rivista anarchica
anno 41 n. 367
dicembre 2011 - gennaio 2012


come eravamo

Memorie dal sottosuolo
di Gianni Sartori

A cavallo tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70, parlando di speleologia, movimenti, avventure.
Nel ricordo di Fernando Ruggero, il mitico “Effe”.

 

Una ventina di anni fa, se non ricordo male, “A” pubblicò un mio articolo sulla sovrapposizione, prima dopo e durante il 68, tra militanza e speleologia. All'epoca, ancora attività da “disadattati e devianti”, quasi pre-neolitica, non completamente addomesticata e parzialmente “altrove” rispetto alla società della merce e dello spettacolo. O almeno così sembrava.
In particolare, raccontavo di una spedizione di 4-5 giorni (agosto 1968) all'interno della Grotta del Torrione di Vallesinella, nelle Dolomiti del Brenta, considerata una delle grotte più “in quota” delle Alpi.
Si era parlato di una “seconda puntata”. Ma, mentre trascorrevano impietosi anni e decenni, era rimasta a lungo nel cassetto delle intenzioni. Eccola, prima che sia troppo tardi.

La frase, pronunciata da Paolo Mietto quasi per caso, è come un pugno allo stomaco: “Ma come, non lo hai saputo? Effe è morto, sono quasi quattro anni, è caduto con il deltaplano...”.
E di colpo mi ritrovo tra ricordi vecchi di decenni. Ma forse dovrei dire brandelli, frammenti di ricordi; da fissare prima che scorrano via definitivamente; prima che il sole dei giorni a venire li sciolga o lo stillicidio lunare li consumi...ricordi che avevamo in comune e che non potremo più confrontare (“ma chea volta al Zemblen, la gavevito fata o no la sicura?”). Ricordi sospesi in una sorta di incontaminata eternità come talvolta le memorie dell’adolescenza. Ricordi di una stagione irripetibile, di quando il mondo era giovane – e noi con lui – e tutto era ancora possibile. Collocati in un periodo non ben definito, alla fine dei sessanta. Sempre d'estate, una breve, eterna estate a cavallo degli anni, apparentemente senza soluzione di continuità.
Ricordi che fatalmente ne hanno evocati altri, facendo emergere dalle nebbie indistinte del passato volti e avvenimenti talvolta scollegati (ma forse sincronici); volti di persone del tutto sconosciute tra loro (Effe e Cianuro non si sono mai nemmeno incontrati) e pur tuttavia legate dal filo sottile della memoria, la mia. Ricordi che non vorrei frammentare, classificare (da una parte la speleologia, dall'altra la militanza etc.), ma che rivendico nella loro totalità, talvolta contraddittoria, con tutte le eventuali connessioni palesi, occulte o presunte.
Penso di non averlo mai chiamato altro che Effe, iniziale-soprannome che si portava incollata sul casco giallo da speleologo militante. La rivedo, scritta in stampatello maiuscolo, nitidamente al momento di entrare nell'antro della Grota dea Guera...e mi rendo conto di non sapere altro di quella giornata. Forse avremo parlato dei niphargus, della saxifraga... Non so.
Ho ripreso in mano vecchie foto che, per il tempo di un attimo, hanno fermato l'inesorabile scorrere del tempo. Foto in grado di rievocare suoni e voci che arrivano “sfocati” da una strana luminescenza ovattata.

Voragine Bedin, 1968 - Effe (Fernando Ruggero)
in risalita su scalette

Lezioni di sopravvivenza

Stiamo pedalando lungo la dorsale dei Colli Berici, verso qualche grotta da scoprire. Effe raccontava di una brutta caduta in bici in cui aveva rischiato di rovinarsi seriamente la schiena a causa dello zaino. Effe aveva quindi adattato con un piccolo gancio una cinghia dello zaino, in modo da poterselo sfilare rapidamente, anche “in volo”.
Precisazione per i non-addetti: all'epoca in grotta si scendeva con scalette di acciaio che venivano trasportate nello zaino. Ovviamente, in caso di caduta, le vertebre erano a rischio. Al contrario, uno zaino pieno di maglioni e giacche a vento ha salvato il sottoscritto scivolato in un canalone qualche anno dopo.
Ricordo che il racconto del suo incidente mi aveva colpito, forse perché prefigurava i rischi annessi e connessi alle attività speleologiche intraprese dal sottoscritto, allora quindicenne, con un entusiasmo quasi infantile e con una buona dose di leggerezza.
Altra “spedizione”, stavolta verso la vecchia cava di Monteviale per allenarsi con le solite scalette (o forse verso le mitiche -e pericolose, sia per i crolli che per le esalazioni- miniere di lignite). Pedaliamo lungo la strada assolata mentre le chiome degli alberi sembrano dilatarsi, respirando, nell'aria immota...
Man mano che ci avviciniamo alla linea dell'alta tensione che scavalca la strada, il ronzio prodotto dai cavi elettrici aumenta, diventa potente... Risento, quasi sommersa dall'inconsueto rumore, la voce di Effe: “Senti, le api...”.

1968 - Effe (con il casco) e Gianni Sartori
in una grotta dei Colli Berici

Speleo-ectoplasmi

L’ultimo collegamento da esplorare è il Tra le foto ritrovate, due sono “autoscatti” realizzati all'interno di una piccola voragine, visitata, presumo, nel 1968.
Alla grotta, situata al di sotto della cantina di una villa ai piedi di Monte Berico, si accedeva attraverso un vero e proprio pozzo, circolare e in muratura. Nella prima foto sembro letteralmente avvolto dalla corda di canapa (di quelle che non si usano più da almeno 40 anni), con una sorta di doppio imbrago che doveva “servire a fare un po’ di scena”. Forse Effe aveva calcolato male l’inquadratura perché risulta in parte tagliato, come se d’improvviso si fosse “affacciato” (ma ora mi vien da dire “apparso”) nella foto. Nell’altra si distinguono soltanto i nostri volti immersi nel buio, ectoplasmi sospesi nelle tenebre carsiche.

Bombe e cioccolata

Spedizione alla voragine dello Zemblen, Altopiano di Asiago. Data presunta, estate 1968.
Con Effe e Angelo, a far da terzo moschettiere, raggiunto in autostop l'Altopiano di Asiago, risaliamo a piedi la strada bianca verso Forte Interrotto tagliando ogni tanto per i boschi. Fissate le scalette ad un paio di faggi vigorosi, scendiamo nell'inesplorata voragine. Prendiamo le misure (per il rilievo) tentando di risalire qualche “fusoide” che ostinatamente cerca di aprirsi un varco verso l'alto, in una spinta ascensionale che un giorno o l’altro sfocerà alla luce eterna, pardon esterna. Ad un certo punto ci rendiamo conto che il fondo della grotta, oltre che di massi crollati e tronchi in putrefazione, è cosparso di bombe, proiettili da mortaio, mine anticarro e antiuomo su cui noi incoscienti stiamo posando gli scarponi e magari smuovendo qualche pietra. Completiamo il rilievo con comprensibile frettolosità e risaliamo “porconando” contro chi, a guerra finita, non ha trovato niente di meglio che liberarsi dei residuati scaricandoli nelle cavità naturale. Riporto per la cronaca che, secondo un recuperante consultato in seguito, potrebbe trattarsi di armamenti nascosti durante una ritirata per non farli cadere in mano nemica. Comunque sia, noi risalimmo rapidi. Già in vista del Bivio Italiano, il cielo si incupiva e ripetuti brontolii annunciavano un temporale estivo in agguato. Correndo a precipizio lungo le scorciatoie, arrivammo in tempo, prima del diluvio, al bar sottostante. Dovendo comunque festeggiare per gli scampati pericoli, Effe ordinò tre cioccolate che, in via del tutto eccezionale, propose di mettere in conto al gruppo speleologico di nostra appartenenza.
Intanto fuori pioveva che Giove pluvio la mandava. Si andava facendo tardi e i due soci decisero di prendere la corriera. Io, all'epoca autostoppista militante, ne facevo una questione di principio. “Par quatro giose” (oddio, magari qualcuna di più) mi appariva disonorevole ricorrere ai mezzi. Attesi ancora, sperando in una tregua umanitaria e poi mi incamminai verso Vicenza, sotto la pioggia battente con il pollice alzato in vista. Rientrare a casa fu un'impresa più impegnativa della discesa nello Zemblen, ma comunque sopravvissi per raccontarlo.

Willy, Cianuro, Cat Stevens, Gianni Ribaldone, I compagni di strada, le sorelle di Effe e qualche rimpianto (Amalfi e dintorni, settembre 1969)

Ero partito in autostop senza una meta precisa, ma con qualche punto di riferimento. Prima tappa, Vigevano. Per rivedere due anarchici (Willy e Cianuro: dove siete compagni?) conosciuti all'annuale marcia pacifista che, partita da Milano, si era conclusa a Vicenza davanti alla caserma “Ederle”. L’incontro era avvenuto a Ponte Alto dove transitavo quotidianamente in bici andando a scaricare nei magazzini della premiata ditta “Polato”. In quel momento i marciatori sostavano in prossimità del cavalcavia e mi avvicinai, incuriosito, a quello che sembrava un “capo indiano”. Alto, faccia larga, capelluto, dall'aria simpatica... Si trattava di Marco Pannella, personaggio destinato a ritagliarsi una certa notorietà nell'universo della politica-spettacolo. Già pericolosamente intossicato da ideologie sovversive e libertarie, gli chiesi se per caso c’era qualcuno dell’Onda Verde, un gruppo milanese di ispirazione anarchica. Me ne aveva parlato l’allora compagno (Pci) Giorgio Bordin, destinato in seguito a calcare le scene. Non ebbi mai modo di verificare, dato che il futuro leader radicale mi scovò un paio di anarchici doc. Willy e Cianuro appunto, due scaveioni dall'aria truce.
Ci eravamo rivisti alla sera quando, dopo il lavoro, mi ero precipitato, pedalando, alla “Ederle” (dall'altra parte della città). La manifestazione era quasi finita e i cellulari sfrecciavano verso la questura riempiti di manifestanti. Molti si erano legati fra loro in una sorta di catena umana, per non essere sollevati di peso uno a uno, rendendo complicata l'operazione di sgombero. Ho ancora un vivissimo ricordo (peccato non aver scattato una foto) dei due compagni in questione sopra una vespa all’inseguimento della lunga fila di cellulari. Cianuro guidava piegato in avanti, camicia svolazzante, mentre Willy, tutto vestito di nero, teneva sollevata e agitava a due mani una bandiera anarchica, dando l’impressione di dover cadere da un momento all'altro. Urlava anche qualcosa che sul momento non compresi...Potrei anche dire di aver visto lo Spirito della Storia transitare a gran velocità per le strade vicentine a cavallo di una vespa. Ma essendo un facchino precario, e non un seguace di Hegel, all'epoca non dissi niente. Provai comunque un’emozione, questo è sicuro. Per la sera era prevista un'altra manifestazione in Piazza dei Signori e, nell'attesa, accompagnai i due a visitare quello che di “rivoluzionario” offriva la bianca (politicamente) cittadina veneta. Peraltro medaglia d’oro alla Resistenza e dove non si erano ancora spenti gli echi della sollevazione del 19 aprile 1968 a Valdagno. Willy si era entusiasmato sentendo di un “Circolo Che Guevara”, ma rimase poi deluso scoprendo che condivideva la sede con il PSIUP. Ci aprì Domenico Buffarini, un romano reduce da Valle Giulia, spedito al Nord dal partito. All’epoca trotzchista, poi socialista, grande esperto degli indiani d’America e altro ancora. Anche se quella volta ci accolse sbrigativamente, i due compagni apprezzarono le bandiera rosso-nere disegnate da alcuni esponenti di passaggio dell’SDS (il movimento di Rudi Dutschke) sul tavolo e sui muri della sede.
Li rividi il giorno dopo, verso mezzogiorno, tornando dal primo turno lavorativo, sulla strada per Verona.
Tornavano all’ovest in autostop e mi lasciarono un recapito per il mese successivo, un campo di lavoro a Vigevano. Qui mi diressi verso la metà di settembre, dopo aver lasciato il buon Toni (vecchio socialista che, mi raccontava, appena rientrato a piedi dalla Russia, venne deportato in Germania) a riempire e svuotare camion e magazzino. Verso sera mi ritrovai nei dintorni di Milano, tra gli svincoli e i cavalcavia dell'autostrada, a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di bivaccare sotto i piloni. Invece, con un ultimo guizzo, arrivai in centro a Vigevano, in tempo per farmi indicare il campo di lavoro e dormire su una comoda branda.
Willy e Cianuro se ne erano già andati. O meglio, erano stati invitati a farlo dopo che i due libertari si erano ripetutamente scontrati con i gestori, cattolici, del campo. Ma avevano lasciato tracce vistose del loro passaggio. La scritta “ANARCHIA” campeggiava un po’ dovunque tra i fabbricati in abbandono dove era insediato il campo. Per un po’ contribuii alla raccolta di ferraglia, vecchi materassi e altri scarti della società opulenta da rivendere utilizzando il ricavato per beneficenza.
Feci conoscenza con uno dei “dirigenti”, un tipo simpatico che sembrava la fotocopia, in formato ridotto, del mio amico Enrico Castaman, fortissimo alpinista e grande medico ortopedico. Colgo l'occasione per esprimergli la mia più profonda gratitudine (e lui sa bene perché).

1971 - Gianni Sartori mentre fuoriesce da una cavità
di Rio Freddo (Prealpi Venete)

Compagni di strada

Quando ripresi il viaggio, percorremmo insieme il tratto fino al casello dell’autostrada, discorrendo animatamente di Dio, della Rivoluzione e di altri Misteri della Fede.
Chissà perché allora c’era quasi sempre qualcuno che mi accompagnava in queste partenze. E a mia volta anch’io ho accompagnato amici e viandanti in viaggio verso qualche Oriente. Si parlava del più e/o del meno, ci si scambiava l'indirizzo, pensando di rivederci con calma...Il mondo era giovane e noi con lui (ma questa l’ho già detta...) e sicuramente avremmo avuto tempo e modo di mettere a posto le tante cose storte che non andavano come avrebbero dovuto. Il più delle volte non ci si rivide e rimane soltanto il ricordo di un tratto di strada percorso insieme. Ben sapendo che la meta era ben altro che un casello autostradale o una stazione...
Per analogia, mi torna in mente un altro tratto di strada calpestato lasciandoci alle spalle il portone della caserma. Polemicamente, presi a fischiettare l’inno di Lotta Continua, forse per darmi un tono, per ribadire la mia identità, momentaneamente espropriata dallo stato. Rimasi alquanto sorpreso quando l’inappuntabile ufficialetto (proletario in divisa?) che ci sorvegliava cominciò a canticchiare “...l'unica cosa che ci rimane è questa nostra vita...”. Scambiammo uno sguardo che valeva il resto della strofe “...allora, compagni, usiamola insieme prima che sia finita...”.
Nonostante il luogo e la situazione non fossero i più indicati, alzai bene in alto il pugno chiuso, senza voltarmi. Era un impegno, un appuntamento per “dopo la presa del Palazzo d’Inverno” (dove, pare, il primo ad entrare potrebbe essere stato un anarchico, forse un marinaio di Kronstadt). Dio buono, poter rimettere insieme tutti quei momenti, quelle persone, quelle speranze...sarebbe una folla, una marcia, un corteo...
Tornando on the road, nei giorni successivi visitai San Marino sotto la pioggia, dormii in un fienile e tornai indietro verso Bologna, dove si era trasferita la famiglia di Effe.
Arrivai sul tardi. Ricordo una interminabile (e per me, provinciale, inedita) teoria di lampioni tra il casello e la città. Gialli e altissimi come non ne avevo mai visti. Percorrendo un’ampia strada del centro presi nota del giardino pubblico dove, in caso di necessità, avrei potuto stendere il sacco a pelo. Effe non c’era, c’era Elle, il fratello alpinista che aveva arrampicato con Gianni Ribaldone.
Mi spiegò che il resto della famiglia era in vacanza ad Amalfi. Oltre a darmi l'indirizzo, mi riempì lo zaino di scatolette e altre cibarie.
Riassumo il resto del viaggio, altrimenti si fa notte. Sostai qualche giorno all'Isolotto di Don Mazzi (Enzo, quello che scriveva sul Manifesto) dormendo in una delle baracche, sotto ad un manifesto di Camilo Torres, il prete guerrigliero ricordato anche dal “Che”. L’ultima sera presi un passaggio da un tipo che avevo conosciuto alle assemblee. Scoprii in viaggio che in realtà era il vicedirettore dell'osservatore Romano, in incognito, inviato a controllare la parrocchia ribelle. La notte dormii in riva la Lago Trasimeno nei pressi (ma lo scoprii il giorno seguente) di un cimitero, tra il gracidare delle rane e il verso di civette e allocchi. All’alba mi ritrovai con un setter inglese che mi leccava la faccia e un cacciatore che, disse, mi aveva scambiato per un cinghiale. Sul momento pensai ad una battuta, ma qualche anno dopo lessi di un saccopelista tedesco fucilato nel sonno da un mattiniero cacciatore all'Isola d’Elba. Si giustificò dicendo di averlo scambiato per un cinghiale.

1968 - Gianni Sartori in risalita in una
voragine dei Colli Berici

Immagini che scorrono

Roma; san Pietro; centinaia di scritte murali; la statua della Pietà non ancora presa a martellate dal pittore surrealista Laslo Tozl (o come cavolo si scrive) il cui gesto iconoclasta verrà elogiato dai situazionisti di Robin Hood, fuoriusciti da Re Nudo; i bufali al pascolo (portati dai longobardi, mi pare); il Vesuvio...
L’emozione nel veder i cartelli stradali indicare Eboli e Battipaglia, luoghi che per ragioni diverse, ma similari, avevano già un posto di rilievo nella mia personale mitologia. Perfino un passaggio da Faenza, il regista di Escalation (ma forse mi confondo con l'anno dopo).
E finalmente venni scaricato al casello di Vietri sul Mare. Era notte e percorsi la strada buia e silenziosa pensando che forse avrei trovato da dormire in stazione. Così avvenne. All’epoca c’era ancora un po’ di tolleranza. La stazioncina era piccola, dormii tranquillamente e il giorno dopo arrivai ad Amalfi. Dopo un paio di settimane sulla strada, dovevo essere in condizioni pietose e il buon Effe mi consigliò per prima cosa di andare a farci un bagno, al mare.
Delle varie grotte amalfitane ne ricordo in particolare una scoperta da Effe e denominata Voragine Ribaldone. Mi spiegò che era stato un raro esempio, all’epoca, di speleologo-alpinista di alto livello in entrambe le attività. Grande amico del fratello di Effe (quello incontrato a Bologna, Elle), Gianni Ribaldone aveva ricevuto una medaglia d’oro al valor civile per una coraggiosa operazione di soccorso in Val Brembana, a Roncobello. Era morto tre anni prima sul canalone Gervasutti (Monte Bianco).
La cavità che ora portava il suo nome si apriva sulle alture soprastanti Amalfi e iniziava con un pozzo naturale che discendemmo con le vecchie, care scalette in acciaio. Mentre mi calavo nel buio ammirai gli inquietanti resti penzolanti di una scaletta in corda e pioli di legno che Effe si era costruito usandola nelle prime esplorazioni. Dopo un periodo di permanenza in grotta, esposto all'umidità, il manufatto si era evidentemente deteriorato e aveva deciso di frantumarsi mentre l’incosciente speleologo scendeva. Me lo raccontò molto tranquillamente, come fosse una cosa normale. Era rotolato sul fondo e se l'era cavata soltanto perché il gradino spezzato era uno degli ultimi. L’ampio salone del fondo si prolungava in varie direzioni. Ricordo un bosco incantato di stalagmiti, colonne sottili come non ne avevo mai viste, alberelli pietrificati tra cui strisciare con attenzione per non spezzarli. Un altro tratto della grotta, un vero scrigno di bianche concrezioni, si percorreva aggrappati alla parete, a qualche metro dal fondo.
Gran parte dei ricordi amalfitani sono legati all'esplorazione di grotte “marine”, una serie di cavità che esplorammo a nuoto, approfittando della bassa marea. Il sottoscritto, per maggiore prudenza, si fece prestare un paio di pinne. Le cavità si aprivano alla base della scogliera e, dopo un tratto iniziale con l'acqua che lambiva il soffitto (talvolta un breve sifone), sfociavano in una spiaggetta sotterranea. La volta si sollevava e potevamo uscire dall'acqua.
Ci fu poi un tentativo infruttuoso di raggiungere Pompei in autostop. Riuscimmo ad arrivare soltanto a Positano dove, ci dissero, stazionava un musicista, un certo Cat Stevens. Scrisse anche qualcosa dedicato proprio a Positano dove si parla di aliscafi.
E una sera mi soffermai più del solito sulla terrazza in penombra con l'avvenente sorella di Effe (le sorelle erano due, peraltro avvenenti entrambe), scambiando confidenze e progettando viaggi a venire. Ad un certo punto arrivò il fratello che, bruscamente, interruppe l'innocente corteggiamento. Dopo altre grotte più o meno anonime, ormai sprofondate in qualche meandro della dimenticanza, venne il momento di ripartire. Quel giorno doveva accompagnare sua madre da qualche parte e ci salutammo in fretta, ripromettendoci di rivederci quanto prima a Bologna. Mi accompagnò fuori dal paese, per indicarmi il luogo più indicato per l'autostop, l'amico amalfitano di Effe che in quei giorni aveva condiviso le nostre esplorazioni ipogee. Altro tratto di strada da percorrere insieme, parlando dei futuri progetti, delle grotte ancora da esplorare (“con più calma, con più tempo”) l’anno prossimo...che però non venne mai. In realtà l'anno dopo ripassai da quelle parti (sempre in autostop), diretto in Sicilia per ammirare in diretta un'eruzione dell'Etna. Avevo pensato di fermarmi al ritorno, ma rimasto senza una lira, beccai un passaggio da Salerno a Roma proseguendo direttamente verso casa.

Vicenza, 1968 - Gianni Sartori al ritorno dal
viaggio in autostop ad Amalfi

Ricominciò a piovere

Rividi un’ultima volta Effe nel 1971, primo centenario della Comune. Lo ricordo bene perché i muri di Bologna erano ancora ricoperti di manifesti che ricordavano la grande rivolta del proletariato parigino. C’era anche una scritta gravida di speranze: “1981, La Comune; 1921: Kronstadt: 1971...?
Rimasta, purtroppo, senza risposte di eguale portata.
Per l’occasione avevo coinvolto Tiziano (detto el biondo, in riferimento al “buono” del film di Sergio Leone), compagno e speleologo vicentino. Le sorelle di Effe erano cresciute e mi raccontarono di viaggi ben più esotici. Una sera ci offrirono il gelato in Piazza Maggiore, ma non ricordo “zingari felici”, solo turisti. Ancora troppo presto, forse, per il ‘77.
Ci fu anche un risvolto speleo, se pur mancato. Una sera partecipammo, invitati, ad una riunione del gruppo speleologico bolognese che il giorno successivo doveva compiere l’ennesima esplorazione del mitico Corchia. Effe garantì per noi (in realtà molto meno convinti) e quella notte, sulla brandina da campo, meditai a lungo prima di potermi addormentare. Le storie che avevo sentito non erano erano certo rassicuranti. Ma un provvidenziale nubifragio rese il progetto irrealizzabile. Persi così la mia prima e ultima occasione di visitare l'antro famoso e famigerato. Quel giorno decidemmo di togliere il disturbo, ripromettendoci comunque di rivederci quanto prima. Fu un viaggio di ritorno particolarmente sfigato. Alla sera eravamo ancora dalle parti di Rovigo. Ricominciò a piovere e ci dirigemmo verso la stazione sperando di potervi pernottare, ma i tempi stavano cambiando (e non nel senso da noi auspicato) ed essendo senza biglietto venimmo scacciati fuori, alla pioggia. Dormimmo riparati alla meno peggio (praticamente solo dalla cintola in su) sotto una mini-tettoria. Il giorno dopo i sacchi a pelo erano “bombi” e noi pure. Quanto a Effe, non lo rividi più.
È tutto. Troppo poco forse per un'amicizia che non considero retorico definire profonda (e non sto pensando alla speleologia, anche se l'ironia è fuori luogo), ma il tempo passa e (in questo non è galantuomo) gioca brutti scherzi alla memoria. Ho voluto scrivere per non dimenticare anche questo poco. Dovunque tu sia ora, sui picchi desolati di un aspro pianeta oltre Sirio e Andromeda, nei meandri sotterranei dell'inesplorato sistema carsico di una qualche Ade parallelo o tre le nuvole iridate di futuri ancora impensati... Hasta luego, Fernando.

Gianni Sartori