organizzazione sociale.

La vicenda Vassallo e il TSO illegale

La triste vicenda di Mastrogiovanni inizia con un’ordinanza di TSO emessa da Angelo Vassallo sindaco di Pollica-Acciaroli, ordinata (come si evince dalla relazione dei Carabinieri) alle 8,30 del 31 luglio 2009, ossia molte ore prima di acquisire i due certificati medici necessari. A seguito di quella ordinanza illegale, per la quale il “Comitato verità e giustizia per Franco” ha inoltrato formale denuncia, si è proceduto ad un vero e proprio sequestro di persona (reato contestato dai giudici). Pollica –Acciaroli è uno dei paesi più belli della costa cilentana e, come tutti i luoghi turistici, non sfugge alle attenzioni dei cartelli mafiosi che “governano” il sud Italia. La stampa nazionale racconta di un sindaco molto legato alla sua terra, che si oppone all’oppressione mafiosa recandosi personalmente nei bar per affrontare “de visu” i pusher, che contrasta l’aggressione cementizia del paese da lui amministrato da decenni e che, pochi giorni prima di essere ammazzato, confessa al fratello Claudio di essere a conoscenza di collusioni tra “personaggi” delle forze dell’ordine e “personaggi poco raccomandabili” delle organizzazioni malavitose. Il 5 settembre 2010 un barbaro attentato mafioso spezza la sua esistenza e insieme all’uomo, si perde anche la possibilità di conoscere i motivi reali che lo spinsero ad emettere un’ordinanza di TSO difforme nei confronti di una persona che conosceva da anni. Nel leggere i verbali dell’interrogatorio del tenente della polizia municipale di Pollica, svoltosi il 17 maggio 2011, che riguarda, tra le altre, l’emissione del TSO, si rimane a dir poco sconcertati dalla “sommatoria di incertezze” contenute nel racconto.

E se non ci fosse stato il video?

Proviamo ad immaginare, solo per un momento, che nessuna videocamera avesse ripreso la lunga agonia di Mastrogiovanni e che il processo non disponesse di questa “prova evidentissima”che riprende le penalità supplizianti a cui è stato sottoposto il maestro. Dalla cartella clinica non emerge ,perché non annotato, il ricorso alla contenzione. Non emergono, perché non eseguite tempestivamente, tutta una serie di analisi cliniche necessarie. È il classico documento “flessibile” che in altri casi e in altri spazi “vuoti” di diritto, come alcune carceri o ospedali psichiatrici giudiziari italiani, ha contribuito ad “aggiustare” situazioni che le istituzioni non hanno mai voluto portare alla luce, ma che sono di pubblico dominio. Se non avessimo avuto il video non avremmo avuto contezza del comportamento del personale medico e infermieristico presente in quelle 82 ore in qualità, ora possiamo affermarlo, di testimone non soccorritore. Più volte il Gip Rotondo, nella sua richiesta di interdizione del personale medico e paramedico è ritornato sul dovere civile e professionale, da parte di un qualsiasi operatore sanitario, di rifiutare di compiere atti contrari al paziente, di opporsi segnalando alle autorità competenti, anche per iscritto, quanto accade. Ma per capire il perché tutto ciò non sia avvenuto bisogna ritornare ad analizzare fenomeni che vanno sotto il nome di ubbidienza cieca all’autorità e diniego condiviso. Luigi Manconi e Valentina Calderone nel loro libro “Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore, 2011) a pag. 22 parlano di una questione cruciale e in genere trascurata. Le due funzioni istituzionali, i due mandati che hanno strutture come quelle di Vallo della Lucania, quello di fare (punire, recludere sorvegliare) e quello di non fare (non umiliare, non colpire e non uccidere) che include quello di tutelare (sostenere, accudire e curare) devono combinarsi perché ineludibili e fondamentali per la coerenza delle istituzioni con lo stato di diritto.

Francesco Mastrogiovanni

Le patologie di Franco e quelle del potere

Franco disturbava, manifestava un profondo disagio, dava fastidio con i suoi comportamenti in un periodo dell’anno in cui ad Acciaroli, come in tante altre località turistiche italiane, la movida cancella gli affanni di un intero anno. Il sindaco Angelo Vassallo non è solo il sindaco del paese, è un imprenditore e la sua famiglia gestisce un ristorante. Ha in mente grandi progetti per Acciaroli e per realizzarli avrebbe bisogno di un diverso controllo del territorio e di tutela anche personale. Dalle indagini in corso emergono quadri complessi e risulta che Vassallo ha scritto più volte ai vertici dell’arma dei Carabinieri, ha inoltrato esposti e denunce ma gli esiti non sono stati quelli sperati. Può darsi quindi che il bisogno di normalizzare situazioni che prevederebbero ben altri interventi, lo stress continuo a cui è sottoposto, la solitudine in cui si trova ad operare abbiano aumentato la sua ansia e questa potrebbe essersi trasformata, di fronte ad un problema minore, in altro e averlo indotto in errore avvolgendo, come già accaduto ad altri, i comportamenti dissacranti di Mastrogiovanni nel velo ipocrita della necessità terapeutica. Franco è stato, a seguito di un TSO “telefonico”, inseguito fuori dai confini comunali e sequestrato, ricoverato contro il suo volere, in un “non luogo”, in una struttura che, invece di sostenerlo, ha usato violenza con omissioni, prevaricazioni che non hanno nulla a che vedere con le esigenze terapeutiche. In un luogo di cura dove non alberga il diritto hanno spacciato la contenzione come atto medico calpestando lo spirito della legge 180, interrompendo il continuum dell’esistenza di Franco con pratiche violente. La diagnosi ha assunto, nel caso di Mastrogiovanni, un valore di etichettamento che ne ha decretato una passività irreversibile. Privato della dignità di uomo, coperto solo e per poco tempo da un pannolone, senza cibo, senza visite mediche, impossibilitato a ricevere i parenti. Abolito il suo ruolo sociale e il legame con la sua stessa storia, già ricca di sopraffazioni e violenze, lo si è ucciso prima psicologicamente e poi fisicamente.

L’ASL parte civile?

“La cosa che ritengo più grave e spudorata è che la ASL si sia dichiarata parte civile, mentre è la prima responsabile di quanto accaduto!”. Con questa dichiarazione, che condivido, la Dott.ssa Agnesina Pozzi, già medico consulente della famiglia Mastrogiovanni, ha evidenziato lo scandaloso comportamento dei vertici dell’azienda. Con la costituzione di parte civile sembra che le responsabilità debbano ricadere solo ed unicamente sui medici e gli infermieri mentre le responsabilità maggiori sono a livello dirigenziale. La Regione Campania ha divulgato le linee guida solo dopo la morte di Franco e ha, di fatto, autorizzato la sussistenza di reparti senza requisiti generali, strumentazioni d'emergenza (come ad esempio un defibrillatore), presidi idonei di sicurezza e comfort per i pazienti. Per non parlare della dirigenza ASL che non ha disposto l'impiego di personale qualificato, non ne ha verificato la formazione, né ha creato sistemi di controllo a feedback con l'utenza. Le linee guida sulla contenzione esistevano, ma spettava ai dirigenti ASL portarle a conoscenza del personale. Anche in questo caso non si può parlare solo di inefficienza e di insufficienza del sistema sanitario regionale, occorre riflettere sui meccanismi di selezione e scelta di capi, delegati e responsabili ai vari livelli. Qualche domanda, in conclusione:
Il Capo dipartimento di Salute Mentale ha svolto le sue mansioni in maniera efficace ed efficiente? Ha recepito le direttive della Conferenza delle Regioni e Province autonome e di conseguenza ha disposto le linee attuative in merito ad ASO e TSO? Si è assicurato che tutto il personale ne avesse ben compreso il senso, gli obiettivi e che applicasse le disposizioni personalizzandole per ogni paziente? Ha verificato gli standard qualitativi e i risultati all'interno delle U.O. e dei vari Servizi?

Angelo Pagliaro

 

 

Il libro in Italia:
“Decrescita” o “Bibliodiversità”

Nel corso dell'estate abbiamo assistito a un animato dibattito sulla stato dell'editoria nel nostro paese. A dare il via alla discussione è stato un intervento di Marco Cassini, direttore di minimum fax, che suonava in parte come un'autocritica: “Credo che noi editori abbiamo sbagliato, e sbagliamo, a lasciare che sia il mercato, e i suoi tortuosi percorsi, a regolare le nostre scelte, o anche solo le forme del rapporto fra noi e i lettori. Quello che il mercato vuole o impone a un editore che non voglia sparire dalla libreria è la crescita, è una produzione maggiore, la conquista di uno spazio nei negozi, che (invertendo il principio di causa-effetto) è sempre più limitato.” Per questo rivolgeva un appello agli altri editori indipendenti, proponendo un impegno su tre punti: “1. Impegnarsi insieme, e reciprocamente, in una campagna di ‘decrescita felice’: produrre meno per produrre meglio, per dare tempo ai libri di vivere più a lungo prima e dopo la pubblicazione; 2. Impegnarsi a non cadere nella tentazione delle scorciatoie, della semplificazione, dell’imitazione; 3. Impegnarsi a resistere alle storture del mercato e a fare di tutto per cambiare le sue regole che non ci piacciono.” [http://www.minimumfax.com/libri/magazine/339/0]
Sotto gli occhi di tutti è una situazione che vede una proliferazione di titoli (in Italia ne escono circa 60.000 all'anno) e una vita sugli scaffali delle librerie sempre più breve. Ma la proposta di autoridursi il numero di titoli in una logica di “decrescita” più o meno “felice” ha sollevato varie reazioni. Alcuni personaggi dell'establishment librario, in prima fila il presidente dell'Associazione librai italiani, hanno colto la palla al balzo per prendersela con i “piccoli editori”, che intaserebbero gli scaffali con tanti libri “inutili” e che vendono poco o niente. La replica è venuta da Ilaria Bussoni, editor di DeriveApprodi, con l'ironico appello “Salva un libro, uccidi un editore” [http://www.deriveapprodi.org/2011/07/salva-un-libro-uccidi-un-editore/]. Commenta Ilaria Bussoni in modo sarcastico: “Sono inutili per i lettori che comunque non li leggono; sono inutili per i librai che comunque non li vendono; sono inutili per i tipografi che comunque non glieli pagano. Tutti questi titoli l’anno – 60.000! – sono persino dannosi: perché inquinano il mercato; perché è colpa di quei 60.000 se poi abbiamo l’impressione che i libri nessuno li compra; è colpa loro se i lettori disorientati di fronte a tanta profferta sono ridotti a comprarne in media uno l’anno; perché in fondo basterebbe pubblicare solo quei 100 o 200 titoli che davvero vendono, che davvero il pubblico vuole comprare a tutti i costi in libreria, che il pubblico è persino disposto ad andarsi a cercare al supermercato, o all’autogrill, per dire quanto è motivato al loro acquisto questo pubblico. Che bisogno c’è di fare ogni anno gli altri 59.800 libri?”
Qualche considerazione. Uno dei grandi colossi mondiali dell'editoria, il gruppo Bertelsmann-Random House, secondo lo stile delle imprese transnazionali, ha una “mission” dichiarata: “Essere il primo gruppo editoriale di dimensioni globali”. In effetti, oltre a una presenza egemone sul mercato americano e su quello di lingua tedesca, Bertelsmann-Random House ha una forte presenza anche nei paesi di lingua spagnola, ha una joint venture anche in Italia con Mondadori ed è attivo sul territorio cinese con una grande catena di bookstore. Ma la “dimensione globale” significa altro: vuol dire imporre gli stessi titoli (selezionati) in tutto il mondo, in una logica di uniformazione culturale che a uno sguardo innocente come il nostro risulta una prospettiva agghiacciante. Viene in mente, si parvis licet, la scelta mussoliniana del Balilla Vittorio, il sussidiario unificato imposto nel ventennio a tutte le scuole elementari italiane.
Il problema di una “decrescita” dei titoli fa sorgere quindi quello della “bibliodiversità” ed è evidente, come osserva Andrea Carbone, direttore delle edizioni :duepunti [“il manifesto”, 23 luglio 2011] che “la decrescita è funzionale ai poteri forti dell'editoria”. E tocca così il punto dolente: “Che cosa dà forza a questi poteri? Oggi un medesimo soggetto può essere insieme editore di libri e di giornali, produttore di media, promotore commerciale, proprietario di librerie, distributore, grossista, operatore logistico... Svolgere cioè tutti i ruoli della filiera editoriale, esercitando un controllo capillare sul mercato e facendo eventualmente cartello con altri soggetti suoi pari.” Quali siano questi soggetti, è presto detto: sono Mondadori, Rcs, il Gruppo GEMS, che controlla Messaggerie, il principale distributore, Feltrinelli, che di recente ha acquisito PDE, il principale distributore di editori indipendenti e proprietario della maggiore catena di bookstore, Giunti, che vanta una propria filiera dalle tipografie alla rete dei negozi Giunti al Punto.
Osservando lo stato dell'editoria e della lettura in altri paesi, mi ero spesso interrogato riguardo a quella che appare un'isola felice: l'Olanda vanta numerosi editori indipendenti con ricchi cataloghi, una fitta rete di librerie molto attive e tirature medie notevoli rispetto ai potenziali lettori. Ne ho chiesto la ragione al direttore di una casa editrice storica olandese, Wereldbibliotheek, e la spiegazione che mi ha dato è questa: da quasi un secolo gli editori olandesi si sono consorziati e hanno affidato la distribuzione a un unico ente senza fini di lucro, che opera su tutto il territorio nazionale e trattiene una percentuale del dieci per cento sul prezzo di copertina. In Italia, alla distribuzione spetta il venti per cento e chi ha coscienza dei margini quasi inesistenti con cui si opera nel settore si renderà facilmente conto di come questa percentuale possa fare la differenza.
La questione dunque non è tanto di limitare i titoli in uscita, ma di contrastare unendosi le pratiche monopolistiche dei grandi gruppi editoriali. Si tratta di superare le logiche egoistiche e miopi che spesso guidano le scelte di editori e librai. Le azioni comuni che a prima vista parrebbero prive di una prospettiva “realistica”, possono pagare, come ha dimostrato la recente battaglia per il prezzo fisso del libro, che qualche risultato ha saputo produrre, come ha osservato nel suo intervento Marco Cassini: “Così come i Mulini a vento (un gruppo di editori di cui fanno parte Donzelli, Instar libri, Iperborea, minimum fax, La Nuova Frontiera, nottetempo, Voland) negli ultimi due anni si sono spesi per contribuire a porre un primo piccolo argine (altri bisognerà costruirne) alla stortura della legislazione in materia di prezzo del libro, forse oggi ci si potrebbe impegnare a proporre al garante per l’Antitrust di regolamentare il mercato per evitare che tutta la filiera editoriale sia in mano a pochi soggetti in posizione dominante.”.

Guido Lagomarsino