rivista anarchica
anno 41 n. 367
dicembre 2011 - gennaio 2012


antimilitarismo

C’è chi disse no
di Chiara Lalli

Un capitolo del suo nuovo libro sull'obiezione di coscienza è dedicato all'obiezione "totale". Con intervista all'anarchico Agostino Manni, che alla chiamata di leva rispose semplicemente "Signornò".


Mi hanno denunciato perché non ho fatto il cubo”.
Nell’Antigone di Jean Anouilh, Creonte prova in tutti i modi a salvare la nipote: “Allora, ascolta: tornatene a casa, mettiti a dormire, dì che sei malata, che non sei uscita da ieri. La nutrice confermerà le tue parole. Io farò sparire quei tre uomini”. Creonte vuole sì ripristinare l’ordine a Tebe, ma non è un sanguinario assetato di vite umane e vorrebbe salvare la nipote. “Sei troppo magra. Ingrassa un po’, piuttosto, e fai un bel figlio pasciuto per Emone. Tebe ha bisogno di ben altro che della tua morte, te lo assicuro (1)”.
Antigone non vuole accettare questa soluzione di compromesso, non vuole comprare il silenzio delle guardie quasi a rinnegare il suo gesto. Non basta il richiamo all’amore per Emone, alla sua giovinezza, al suo futuro. “Quale sarebbe mai la mia felicità? Quale donna felice potrebbe diventare la piccola Antigone? [...] Dimmi, a chi dovrà mentire, a chi sorridere, a chi vendersi? Chi dovrà lasciar morire girando lo sguardo altrove? (2)”. Antigone continua a dire che no, non rinnega la sua scelta e che no, non avrebbe potuto lasciare che il corpo dell’amato fratello fosse divorato da cani e sparvieri. Di fronte a questo insistente rifiuto Creonte non può nulla. La legge non ammette eccezioni, soprattutto se i colpevoli non vogliono collaborare e rivendicano la violazione compiuta.
È difficile non sperare che vada a finire diversamente, che Antigone decida di salvarsi o che Creonte si renda conto dell’eccessiva durezza della punizione prima che sia troppo tardi. Chissà se c’entra anche il fatto che il comportamento di Antigone ci spinga a domandarci: che avremmo fatto al suo posto? Va bene, Antigone non esiste ma esistono molte storie di persone in carne e ossa che ce la ricordano. Quella domanda (“che avremmo fatto noi?”) si presenta ogni volta che qualcuno sceglie di agire contro il proprio interesse personale in senso stretto, rinunciando a una vita comoda, alla libertà, alla vita.
Mi hanno sempre affascinato i racconti di quelli che avevano rifiutato di arruolarsi, anche se non mi sono mai sentita all’altezza di quanti hanno deciso di non scappare, ma di affrontare le conseguenze della propria scelta. Che avreste fatto voi?
Molti anni dopo ho saputo che li chiamavano obiettori di coscienza. Erano quelli che si sono rifiutati di prestare il servizio militare prima del 1972 (3) e quelli che non hanno accettato, dal 1972 in poi, la possibilità di barattare il servizio di leva con quello civile. Questi obiettori sono i veri obiettori nel senso che erano quelli che si sono opposti a un obbligo (la leva) e hanno pagato il prezzo per la loro opposizione (il carcere). Sono gli unici a poter essere chiamati propriamente obiettori di coscienza. Somigliano ad Antigone. Come Antigone hanno scelto di violare la legge e non si sono sottratti alla conseguente punizione.
Di obiezione di coscienza alla leva non si parla più perché è una storia vecchia. È finita con l’eliminazione della coscrizione nel 2005. A pensarci fa impressione che si usi lo stesso termine quando si parla, oggi, dei medici che non vogliono eseguire le interruzioni di gravidanza o prescrivere un farmaco, e li si immagina seduti alla loro scrivania che spiegano che la coscienza impedisce loro di agire. Non pagano nulla e non rischiano nulla. Ti fanno immaginare una fine diversa della tragedia. Antigone che se ne torna a casa e alla vita di prima perché Creonte ha cambiato l’editto per salvare la nipote, vi ha inserito una clausola di coscienza ad hoc che incrina il divieto. Avrebbe un gusto molto amaro questa versione riadattata in chiave familista.
Ho cercato gli obiettori che avrebbero potuto raccontarmi la loro storia simile a quella di Antigone.
Sono andata a parlare con Paolo Finzi, nella sede milanese di A rivista anarchica. Due nomi mi hanno colpito: Agostino Manni, che viveva da anni in una comune libertaria in Salento, e Franco Pasello, che stava a Milano e distribuiva volantini anarchici in piazza Cadorna un volta alla settimana.
Ho deciso di cominciare con Agostino, obiettore totale (4). Ho chiesto ad Agostino Manni di raccontarmi la sua storia e mentre parlavamo di carceri e di disciplina militare ho seguito, seppure da lontano, la vita della comune che ha fondato nel 1995 insieme ad altri: la cucina, le feste, la vendemmia, i bambini che nascono e i compagni che muoiono. In autunno è morto Franco Pasello, che ormai avrei conosciuto solo attraverso i racconti di chi lo aveva incontrato. Questa è la storia di Agostino Manni, renitente alla leva.

La copertina di “A” n° 40 - settembre 1975

E allora scattava l’insubordinazione

“La nostra non era una forma di obiezione di coscienza, la chiamavano così, perché il tipo di reato che configuravano stava all’interno del pacchetto di legge 772 dal 1972 in poi. In quella legge si riconosceva l’alternativa al servizio di leva da scontarsi - volutamente uso questo termine carcerario - in ambienti civili, ma per molti versi non era affatto diverso dal fare il militare in condizioni appena diverse.
Io ho condiviso il carcere con colleghi obiettori di coscienza - cioè persone cui era stato riconosciuto il diritto di non usare le armi. All’inizio era questa la rivendicazione: non il rifiuto dell’esercito come sistema, ma il rifiuto dell’uso delle armi.
Era un discorso più vago della guerra guerreggiata, o di quello di preparazione alla guerra.
Noi come anarchici la guerra che combattevamo era quella sociale, non eravamo pacifisti. Il nostro approccio era completamente diverso. Eravamo contro un sistema, e quella contrarietà in quel momento passava per il rifiuto della coscrizione, ma non finiva lì e non cominciava lì.
Io tuttora sono un non sottomesso. Ecco il nostro termine: non sottomessi. Loro ci chiamavano obiettori totali, o meglio questo era il termine che usavano alcuni giornali. Giuridicamente eravamo renitenti alla leva, mancanti alla chiamata. Ti arrestavano con questa imputazione, dopo l’arresto ti processavano.
Una volta che ti processavano, con il tuo avvocato e le tue dichiarazioni connotavi politicamente il tuo gesto. La dichiarazione di obiezione totale era cruciale, perché in mancanza di quella il rischio era che il reato rimanesse quello configurato da loro - renitenza appunto. La differenza era che in questo caso ti facevi il carcere e poi ti rimandavano la cartolina. Se invece riconoscevano le tue motivazione ti configuravano all’interno della 772 e quindi diventavi obiettore: l’espiazione della pena si sottraeva al tempo previsto per il servizio civile, non ti rimandavano la cartolina all’infinito.
La prima volta che mi hanno arrestato era il 1988. Quando a 18 anni ho ricevuto la cartolina per i 3 giorni stavo per non andare nemmeno alla visita. Poi sono andato. Ho subito questi giorni di prove, la visita. Ho rinviato per via dell’università fino quando, credo, non fosse più rinviabile. A quel punto mi è arrivata la cartolina. Ho mandato le mie motivazioni di renitenza alle varie istituzioni.
Sono passati 7 mesi – mesi di latitanza, anche se non me ne stavo nascosto ma andavo in giro per tutta Italia a fare conferenze e dibattiti all’interno del movimento anarchico.
Mi hanno acchiappato a Milano e trasferito a Bari perché dovevo presentarmi a Taranto, sono stato un paio di mesi lì, poi mi hanno mandato a finire la detenzione a Santa Maria Capua Vetere. Ho scontato il primo anno di condanna (10 mesi qui, più i due passati a Bari).
Eravamo giudicati da tribunali militari, come tutti quelli che protestavano. Allora c’erano anche quelli che si autoriducevano la coscrizione oppure si autotrasferivano. Il servizio civile era punitivo: invece dei 12 mesi erano 18 di servizio, come all’inizio per i marinai. Alcuni per protesta si autoriducevano il tempo e scaduto l’anno si consideravano a posto. Invece decadevano dallo status di obiettori e gli arrivava di nuovo la cartolina... Stessa sorte per gli autotraferiti. Spesso questi erano quelli che punitivamente venivano sbattuti in qualche luogo sperduto, lontanissimo da casa.
Oppure quelli che venivano mandati a fare servizi al di sotto delle competenze professionali, come i medici mandati a fare gli spazzini.
Cambiavano polemicamente città oppure area di destinazione e tutti decadevano dallo status di obiettori. Erano ben coraggiosi perché magari dopo 12 mesi di servizio civile ricominciavano da capo con la cartolina.
Un assurdo che riguardava anche gli obiettori totali politicizzati perché ci giudicavano i militari e scontavamo la pena in carceri militari. Appena entravi cominciavano i soprusi: primo tra questi l’imposizione della divisa militare, una cosa ridicola. Ora mi viene da ridere ma mi ha esaurito per tre anni ’sta storia. Qualche compagno ha fatto tre anni di carcere, te la imponevano. Era una divisa normalissima ma senza stellette in segno di dispregio. Di degrado.
Naturalmente essendo obiettori totali la rifiutavamo, e allora scattava l’insubordinazione, ti processavano e l’insubordinazione diventava una condanna che si aggiungeva alla precedente in un circolo vizioso. Uscivi di galera e dopo 2 mesi ti arrestavano di nuovo per scontare qualche altra condanna rimasta in sospeso. Come rientravi ti rimponevano ’sta cazzo di divisa e tutto ricominciava. O ti chiedevano di fare il famoso cubo. La mattina i militari non rassettano il proprio letto ma devono fare un cubo, con coperte e tutto il resto. Una cosa ordinatissima. Poi prima di andare a letto lo riaprono. E loro pretendevano che lo facessimo anche noi. Mi hanno denunciato perché non ho fatto il cubo.
O perché il mio armadietto era tappezzato con foto e cartone: mi hanno detto che dovevano essere tutti uguali e spersonalizzati. Io mi sono opposto fisicamente e mi hanno fatto un’altra denuncia.
O perché non volevo pulire gli spazi comuni. Questa era la spirale delle condanne, che nel mio caso mi ha fatto scontare un altro mesetto dopo che ero uscito. Poi finalmente nel 1993 una amnistia ha posto fine a questo.
Altrimenti sarei stato ancora lì a litigare.

La copertina di “A” n° 128 - maggio 1985

Carcere

Sono stato arrestato e portato a San Vittore, ho fatto quindi anche l’esperienza del carcere civile.
Ero un ragazzino e sarei dovuto stare in isolamento, invece mi hanno portato nel quinto raggio in mezzo a quelli accusati di tentato omicidio...
All’epoca dicevo che ci avrei messo la firma a stare al civile, almeno non ti rompevano le scatole mentre al militare era un tortura continua con la storia della divisa e della disciplina.
Era positiva come situazione perché non mi annoiavo, in carcere il rischio è che non passi mai il tempo. Io invece mi divertivo tantissimo, organizzavo manifestazioni. Poi un giorno è cambiato il comandante e quello nuovo si era messo in testa di fare l’alzabandiera con i megafoni e l’altoparlante ogni mattina. Suonava la tromba a inizio giornata e la sera la ritirata. Ovviamente io mi incazzavo e tiravo fuori le bandiere con scritte tipo: “quest’anno l’esercito ha ammazzato x civili”. Dentro la camerata. Mi tenevano in isolamento, ho anche fatto lo sciopero della fame.
L’inedia certo non l’ho patita. C’era un continuo stare all’erta – per usare una loro espressione.
Perché non me ne facevano passare una.
Prima di entrare in carcere avevo paura, ma siccome conoscevo tanti altri compagni e me l’ero fatto raccontare, avevo capito che non avremmo rischiato di essere maltrattati per vari motivi. In parte perché i carceri militari erano più simili a dei conventi che a dei carceri nel vero senso della parola.
L’80% dei detenuti erano testimoni di Geova che rifiutavano il servizio: non potevano definirsi antimilitaristi perché la loro motivazione era che già militavano in un esercito, quello di Cristo, e non potevano tradire il loro generale – Geova – per lo Stato italiano.
Succubi della direzione, trattati come schiavi, facevano di tutto. Per religione non potevano protestare. Erano totalmente passivi.
Avevano organi interni che vigilavano, cioè alcuni fratelli delegati a essere sorveglianti della cella che controllavano i giornali e decidevano cosa si poteva leggere: facevano una censura fisica sui giornale per esempio su argomenti sessuali, ritagliavano le pagine o le riempivano di fascette nere tipo censura. Un taglia e incolla manuale! Era divertente assistere a questo, ma anche molto mortificante. In un periodo siamo stati in 11 in cella e io ero l’unico a non essere testimone di Geova. Erano ragazzini, il più grande aveva 20 anni, erano invasati, facevano le prove in cella di quando sarebbero usciti e avrebbero contattato la gente per convincere i proseliti, facevano i teatrini di bussare alla porta e tutto il resto. Si addestravano. Le uniche situazioni conflittuali le mettevano in atto noi, oppure i detenuti comuni (5). Persone che spesso non sapevano né leggere né scrivere e che subivano batoste giudiziarie ad ogni minima insubordinazione. Io in carcere ho scritto molto cercando di mandare fuori più informazioni possibili.
Alcuni dei comuni mi chiedevano di scrivere le lettere per le mogli o le compagne. Lettere in cui mi dettavano anche dettagli intimi. Io a un certo punto ho detto loro “stiamo qua e abbiamo un sacco di tempo, ora vi insegno a scrivere così poi la lettera te la puoi scrivere da solo”. Invece che mortificarti a dettarmela, pensavo.
Abbiamo chiesto una aula che non era usata a un capitano particolarmente ben disposto, e “la scuola” ha preso quasi un aspetto ufficiale.
In quell’anno ho trovato un sostegno impressionante. Quando ero a Bari i caporali, dopo un primo impatto iniziale di diffidenza, sono stati molto solidali. Magari all’inizio erano anche spaventati; io ero più grande e più preparato di loro, i secondini erano molto giovani. Mi strappavano i manifesti in giro per la città e me li portavano in carcere. Alcuni di loro mi hanno cercato dopo.
Noi eravamo politicamente abbastanza coperti e protetti. Nessuno ci faceva del male. C’erano interrogazioni parlamentari e varie manifestazioni di solidarietà. All’epoca poi convivevo con una ragazza che faceva l’avvocato.
Non avrebbero osato.
C’erano anche alcune forme di protesta, come la pentola a pressione piena di dinamite lasciata davanti al tribunale di Roma.
Nessuno mi ha messo le mani addosso, né ad altri compagni.
Non era un ambiente violento, non avevano nemmeno interesse a danneggiarci, cercavano di contenere l’eccesso del casino, di non far parlare troppo di questa storia. Michele Serra ne scrisse su l’Unità. Cominciavano le denunce.
Più che la mia mi preoccupava la condizione dei comuni. Scrivevo molto su di loro. Per uno schiaffo a un capitano perché non volevano tornare in cella, magari perché volevano finire di vedere una partita o un film, si sono beccati sette anni di carcere e se li sono fatti.
“Quelli della rivolta” li chiamavano a Bari. Poi a Santa Maria li ho conosciuti.
A me non mi hanno mai messo in cella con un comune, chissà cosa temevano. Solo due capodanni.
O l’ora d’aria, ma la notte mai. Scrivendo per loro le lettere ho scoperto cosa fosse successo. Era una banda, tutti civili, ex spacciatori, ladri, cose così, ragazzi di quartieri popolari di Bari che si arrangiavano. Facevano gli sbruffoni in carcere militare. Una sera non sono rientrati dalla sala tv in cella, è partito un alterco e qualche ceffone a un capitano. Si sono impuntati per fargliela pagare. La lista dei reati che secondo la corte avrebbero commesso ti metteva paura. Sembrava che avessero messo a ferro e fuoco il carcere. In realtà ho scoperto che era poco più di un litigio. E per questo litigio alcuni di loro hanno passato 7 anni in carcere, 4 e mezzo, 6. Dipendeva dall’atteggiamento dimostrato poi in carcere. La cattiveria dei militari.
Il mio obiettivo principale è cambiare il mondo e la prima cosa è capire come cambiare la testa delle persone.
Nel mio caso specifico, quando mi adulavano sottolineando il carattere eroico della mia scelta, io cercavo di spiegare che non c’entrava l’eroismo – e non era falsa modestia – in realtà avevo scelto la strada più facile per me. L’alternativa – un anno di servizio militare – non era per me. Non sarei mai uscito fuori vivo e integro per come ero fatto io, per le mie idee e i miei desideri e i modi di relazionarmi con la gente. Non avrei potuto fare diversamente. Se fossi entrato in caserma avrei fatto scelte drastiche e quelle conseguenze le avrei pagate molto duramente, molto più del carcere.
È stata quasi una scelta di convenienza.
Non è quasi nemmeno una questione di scelta, è stato automatico. Come fare diversamente? Io non avevo alternativa.
Quando le persone trovano scusanti lo fanno principalmente per due motivi, a seconda delle categorie sociali. O lo fanno per convenienza, ti prendono per il culo e adducono scuse perverse perché non vogliono dire esplicitamente “faccio così perché mi conviene, ci sto guadagnando soldi o comodità ma gli altri pagano”. E magari pensano anche “chissenefrega”.

La copertina di “A” n° 153 - marzo 1988

Secondo me, è matto chi...

L’altra e più diffusa e che apre lo spazio al nostro intervento - nel primo caso l’unico spazio è da parte di chi subisce le conseguenze - è l’ignoranza. Le persone non si rendono conto, hanno percezioni errate. Se ogni ragazzo a 18 anni avesse avuto le informazioni e le motivazioni che avevo io per decidere di non fare il militare, sapendo le conseguenze dell’anno di caserma e confrontandole con il carcere, le contraddizioni, il trattamento da schiavo, da suddito, la condanna a subire, credo che molte più persone avrebbero fatto la mia stessa scelta. Come l’ho vissuto io il carcere sarebbe stato preferibile per molti. Si ha paura spesso perché non si conosce.
Non hai la sofferenza della contraddizione. Quando ho messo in piedi la comune in tanti ci hanno dato dei matti. Ma secondo me è matto chi se ne sta a lavorare sotto un capetto in una fabbrica per anni e anni.
Oggi gli obiettori di coscienza passano per essere minoranze offese e, invece, sono il massimo del privilegio di una casta. Questi meccanismi possono funzionare solo con l’ignoranza. Quindi oggi quando si pensa all’obiettore si pensa a un povero cristo che non è garantito dal punto di vista professionale, molti magari immaginano che possano perdere il lavoro per avere idee particolari.
Chi conosce come stanno le cose non cade in un simile tranello. Mi viene da ridere, sarebbe divertente se non fosse drammatico”.

Chiara Lalli

Note

  1. 1 P. 69 e p. 74.
  2. Jean Anouilh, Antigone, p. 99.
  3. Questo in Italia. Il fenomeno esiste in tutto il mondo e include il rifiuto di eseguire ordini considerati ingiusti e l’opposizione a guerre considerate ingiustificabili. Si pensi al Vietnam o all’Iraq. Nel 2002 Brandon Hugey decide di arruolarsi. Ha 17 anni ed è l’unico modo per frequentare il college. L’anno seguente gli Stati Uniti attaccano preventivamente l’Iraq e Hugey si rifugia in Canada. “I had asked my superiors at Ft. Hood on more than one occasion to grant me a discharge from the military, but they refused saying it was not my choice. I was never informed on any route I could take to leave the military, such as applying for conscientious objector status. I had promised myself that under no circumstances would I allow myself to become complicit in the illegal occupation of Iraq. No contract or enlistment oath can be used as an excuse to participate in acts of aggression or crimes against humanity. According to the Nurenburg Tribunal, which was adopted by the U.N. as law, a soldier has the responsibility to refuse an order that he knows to be wrong. Based on this law, I refused my order to deploy to Iraq, and came to Canada with the help of Carl Rising-Moore, a Vietnam-era veteran and peace activist. I will not allow myself to face persecution by the U.S. government for following the higher international and moral law” (http://www.brandonhughey.com).
  4. Sarà lo stesso Agostino Manni a commentare questa espressione.
  5. Scrive Agostino Manni nella introduzione di Se i giorni erano muri di Michele De Sabato, Senzapatria, 1990 “non so bene il perché – le autorità carcerarie si ostinano a chiamar[li] i “comuni”.
    Non riesco a pensare a questi ragazzi senza un moto di rabbia: li chiamavo “compagni”, quando stavo in galera, ma solo perché non riuscivo a chiamarli “fratelli”. Ma li amavo così, come si ama chi ha un sangue non diverso dal tuo, come si soffre per uno che è figlio della tua stessa madre, e per il quale daresti la vita.
    Non riesco a spiegare il perché. A parte le sbarre, a parte la gabbia non avevo molte cose in comune con loro: non la miseria, che io ho scoperto solo a vent’anni; non l’istruzione, non la cultura, che è un privilegio che loro non hanno mai avuto; non la solitudine, che oltretutto è soltanto uno stato interiore; e neanche la fede in una grande utopia, che alle volte riusciva difficile persino chiamare per nome.
    Non avevo molte cose in comune con loro; a parte le sbarre, a parte la rabbia per la mia condizione, a parte il disprezzo per chi ci stava rubando la vita, a parte una massa incredibile d’odio che sentivo crescermi dentro e che capivo non essere di altra natura da ciò che li faceva continuamente fumare, e stringere i pugni, e alzare la voce, e non trovare mai pace, alle volte, nemmeno nel sonno”. Michele De Sabato ha passato 7 anni in carcere.