rivista anarchica
anno 41 n. 366
novembre 2011



(sotto)sviluppo

Dietro la fame del Sahel
Colloquio di Teodoro Margarita con Davide Losa

La recente siccità nel Corno d’Africa, con i previsti milioni di morti per fame, rende urgente indagare a fondo sui meccanismi perversi che stanno alla base della cattiva gestione della terra in quei paesi.
Questo colloquio con un esponente del volontariato è un contributo, iniziale, per far luce sul legame inscindibile tra neocolonialismo, globalizzazione e imposizione delle nuove tecnologie e sull’impatto, terribile, che ciò ha avuto e sta avendo sulla vita quotidiana di milioni di Africani.

 

Ce ne sono di miti da sfatare, vere e proprie fabbriche di menzogne da sradicare dalle fondamenta. Menzogne costruite ad arte, disinformazione scientemente diffusa e propagata sul tema della fame, della desertificazione nel mondo che viene detto, assurdamente, “terzo”.
Miti che, quando va bene, vogliono popolazioni apatiche, bambini dalle pance gonfie per il kwarshiokor, missionari caritatevoli che paracadutano “aiuti”, file interminabili di individui prostrati che tendono la mano e generosità bianche e occidentali che, largamente, donano.
Concentriamoci su una parte del mondo tragicamente tra le più note per la desertificazione in atto, per le periodiche carestie. Andiamo a guardare da vicino l’Africa, in particolare il Sahel, nello stato del Burkina Faso e dintorni.
Non ci sono stato personalmente, ma ho chiesto a un caro amico, Davide Losa, che sta lavorando ad un progetto dell’associazione Ital-Watinoma di Villasanta (www.watinoma.info).
Davide è anche tra i fondatori e gestori della giovane azienda agricola biologica “La Runa” di Erba (CO).
Amici da sempre, Davide conosce il mio impegno in Civiltà Contadina, collaboriamo in questo campo e ha accettato di rispondere ad alcune domande.
Alcuni articoli apparsi sulla stampa internazionale più attenta, in particolare su “Le Monde Diplomatique” tradotti in italiano e riproposti da “Il Manifesto”, mi hanno dato lo spunto per una serie di riflessioni che ho voluto approfondire con lui.
Cercando ancora, nella Rete, sono emerse alcune, poche notizie, talora frammentarie altre un più accurate, sulle buone pratiche in uso per diminuire l’impatto dell’erosione in agricoltura.
Per mia formazione ho avuto modo di leggere opere di Rènè Dumont, già esponente ecologista francese, a sua tempo candidato per Les Verts alla presidenza della repubblica e, soprattutto, agronomo di rango internazionale, autore di innumerevoli opere sull’agricoltura in varie parti del mondo, conoscitore profondo di tutto il processo che, dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti ha portato la maggior parte dei paesi del sud del mondo all’indipendenza, inquadrando tutto questo immane processo, dal punto di vista del suo lavoro: l’agronomo.
Rènè Dumont, grande estimatore di Thomas Sankara è stato colui che ha provato s sfatare i falsi miti sulla fame nell’Africa subsahariana.
Sono partito da questo solido bagaglio tecnico nel porre le domande a Davide.
Scoprire che sono stati i francesi colonizzatori, a determinare le premesse della desertificazione nel Sahel, da un lato è stato scioccante, dall’altra bisognava aspettarselo.
Che le monoculture, per esempio quella dell’arachide, imposta in paesi come il Senegal, fossero causa della morte dei suoli (dopo la raccolta del legume il terreno resta semplicemente nudo con tutte le conseguenze del caso) mi era già noto ma che le autorità francesi avessero dichiarato tutte le risorse boschive in Africa di loro pertinenza mi era ancora ignoto.
La conseguenza logica e tragica per l’ecosistema saheliano è stata che i contadini, pur di non pagar tasse, hanno abbattuto ogni albero possibile.
Finita la colonizzazione si è ripreso a piantumare ma il danno era fatto e solo con l’avvento al governo di Thomas Sankara si è pensato bene di abolire questa idiota, tragica tassazione.
Qui urge una riflessione. In assenza di libertà, si assiste alla morte dell’iniziativa, della libera ricerca in ogni campo.
Nel Sahel, terreno molto particolare, ove, in caso di abbandono delle terre, presto il suolo si inaridisce, essendo composto, giusto al di sotto della fascia umifera, soprattutto da ferroliti.
“Zipellès” viene definito dai contadini il terreno non più coltivabile, talmente duro da non sopportare nessuna cultura, peggio della pietra, del ferro.
Ai francesi, ovviamente, non importava nulla della desertificazione nel Sahel, così come a tutti gli altri colonizzatori negli altri angoli del pianeta.
È necessaria la piena autodeterminazione di un paese per decidere di difendere i suoli, è necessaria la libertà.
Thomas Sankara, presto assassinato e per poco tempo presidente del Burkina Faso ci aveva provato.
I progetti “chiavi in mano” degli operatori delle Ong internazionali che girano in lussuosi fuoristrada, i mirabolanti “Villaggi del millennio” sono destinati al nulla.
Davide mi parla di decine di impianti rimasti ad arrugginire nel deserto, in Africa.
Così in Cina dove hanno pensato a grandiose “muraglie verdi” contro erosione e desertificazione dimenticando, ben lo sanno i contadini tradizionali, che una foresta per vivere deve, innanzitutto, essere voluta e gestita in libertà dalle popolazioni locali.
Libere di coltivarla, di circolarvi, saranno queste stesse popolazioni che si faranno scrupolo di preservarla.
Gli alberi, tutti uguali, che i cinesi stanno piantando ad est di Pechino, stanno deperendo.
La tempesta che si abbatté sulla Francia nel dicembre del 1999, distrusse ettari ed ettari di foreste nell’ovest del paese: foreste artificiali, impiantate ad angolo retto, prive di sottobosco, concepite da una mente che aveva lo scopo della massima resa in legno e del minimo lavoro di mantenimento.
Una foresta primordiale, composta di decine e decine di essenze diverse resiste a qualunque avversità: i pini in Provenza o gli eucalipti nel Sahel sono il frutto della stessa cecità.
L’eucalipto, essenza idrovora, il pino, altamente infiammabile e distruttore di sottobosco, non sono, impiegati in massa, l’ideale per nessun rimboschimento.
Molto meglio Yacouba Sawadogo e la sua pratica tradizionale, lo zai che ripristina arbusti ottimi ma autoctoni, la policoltura, l’agricoltura che era pratica universale in Europa, una vera permacultura fatta di convivenza di orticoltura, piccolo allevamento e saggia gestione del patrimonio forestale e dei pascoli comuni.

T.M.

Esempio di tecnica zai in Burkina Faso: buche scavate nel terreno che permettono di contenere l’acqua e
aumentare la fertilità del suolo grazie all’accumulazione di materiale organico

 

TM: Quali sono le principali essenze arboree che nel Sahel potrebbero essere utili nel rinverdimento del territorio e contemporaneamente, utili anche al piccolo commercio locale per la vendita per legname o mobili?

DL: Questo è un problema che mi sono posto anch’ io perché volevo inserire nel progetto che sto seguendo un intervento di arboricoltura sostenibile per la produzione di legno da opera. Le essenze locali utilizzate (karitè, nerè, caliceidra, etc.) crescono quasi tutte molto lentamente. Sto studiando qualche cosa sulla caliceidra, che cresce un po’ più velocemente. In Burkina piantano l’eucalipto che, a parte rovinare il terreno, viene utilizzato solo per la costruzione di hangar con tetto in paglia. Direi che è da evitare. Una pianta interessante potrebbe essere il neem, che cresce in fretta, senza troppo utilizzo di acqua, ricresce velocemente una volta tagliato, è sempre verde e dà ombra. Il suo legno dovrebbe essere utile, ma è ancora tutto da studiare. Inoltre ha sottoprodotti interessanti (foglie e semi). Purtroppo non è un pianta autoctona. Parlando con un falegname burkinabè sulla questione del disboscamento lui mi diceva: “Gli alberi c’erano prima dell’uomo. È Dio che ha provveduto a piantarli e ci penserà lui a piantare anche i prossimi”. Purtroppo la persone che ho conosciuto non hanno la consapevolezza del problema del disboscamento, e non solo per colpa loro.

TM: Hai conosciuto contadini che fanno uso dell’antica tecnica detta “zai” e in che modo essa viene praticata? Ce la puoi descrivere, in breve?

DL: Direttamente non ho conosciuto contadini che usano questa tecnica. Si tratta di scavare buche nel terreno in modo che vento e pioggia accumulino foglie e altri materiali che si trasformeranno in compost dando fertilità al terreno. Poi ci si piantano alberi, cereali o legumi.

TM: Come senti tu il clima nel Burkina, come avverti il caldo? Ti chiedo di queste sensazioni personali perché penso sia da sfatare il falso mito dell’Africa impossibile da vivere.

DL: In realtà il periodo più torrido è aprile-maggio. Dicono ci siano 40 gradi all’ombra e che anche muoversi costi fatica. In quel periodo si dorme fuori anche la notte per il troppo caldo. I bianchi che sono stati là in quel periodo mi dicono che è davvero difficile starci. Da maggio a settembre/ottobre è la stagione delle piogge caratterizzata da caldo umido ma quando piove (temporali di un paio d’ore o anche mezza giornata ) si sta bene. Da ottobre poi inizia la stagione secca (il loro inverno). Caldo secco. Per noi bianchi il periodo migliore per un soggiorno in Burkina. Di notte fa freschino e da fine gennaio inizia a soffiare l’harmattan. Tieni conto che in dicembre/gennaio girano coperti anche con maglioni pesanti mentre noi giriamo in maglietta. La sensazione di caldo/freddo è molto soggettiva. Comunque lavorare in quelle condizioni, con gli strumenti che utilizzano, ti garantisco che non è facile. Se qualcuno mi dice che gli africani non hanno voglia di lavorare solitamente rispondo di provare a lavorare a 30 gradi con un pasto al giorno e con gli attrezzi che usano loro.

TM: Hai conosciuto tecnici della cooperazione, soprattutto in campo agricolo? Come si rapportano con la gente, qual è il loro atteggiamento e come li avverte la popolazione locale?

DL: Su questo non posso esserti di aiuto perché non ho conosciuto nessun tecnico. Ti posso dire che durante un viaggio veloce in Mali abbiamo incrociato una lussuosa jeep di una ong e il conducente del nostro mezzo mi ha detto: “Vanno con macchine da ricchi a vedere gente povera”. Per quanto mi riguarda preferisco lavorare con la gente del villaggio e anche i lavori al campo, per quanto possibile, li svolgiamo insieme. Un piccolo progetto che stiamo avviando ora (regalare due piante da frutta alle famiglie del quartiere dove abitiamo) mi ha portato personalmente a visitare 100 famiglie del villaggio. È ovvio che mettendoci la faccia e cercando di comunicare con loro (magari nella loro lingua) cambia completamente la relazione tra il cooperante e chi riceve l’“aiuto”.

TM: Ritieni, invece, che tecniche biologiche, di agricoltura organica, virtuose, non invasive, possano essere d’aiuto o la tecnica tradizionale dello “zai” sia già sufficiente a combattere fame e deserto?

DL: Con una sola tecnica penso sia impossibile combattere fame e deserto. Si dovrebbe lavorare in modo “olistico” perché il problema è “olistico” e riguarda più cause con più conseguenze. Per esempio il problema della desertificazione non si può risolvere solo piantando alberi perché bisogna anche lavorare sulla possibilità di avere acqua per irrigarli e anche il disboscamento va diminuito incentivando metodi di utilizzo della legna da ardere più sostenibili (es. forno migliorato, promosso ai tempi di Sankara ma ora poco utilizzato, o cucine solari).

TM: Fame nel Sahel, cosa hai visto tu, verità o “mito" negativo?

DL: Sicuramente c’è un problema di malnutrizione che porta a problemi sanitari che, una volta non risolti immediatamente, porta a condizioni sanitarie precarie. I bambini soffrono spesso di mancanza di vitamine ma la frutta costa troppo e non c’è consapevolezza del fatto che essa contenga vitamine. Un mio amico burkinabè mi ha chiesto delle vitamine perché si sentiva fiacco. Gli ho dato una banana e gli ho detto che nella frutta ci sono tante vitamine e che andrebbe mangiata spesso. Per lui però era una cosa inconcepibile, lui voleva la medicina dei bianchi perché le vitamine sono solo nelle medicine. Ci vorrebbe formazione sulla corretta alimentazione. Cosa che noi abbiamo previsto di fare nel progetto che stiamo avviando.

TM: Il villaggio, esiste ancora, in quanto microstruttura solidale o la visione urbana, ormai prevalente nel mondo, ha ucciso ogni vecchio legame? Cosa è morto, cosa sopravvive di quel mondo?

DL: Il villaggio esiste ancora con la sua microstruttura, in Burkina soprattutto visto che è un paese ancora prettamente rurale. Ovviamente il modello urbano sta prendendo piede anche nei villaggi. Rimangono ancora usanze e tradizioni (a volte molto “chiuse”) non sempre positive (le aveva combattute anche Sankara, cercando di trovare il giusto equilibrio tra tradizione e sviluppo). Essendo comunque un paese dove le relazioni rivestono ancora un ruolo fondamentale c’è molta socialità (di facciata o meno).

TM: Cosa mangia la gente nei villaggi? Quanto è ancora autoprodotto e quanto viene dall’estero e da dove?

DL: Nella dieta base trovi miglio, sorgo e fagioli (una varietà locale chiamata benga) con salse fatte con foglie di alberi. Si trova anche burro di karitè. Nelle salse si trovano anche cavoli, pomodori, peperoni, melanzane, cipolle, fagiolini (questi prodotti solitamente si comprano al mercato e provengono da coltivazioni locali). Frutta ma costa (manghi, papaie, banane, goyave, etc.). Dall’esterno, a causa degli aiuti umanitari, arriva il riso, oramai inserito nella dieta base, proveniente dall’estremo oriente il cui prezzo, per effetto del dumping, è inferiore al prezzo del poco riso prodotto in Burkina Faso. Il dado Maggi sta oggi soppiantando l’uso di semi e foglie locali nella preparazione della salsa. Si coltiva e consuma anche il mais.

TM: La cintura verde, il miracolo della rinascita, quello che ha scritto Mark nel suo articolo per Le Monde, tu l’hai visto? Se sì, quali le tue impressioni?

DL: Andando verso il Mali (quindi nord, deserto) si incontrano coltivazioni di legumi associate ad alberi, dove c’è la possibilità di avere acqua a disposizione e alcuni progetti di cooperazione lavorano tanto sul problema dell’irrigazione. Sicuramente piccoli progetti mirati e interventi fatti dai contadini locali secondo il mio parere hanno più possibilità di successo che grandi progetti di rimboschimento o altro. Un problema che secondo me sarà da affrontare è il tipo di alberi utilizzato per questi interventi. I contadini vogliono alberi da frutta (giustamente ) ma così facendo si rischia, poco alla volta, di eliminare alberi non “utili” compromettendo la biodiversità.

TM: Kokopelli nel mondo, organizza laboratori per l’autoriproduzione delle sementi, credi che potremmo anche noi, fare qualcosa o in Burkina i contadini sono già perfettamente in grado di far da sé? In caso di risposta positiva, tanto meglio. In caso di risposta negativa, Kokopelli credo possa operare anche in Burkina, è già presente o lo è stata in Senegal e nell’Atlante marocchino.

Sicuramente formare contadini e abitanti locali è importantissimo e sicuramente investimenti in quel senso sono necessari.

Teodoro Margarita, Davide Losa