rivista anarchica
anno 42 n. 369
marzo 2012


 

Il cinema gnostico
di Artur Aristakisjan

Artur Aristakisjan, cineasta moldavo di origini armene, ha girato nella sua vita due soli film, due opere assolutamente radicali sorte per effetto della lunghissima gestazione di esperienze personali ai limiti della follia e nel principio di un’estetica irrispettosamente perentoria. Cineasta artaudiano di un cinema dell’esplorazione viscerale sui corpi e del confine dell’(ir)rapresentabile, Aristakisjan esordisce nel 1995 con l’impervio Ladoni, suo film di diploma alla gloriosa scuola di cinema di Mosca, la VGIK. Programmaticamente diviso in 10 capitoli e ambientato tra i mendicanti della città di Kishinev, il film analizza la crisi successiva alla caduta dell’Unione Sovietica attraverso una lettera che il narratore rivolge al figlio non ancora nato augurandosi che egli diventi un mendicante per accogliere quello spirito che sta abbandonando la terra; da qui si dipartono le numerose storie di mendicanti ed “emarginati che si interrogano sui meccanismi dell’esclusione sociale”. Per 4 anni Aristakisjan ha filmato l’esistenza miserabile di personaggi autentici (malati di mente, epilettici, storpi) convivendo con loro, condividendo la loro disperazione, scandendo il tempo della loro amicizia. Per mezzo del racconto trasmesso dagli stessi emarginati, il regista attua una complessa meditazione politica, enigmatica e indiretta, sul conflitto fra il Sistema delle cose e lo Spirito dell’uomo, restituendone poeticamente il suo archetipo insanato. I marginali di Aristakisjan esprimono la purezza rovesciata dei loro corpi nudi, così semplicemente scoperti, delle loro tare e della loro fratellanza embrionale, un universo di volti primitivi che non rappresentano il confine della natura ma esistono come natura stessa del confine.
Lo sguardo del regista abdica al formalismo della calligrafia e all’artificio tecnico in favore di un linguaggio primitivo (ma con una fotografia in bianco e nero assai suggestiva) capace di rilevare grandemente la corruzione del Sistema e l’ascesi dello Spirito di questi emarginati, avendo per loro non uno sguardo di pietosa aderenza ma di autentica complicità contro la regola inumana della desacralizzazione del quotidiano che annienta la vita e aliena lo spirito sino a farne materia. Così i diseredati, la massa miserabile degli ultimi, diventano i profeti della rinascita, le icone della libertà, i simboli di una liberazione il cui sacro non è altro che il cammino della loro umiltà, quella divinità di pura luce che sanno comprendere solamente i ciechi.
Mesto na zemle, secondo film di Aristakisjan, giunge dopo sei anni di operoso silenzio e la dura esperienza all’interno di una comune.
Il film racconta le vicende di una comunità singolare che si può ricollegare ai movimenti spontanei, agli ambienti di ispirazione hippy, come pure alle primordiali comunità religiose. Il gruppo vive in un diroccato edificio abbandonato moscovita, con l’idea di dare tutto a tutti, amore compreso, principalmente ai più diseredati, emarginati e ai senza casa della metropoli. Il fondatore della comunità è un personaggio fortemente carismatico con una visione sociale estrema, un po’ profeta un po’ predicatore. L’uomo si rivela nel corso della vicenda piuttosto ambiguo; sebbene ispirato da ideali apparentemente di condivisione totale, di risorse materiali ed affettive, e senza alcun tipo di limitazione o inibizione, soffre della perdita di autorità e non riesce a rimanere coerente con i principi da lui stesso propugnati. Questo avviene per una sua infatuazione nei confronti di una frequentatrice della comunità, ma di estrazione sociale assolutamente disomogenea dal resto del gruppo, e che diverrà sua compagna prediletta. La cosa, per la reazione autopunitiva del mistico, avrà conseguenze drammatiche, su di sé e sul futuro comune di tutti gli altri.
Parabola totalmente gnostica che narra il tentativo di costruzione di una corpo comunitario fondato sul reciproco dono e sulla regressione allo stato di natura, il film trae origine nella sua sceneggiatura proprio dall’esperienza concreta di Aristakisjan che ha ricondotto ad un generico canovaccio i turbamenti e le suggestioni di un ideale di vita spontaneo. Il modello del dono assoluto di sé si fa tremendamente radicale fino quasi ad assurgere ad esperienza religiosa, una mimesi cristologica che adopera i simboli della religiosità tradizionale (la natalità, la comunione, l’eucarestia, il tradimento) in funzione di una radiografia impietosa dei meccanismi di magnetismo esistenziale e di condizionamento morale votati alle conseguenze fatali dell’autodistruzione. Il capo carismatico della comunità, un cristo predicante che offre il proprio sesso agli storpi e ai disperati (dunque a coloro che iconicamente rappresentano la trasgressione al principio dell’ordine del corpo), finirà però per perdere la sua autorità per effetto di un radicalismo inautentico, incapace di rendere in pratica l’estremismo del suo pensiero, così che i fedeli non potranno che uscire di senno o riconquistare la normalità. Il film prosegue il discorso di Ladoni mostrando l’impossibilità della rivoluzione spirituale degli emarginati che non passi da una totale rinuncia di sé, quel fine sacro dell’ascesi assoluta che è l’abdicazione all’egoismo umano.
Così la comunità di Aristakisjan, pure se lungi dal socialismo totale dello spossessamento di sé per gli altri, non analizza solamente il momento utopico dei diseredati e degli ultimi ma attraverso il loro tentativo di rovesciamento della prassi getta uno sguardo crudele sui processi di alienazione e reificazione di una società distopica e totalitaria, volta al controllo sociale e alla perpetuazione dei meccanismi di esclusione, che, risemantizzati politicamente in funzione persuasiva, operano alla segregazione fisica e culturale del popolo degli ultimi, quei diversi che repressi ed emarginati non potranno che assurgere a voce totalmente altra dal sistema irreggimentato della tirannia degli antivalori borghesi. Lo gnosticismo paleocristiano di Aristakisjan, essenzialmente mistico, si compie nella rappresentazione estrema del corpo: un corpo umiliato, osceno, mostruosamente deficitario e malato, un corpo che simbolicamente è il precipitato dell’estetica cristologica del regista, assai vicino al cinema di Pasolini nell’attingere alla bellezza rovesciata della passione e all’inquietudine sessualmente macerata degli esclusi. La rappresentazione di Aristakisjan è così l’irrappresentabilità dei rituali corrotti e disgustanti del sesso e della castrazione, il limite estremo e iconoclasta dell’immagine debordiana fino al nulla come rifiuto totale del consumo e dello spettacolo, il principio artaudiano della crudeltà e “dell’emersione dello spettatore interiore” che linguisticamente Aristakisjan realizza con una fotografia in bianco e nero contrastatissima, con una progressione nervosamente drammatica del dispositivo narrativo, con inquadrature simboliche e di violenta colluttazione iconica, con un’ambientazione desolata e surreale che atterrisce nel profondo stupore della poesia, quel senso panico delle cose che rende muti sul ciglio spaventoso del nulla.

Beniamino Biondi

 

Un rapporto
complesso

L’olio da una parte l’aceto dall’altra. La santità su un versante la dannazione sull’altro. Cristianesimo ed Anarchismo sono istanze che nel corso della storia (negli ultimi due secoli) hanno camminato separatamente, tanto per l’avversione della Chiesa verso l’anarchia, vista nella “voce-oppositore” ad ogni forma di organizzazione governativa ed istituzionale, quanto per l’insofferenza del movimentismo libertario nei confronti di chi si rimette al credo e alla volontà di entità superiore. Ma davvero questo due spazi del pensiero (e dell’anima) sono così incompatibili da pensar che mai si possano rimuovere gli steccati per consentire spiragli di avvicinamento? Se si va sulle pagine di Murray Bookchin, Vernard Eller o Henri Barbusse si può scoprire come le distanze non siano del tutto incolmabili, anzi c’è anche chi fra gli studiosi sopramenzionati individua l’origine del pensiero libertario nel libro dei libri o presenta Cristo nel precursore del socialismo quanto dell’anarchismo.
Ma sul tema di recente è stato ristampato dalla casa editrice Elèuthera un breve ed interessante saggio Anarchia e Cristianesimo (pagg. 125, euro 10,00) di Jacques Ellul (1912-1994), sociologo e teologo, rappresentante della Chiesa Riformata (dunque credente) nonché una delle menti più eccelse e critiche del pensiero del Novecento. Sullo sfondo dello studio di Ellul non si annida alcun intendo o “desiderio di convertire nessuno”, però viene indicato la rintracciabile delle ipotesi millenarie della cristianità nell’anarchismo e la sintonia dei fermenti libertari all’originario messaggio di Cristo di stare dalla parte dei deboli e del rifiuto di un’autorità opprimente.
Ellul non vuol dimostrare nessun accorpamento di una religione in un pensiero politico o viceversa, ma precisa come il primo cristianesimo, alla stregua dell’anarchia, non immette obblighi e doveri ma lascia la vita libera. E non a caso San Paolo in una lettera ai Corinzi esortava: “È per la libertà che siete stati affrancati”, mentre San Giacomo predicava: “La legge perfetta è la legge della libertà”… Ellul, però, prova ad essere ancora più persuasivo nel voler tentare di arginare lo strappo tra le due prospettive (umanistiche) quando afferma che l’anarchismo può aiutare i cristiani a guardare la realtà delle nostre società da un punto diverso da quello dominante, oppure invita a tenere vive le testimonianze di Fra Dolcino o San Francesco, i quali con lo loro esperienza hanno tentato di liberare Cristo dal cristianesimo e la Chiesa dalle malsane pastoie.
Nella postfazione don Andrea Gallo scrive :”Mi sembra che il Dio di cui parla Ellul possa in qualche modo essere assimilabile al Dio di Gesù. Almeno a quel Dio che, stando, ai testi, e forse ormai dopo un migliaio di anni di storiografia emerge da quelle interpretazioni…”.

Mimmo Mastrangelo

 

Gli angeli
ribelli

L’ultimo libro di Stefano Benni, La traccia dell’angelo (Sellerio 2011), è una storia sull’eterna lotta tra il bene e il male e un racconto sul dolore. Costellato di presenze angeliche, ma si tratta di angeli sporchi perché capaci di mettere le mani sulle ferite degli uomini, ci porta dentro l’inferno della dipendenza dai farmaci con la scrittura del Benni più poetico e amaro. Sembra di scorgervi tracce autobiografiche, ma al di là di tutto è il miglior Benni degli ultimi anni che riporta alla memoria Elianto uno dei libri che, nel lontano 1996, riuscì a raggiungere anche chi era perduto nel cortocircuito della merce.
Morfeo, il protagonista di questo breve romanzo, è fin dal nome un designato. Vittima di un incidente domestico quando è bambino, cresce con diagnosi mediche incerte che lo renderanno schiavo dei farmaci. I suoi tentativi di uscire dalla dipendenza rivelano il mondo intorno a lui, i medici, i congiunti e gli altri pazienti, come in un bianco e nero. È l’eterna lotta tra chi cerca il bene, per e negli uomini, e chi coglie ogni occasione per porsi nella distanza indifferente per cui la malattia altrui diventa occasione di carriera e sfruttamento.
Gli affetti privati, nella loro complessità e fragilità, e la condanna espressa pacatamente ma con efficacia, verso le industrie farmaceutiche, potrebbero lasciare il lettore meno attento un po’ deluso, quasi certi temi fossero troppo scontati. Benni crea però alcuni personaggi che aprono il racconto alla lotta cosmica tra il bene e il male. Sono gli angeli ribelli che non accettando il dolore si prendono cura degli uomini e portano a tutti un messaggio di guarigione. Nel farlo mettono in rilievo che la loro vita sulla terra non raccoglie preghiere, ma è “la goccia in più di bene” che fa durare il mondo. Se sia giusto o sbagliato, nel gioco del cielo o di Dio, non lo sappiamo; nelle pagine di Stefano Benni Elpis e Gadariel, gli angeli caduti, ci appaiono così umani che ognuno di noi potrebbe impersonarli.

Nadia Agustoni

 

Proudhon
e l’unità d’Italia

Il 13 luglio 1862 Pierre-Joseph Proudhon sul giornale Office de la publicitè di Bruxelles – dove è riparato in esilio dal 1858 per sfuggire il processo intentatogli a Parigi per offese alla morale e alla religione per il volume Justice dans la Révolutions et dans l’Eglise – pubblica l’articolo Mazzini et l’unité italienne, al quale il 7 settembre 1862 fa seguire Garibaldi et l’unité italienne. Gli articoli hanno vasta risonanza sulla stampa e sull’opinione pubblica italiana.
L’interesse di Proudhon per il problema italiano era dovuto al fatto che i democratici italiani propugnavano una repubblica unitaria, mentre il pensatore francese sostiene – a differenza di Mazzini – l’indipendenza nella diversità, attraverso la federazione dei vari Stati, che allora formavano l’Italia. Attaccato dalla stampa unitaria e dai sostenitori della nazionalità, rispose con un altro articolo La presse belge et l’unité italienne, pubblicato il 1 ottobre 1862.
Questi tre articoli, preceduti da una breve introduzione dell’autore, furono raccolti nel volume La fédération e l’unité en Italie, pubblicato a Parigi nel 1863 dall’editore E. Dentu.
L’anno dopo il pensatore francese ritorna sull’argomento con l’articolo Novelles observations sur l’unité italienne, pubblicato dal «Messager de Paris» del 10 dicembre 1864.
Questi articoli, tranne quello sulla stampa belga e l’unità italiana, sono stati riproposti nel corso del 2011 dalle Edizioni Miraggi di Torino, in una traduzione di Paola Goglia, con il titolo Contro l’Unità d’Italia [pag.122, €. 16,00] e in un’edizione del Circolo Anarchico Umbro «Sana Utopia» di Perugia nella traduzione di Massimo Cardellini, con il titolo Il Federalismo e l’unità in Italia [pag. 152, €. 10,00].
L’editore Miraggi afferma che vengono pubblicati per la prima volta in Italia, ignorando che la prima traduzione italiana risale al 1914 e fu fatta da Agostino Lanzillo per conto dell’editore Carabba di Lanciano per l’edizione del volume Scritti sulla rivoluzione italiana, poi ripubblicato dallo stesso editore nel 1933, in pieno fascismo.
L’articolo su Giuseppe Mazzini suscitò le ire dei democratici belgi, francesi ed italiani per le offese fatte al cospiratore italiano. Per tutta risposta Proudhon replica con un pezzo su Giuseppe Garibaldi, nel quale sostiene che se l’Italia si unificava il Belgio si doveva annettere alla Francia. Nuove proteste della stampa belga per l’ipotesi di Proudhon e il 16 settembre 1862 un gruppo di uomini e di ragazzi si reca a casa di Proudhon in Rue du Conseil per una protesta popolare, che proseguì anche l’indomani tanto che la strada dovette essere sbarrata dalla gendarmeria e la vita dello scrittore venne minacciata. Lo stesso giorno Proudhon – in virtù della grazia che gli era stata concessa da Napoleone III nel 1860 – rientrò precipitosamente in Francia.
Il primo articolo prende lo spunto da un manifesto in cui Mazzini esprime la sua delusione sull’Italia appena unita e accusa il re – che ha rinunziato a Venezia e a Roma – di tradimento e si impegna a riprendere le cospirazioni, perché, se Vittorio Emanuele II non sa o non vuole «fare l’Italia con noi, noi la faremo contro di voi», promette solennemente Mazzini. Ma le cospirazioni – osserva Proudhon – possono essere «un atto eroico o un fatto criminale, il più santo dei doveri o la più insigne delle fellonie. Tutto dipende dalla causa, dalle circostanze, dallo scopo e anche dal successo». Proudhon si domanda se Mazzini può dichiarare guerra al re e sollevare le masse per vendicare la libertà italiana tradita o abbandonata; chiede di istruire il popolo e di sviluppare le ricchezze del paese, facendovi nascere la libertà, la filosofia e i costumi. È anche facile profeta quando scrive. «E quando sarà realizzata, probabilmente il popolo italiano non starà affatto meglio». Infine accusa Mazzini di essere stato privo di lungimiranza politica e di aver – da repubblicano – scritto una lettera – giudicata «nient’altro che un’arlecchinata italiana» – al re per felicitarsi invitandolo a proseguire: «Osate, Sire», che testimonia la sua «imprevidenza», insieme a «una totale incapacità politica». Per Proudhon la formula mazziniana «Dio e Popolo» sa «ancora di superstizione, ancora di pontificato. Ma come! Ecco Mazzini, il delatore degli ipocriti, sorpreso con il suo deismo rinnovato alla Robespierre in flagranza di delitto d’ipocrisia!». Ricorda che Mazzini è «antisocialista, Louis Blanc ed io ne sappiamo qualcosa; e abbiamo visto che tra il suo repubblicanesimo e la monarchia poteva esserci un compromesso». Continua implacabile sostenendo che il rischio dell’unità d’Italia è la libertà «confiscata a vantaggio di un potere superiore, che è il governo» e l’unità «è molto semplicemente una forma di sfruttamento borghese sotto la protezione delle baionette». Accusa Mazzini di non aver fatto altro che «succhiare danaro ai ricchi e sangue al popolo, e che non ha mai restituito né l’uno né l’altro».
Critiche anche per Giuseppe Garibaldi, dopo l’insuccesso di Aspromonte. Il suo tentativo di conquistare Roma è criticato da Proudhon, per il quale Roma «è nulla» perché vive dello straniero, ovvero «dell’elemosina della cristianità. Toglietele i suoi preti: è la città più triste, più inutile d’Italia e del globo, una necropoli». Per Proudhon l’Italia «vuole un pugno di ferro che la flagelli»; nel suo futuro vede «una combinazione di pretoriani, profittatori e preti» e ribadisce che «Roma capitale di uno Stato moderno è una insensata illusione».
Conoscere anche il pensiero e l’opinione di Pierre-Joseph Proudhon sulla questione dell’Unità d’Italia è certamente interessante.

Giuseppe Galzerano

I volumi possono essere richiesti rispettivamente a: sanautopia@gmail.com e info@miraggiedizioni.it

 

 

La coscienza di classe
degli zombie

I film di zombie di George A. Romero, il maestro/re –inventore del genere con all’attivo sei pellicole realizzate nell’arco di quarant’anni, rappresentano il flusso di coscienza sotterraneo o, per dirla con Lacan, il “doppio osceno” del Sogno Americano, tanto nella sua forma canonica di arrivismo individuale quanto nelle sue accezioni liberal di emancipazione delle minoranze all’interno del sistema.
Nel primo film della serie, La notte dei morti viventi (Night of the living dead, 1968), il protagonista, un uomo di colore che riesce a tener testa agli zombie asserragliandosi in una casetta con altri malcapitati, viene fatto fuori senza tanti complimenti dalla polizia, che lo “scambia” per uno dei mostri, con buona pace di integrazione razziale e diritti civili.
Ancora prima, è il padre di famiglia bianco e piccoloborghese a mettere i bastoni tra le ruote all’eroe nero, boicottandone le iniziative di auto-difesa semplicemente perché non accetta di farsi dirigere da un coloured, ed arrivando quasi a farlo ammazzare dai mostri (prima che ci pensi la polizia).
Nell’Alba (Dawn of the Dead, trad. it. Zombi, 1978) i non-morti gironzolano beati all’interno di un centro commerciale, andando a sbattere contro le vetrine dei negozi, tuffandosi nelle fontanelle attirati dal luccichio delle monetine e calpestandosi l’un l’altro sulle scale mobili, mentre gli umani fanno incetta di merci ai piani superiori. L’unica differenza fra le due “specie” pare essere la possibilità di accedere al “benessere” (in senso capitalistico), perché ai poveri zombie viene sbarrato l’accesso a boutique e negozietti, ma come vedremo dopo qualche anno i Nostri (gli zombie, of course) si prenderanno la loro bella rivincita.
Nei rapidi stacchi tra i non-morti e le vetrine, quello che risalta è la maggiore umanità dei primi rispetto ai manichini che fanno bella mostra di sé nelle seconde, ed il digrignare di denti degli zombie risulta meno inquietante dei sorrisi delle modelle di plastica.
Dopo aver detto la sua su (finta) integrazione razziale e consumismo, nel terzo film della serie, Il giorno (Day of the Dead, trad. it. Il giorno degli zombi, 1985) Romero attacca frontalmente il militarismo, collocando i protagonisti in un bunker sotterraneo dove a comandare è un capitano dell’esercito tratteggiato come un bambino capriccioso, mentre l’eroina, una scienziata, acquista quei tratti di razionalità che già aveva acquisito qualche anno prima la Jamie Lee Curtis protagonista di Halloween (John Carpenter, 1978), inaugurando il sottofilone dell’horror postmoderno parafemminista. Laddove nell’horror classico, da Dracula a Frankenstein alla Mummia, ed in generale nella tradizione della novella gotica – da cui tutto il discorso orrorifico letterario e filmico prende le mosse – la donna era un personaggio fragile, le cui battute erano in buona parte costituite da strilla di terrore, sempre in balìa del maschio di turno mostro o eroe che fosse, qui la donna si autonomizza, ed alla fine in mezzo a tanti maschi machi e inconcludenti prende in mano la situazione e trova una via d’uscita.
Nel Giorno alla scienziata vengono messi i bastoni tra le ruote proprio dal capitano, ma uno zombie farà giustizia sparando al militare e facendogli un beffardo saluto a mano tesa mentre altri zombie ne fanno un fiero pasto.
Arriviamo così, con uno iato di vent’anni, alla Terra dei morti viventi (Land of the Dead, 2005), dove gli zombie hanno conquistato il mondo e gli umani benestanti si sono rifugiati in una torre/grattacielo/shopping center che ricorda tanto i postmoderni (e postumani) condomini del visionario e distopico romanziere inglese J.G. Ballard, così come le ambientazioni preconfezionate del Truman Show (Peter Weir, 1998) in cui si muove un ignaro e insoddisfatto Jim Carrey.
Gli umani poveri, invece, vivono come sempre nei ghetti, ed alcuni di loro sperano nella scalata sociale facendo da mercenari per il presidente della corporation che gestisce Green Hill (il grattacielo/miraggio per le classi più basse). ovvero razziando le terre degli zombie nelle quali sono rimasti supermercati e negozi, mentre i non-morti nel frattempo si sono organizzati in comunità imitando le attività che facevano in vita, e cercano di vivere “in pace”.
Costretti però a subire queste continue razzìe, i mostri decidono di dare l’assalto al cielo, e guidati da un ex (cioè, da vivo) benzinaio di colore partono all’attacco di Green Hill, distruggendo una volta all'interno corpi e merci dell'upper class.
Gli ultimi due film della serie, Le cronache dei morti viventi e L'isola dei sopravvissuti (Diary of the Dead, 2007, e Survival of the Dead, 2009), pur essendo qualche spanna sotto la produzione precedente, regalano comunque squarci di feroce critica culturale. Dall'iper- invasività mediatica di cui è vittima il mondo e gli stessi protagonisti delle Cronache, studenti di cinema capaci di rimanere con la loro camera digitale in mano a filmare mentre amici o fidanzate vengono assaltati dai mostri, alla contaminazione con il western de L'isola, in cui nell'unica isola sperduta in cui sono rimasti degli esseri umani due famiglie da sempre in competizione continuano la loro guerra trovando come pretesto stavolta il trattamento da riservare agli zombie, tra chi vorrebbe ucciderli tutti e chi addomesticarli e farli vivere in catene.
Nella scena che (per ora) conclude la quarantennale saga dei non morti romeriani, i due capifamiglia ormai zombizzati si sparano con pistole scariche sullo sfondo di un'enorme luna, mentre una voce fuori campo commenta causticamente “in questo maledetto mondo, qualcuno pianta una bandiera, un altro la strappa e pianta la sua: molto presto nessuno si ricorda che cosa diede inizio alla guerra, e si lotta solo per far prevalere una di quelle stupide bandiere”.

Michele Lembo

 

Un film poco noto,
ma che merita di diventarlo

Quest’anno ha cominciato a circolare – in Francia soprattutto – un film girato e montato da Ivora Cusack e da alcuni suoi amici, tra il 2002 e il 2006. Uscito ufficialmente nel 2008, in francese, il film è stato sottotitolato in italiano, spagnolo, inglese e tedesco, e questo gli ha permesso di essere presentato in vari paesi europei, salvo, fino ad ora, l’Italia. Il titolo originale è: Remue-ménage dans la sous-traitance, un gioco di parole tra “ménage” (le pulizie) e “remue-ménage” (mettere sottosopra) che si potrebbe tradurre con: “Subappalti sottosopra”.
È la storia dello sciopero di un gruppo di donne delle pulizie che lavorano a Parigi per Arcade, un’impresa di subappalto della catena alberghiera Accor, uno dei maggiori gruppi mondiali, che possiede i marchi Ibis, Etap, Mercure, Novotel, Sofitel, ecc. Sono tutte immigrate da paesi come il Senegal, il Mali, il Burkina Faso; sono in maggioranza madri di famiglia, non particolarmente sovversive. La maggior parte di loro parla poco e male il francese. Le condizioni di lavoro e di salario sono infami. Ma sono esasperate ed hanno il coraggio di ribellarsi.
Si iscrivono ad un sindacato (la CFDT prima, Sud poi) e si mettono in sciopero; in 35, su 800 che ad Arcade lavorano nelle pulizie. I sindacati maggiori – che in questo settore sono particolarmente corrotti – organizzano un vero e proprio cordone sanitario perché la lotta non si estenda. Soltanto Sud, la CNT ed i collettivi d’opposizione della CGT, le sostengono. Dopo tre mesi il loro sindacato comincia a mollarle, ma incontrano la solidarità di un collettivo che le appoggerà fino alla fine dello sciopero. Otto di loro vengono licenziate illegalmente e le pressioni sono enormi, da ogni parte. Lo sciopero dura un anno esatto. Sono in 22 ad arrivare fino in fondo. Ed ottengono soddisfazione su quasi tutte le loro rivendicazioni, compresa la riassunzione delle licenziate, l’abbandono delle procedure giudiziarie ed il pagamento (parziale) delle giornate di sciopero.
Un anno dopo, il padrone si vuole vendicare della sconfitta subíta e licenzia Mayant Faty, la delegata che aveva guidato lo sciopero. Ottiene l’avallo dell’Ispettorato e del Ministero del lavoro. Impossibile organizzare uno sciopero di solidarietà (peraltro illegale) a causa della dispersione delle sue colleghe. Il collettivo si ricostituisce e riprende le azioni che avevano portato a vincere un anno prima. Ma le condizioni sono particolarmente sfavorevoli, vista l’assenza di solidarietà all’interno dell’azienda. Dopo qualche mese il sindacato Sud-nettoyage getta la spugna mentre il numero dei partecipanti alle azioni si riduce drasticamente. Il collettivo cerca allora una forma d’azione difficilmente criminalizzabile, che permetta di resistere a lungo e nello stesso tempo di attaccare l’immagine del gruppo Accor, che tira vantaggio dal subappalto.
Cominciano i pic-nic negli halls degli hotels del gruppo. Uno ogni venerdì sera, tutte le settimane, durante quindici lunghi mesi (1). Per reggere, occorre trovare altri partecipanti: il collettivo dà una mano ad altri lavoratori in sciopero (l’Hotel Astor, il caffé Ruc) e ad altri licenziati (Quick), ed ottiene in cambio partecipazione alle sue azioni. Nel frattempo comincia una “inchiesta” sui subappalti negli hotels visitati e la difesa della delegata licenziata si trasforma in una rivendicazione collettiva: la fine dei subappalti e l’internalizzazione delle pulizie. La Direttrice del personale di Accor dichiara alla stampa che il suo gruppo ha già deciso di farlo ed il collettivo continua la sua inchiesta, verificando che si tratta di chiacchiere pubblicitarie, ma al tempo stesso che è stato costituito un gruppo di studio sulla questione, composto da direttori d’albergo.
Dopo 18 mesi, con l’avvicinarsi delle scadenze davanti ai giudici, Accor fa pressione sul suo subappaltatore (che nel frattempo si è fatto una solida reputazione di negriero, perdendo una quantità di cantieri), perché gli tolga questa spina dalla scarpa. Faty rinuncia a farsi riassumere da un’azienda sull’orlo del fallimento ed ottiene una consistente indennità. La lotta si conclude in modo sostanzialmente positivo.
Il film, girato da una compagna che ha seguito le azioni fin dai primi mesi, dà la parola ad alcune scioperanti e mostra le difficoltà incontrate e le forme di lotta del collettivo, che tenta di praticare un “sindacalismo senza sindacato”, come lo definiscono alcuni suoi membri.
Il DVD può essere richiesto scrivendo a: contact@360etmemeplus.org. Costa 10 euro più le spese di spedizione. È possibile consultare alcuni estratti del film sul sito del collettivo di produzione: http://remue-menage.360etmemeplus.org.

G. Soriano

Nota

  1. La rivista Libertaria, n°4, ott.-dic. 2005, ha pubblicato un reportage da Parigi : «Azione diretta con pic-nic negli alberghi ». A-Rivista anarchica, ha pubblicato un’intervista sull’esperienza dei collettivi di solidarietà parigini: «Lotta dura nei fast food».

 

 

Un modello
di militanza sindacale

Ne “Il libro degli amici” di Hugo von Hofmannsthal, l'autore rileva – cito a memoria – che la vita di un uomo si svolge di norma attraverso cinque generazioni, con ogni evidenza da quella dei suoi nonni a quella dei suoi nipoti. È evidente che una considerazione del genere presuppone che la memoria delle vicende che ci costituiscono sia presente, sia un'attività che ci colloca in una dimensione storica e non un semplice dato.
Il libro Un operaio semplice – Storia di un sindacalista rivoluzionario anarchico (1886-1964) di Gaetano e Giovanna Gervasio edito da Zero in Condotta (pagg. 384 – con CD allegato, € 20,00), da questo punto di vista esemplare, una vicenda che comincia nel sud interno, in un piccolo paese dell'avellinese ove ancora si danno le tracce delle tensioni sviluppatesi in occasione dell'unità nazionale e si conclude alla vigilia dei nuovi movimenti sociali che alla fine degli anni '60 riporranno all'ordine del giorno la prospettiva di un cambiamento radicale della società.
Di fronte al testo la sensazione che si prova, o almeno quella che io ho provato, è quella di entrare in una sorta di miniera dalla quale si estraggono volta volta materiali importanti. Il testo non è, o almeno non pare, una compiuta autobiografia ma sembra piuttosto il lavoro preparatorio per quest'autobiografia che tratta approfonditamente di alcuni temi e di alcune vicende e ad altri fatti fa solo cenno quasi si trattasse di un colloquio, un dialogo con se stesso, che presuppone la conoscenza del contesto e dei fatti trattati.
Ammetto che in questa incompiutezza che permette a volte chiavi di lettura diverse, integrazioni, individuazione di piste da seguire, sta parte del fascino del testo. Incompiutezza che quindi non vuol dire per nulla superficialità, al contrario. Quando su di una questione Gaetano Gervasio si estende appare evidente come si pone domande, cerca risposte, formula ipotesi. Insomma, un libro che permette in qualche misura di colloquiare con lui.
La narrazione si sviluppa in diverse fasi. L'infanzia a Monteverde http://rete.comuni-italiani.it/wiki/Monteverde in una famiglia di condizioni modeste ma che si caratterizza per vivacità, curiosità, apertura.
Ammetto che la descrizione del paese e, in particolare, dell'orto della sua famiglia mi ha coinvolto per il banale motivo che mi ricorda quelle del paese di origine della mia famiglia e il mio ricordo dell'orto della casa dei miei nonni paterni. Ovviamente vi sono non poche differenze ma alcuni tratti di quel mondo sembrano essersi mantenuti intatti per decenni. La stessa visione del mondo o, quantomeno il tratto con il quale Gaetano Gervasio affronta le complesse vicende della sua vita rimanda in qualche misura a quell'universo culturale.
Seguono la formazione politica, in particolare a Cerignola dove conosce Giuseppe Di Vittorio http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Vittorio, allora esponente dell’USI, e ne apprezza le indubbie capacità. Proprio nel suo rapporto con Di Vittorio emerge un aspetto discutibile della disponibilità umana di Gaetano Gervasio. Quando lo rincontrerà nel secondo dopoguerra, infatti, porrà l’accento sulla rilevanza nella formazione di colui che è ormai il segretario generale della CGIL ed un importante esponente del PCI staliniano fra i braccianti pugliesi e nella pratica del sindacalismo d’azione diretta. Finisce in questo modo per accreditare un’immagine di sé che lo stesso Di Vittorio ha coltivato: il dirigente sindacale che ha saputo rivendicare l’autonomia del sindacato anche a fronte del PCI e di Togliatti e che, in qualche misura, ha portato nella CGIL il meglio della tradizione sindacalista rivoluzionaria. Peccato che si tratti dello stesso Giuseppe Di Vittorio che nel 1937 ha apertamente sostenuto la giustezza della liquidazione fisica degli anarchici e dei poumisti. Ed effettivamente, quando tratta del secondo dopoguerra il libro sorvola elegantemente sull’egemonia staliniana sul movimento operaio.
Il libro tratta poi, in maniera assai interessante, delle vicende di Gervasio, delle località che conoscerà per lavoro in Italia ed all’estero.

Emerge qui una caratteristica importante di Gaetano Gervasio, l'esigenza di ottenere risultati immediati, tangibili, concreti, il suo essere in senso proprio sindacalista. Egli stesso, con simpatica autoironia, ipotizza di aver assorbito dai socialisti la bipartizione fra programma massimo e programma minimo.
Quest'approccio spiega, ad esempio, la curiosità e l'interesse per il movimento cooperativo, l'atteggiamento aperto nei confronti dei socialisti che pure critica in maniera puntuale, l'approccio pragmatico e nello stesso tempo rigoroso alla questione sindacale.
La scelta dell'USI è per lui naturale come è naturale la partecipazione alla mobilitazione in occasione della settimana rossa, dell'occupazione delle fabbriche, l'attività antimilitarista.
Siamo insomma di fronte ad un militante di capacità con ogni evidenza notevoli e che non è, o che rifiuta di essere, un leader carismatico.
Tralascio le pur interessanti vicende familiari, le memorie dell'emigrazione sulla quale scrive appunti acuti, la sua attività nel ventennio fascista.
Nel secondo dopoguerra Gaetano Gervasio militerà nella FAI assumendo impegni e cercando di favorire l'azione comune degli anarchici in una fase, quella della divisione del mondo in blocchi, dell'egemonia del PCI sul movimento operaio, dell'arretramento del movimento di classe che, dopo l'iniziale entusiasmo, vide un secco ridimensionamento del movimento anarchico.
Colpisce il fatto che non entra più che tanto nel merito delle divisioni e delle polemiche che travagliarono in quegli anni il campo libertario e cerca, per un verso, di tessere relazioni fraterne con i compagni e, per l'altro, di lavorare ad un rinnovamento dello stesso pensiero libertario.
Sarà, insomma, uno dei “vecchi” che guarderà con attenzione e simpatia ai tentativi di rinnovamento dell'anarchismo, si pensi al Gruppo Milano 1 costituito da giovani compagni milanesi ed al quale partecipò, ed a esperienze quali quelle nel campo educativo che vedranno partecipe ed attiva in primo luogo sua figlia Giovanna.
Indubbiamente pesò un'attitudine personale, quell'attitudine che lo portò, ad esempio, a dolersi per la mancata collaborazione da parte dei compagni con Alibrando Giovannetti http://www.zeroincondotta.org/catalogo06/titolo06001.html a causa del suo essersi adattato, per ragioni si sopravvivenza personale, al fascismo, ma non va sottovalutata la sua capacità di guardare sempre all'interesse generale dei lavoratori più che a dinamiche interne ai gruppi politici dei quali pure fece parte.
Continuerà inoltre la sua militanza sindacale, questa volta nella CGIL, seguendo l'esperienza dei Comitati di Difesa Sindacale ma guardando con rispetto all'azione dei compagni che tentarono di dare nuovamente vita all'USI. Si tratta di percorsi che, come è noto, non ebbero un significativo sviluppo ma che vengono troppo spesso dimenticati e che questo libro utilmente ci riconsegna.
In particolare, infine, mi ha colpito, per un verso, l'interesse per l'esperienza olivettiana e, per l'altra, forse ancora di più, quello per il gruppo dei Quaderni rossi con il quale ebbe un confronto. La riprova di un giovanile entusiasmo che lo accompagnò sino ad età avanzata.
Un modello di militanza, almeno a mio avviso, che merita attenzione e rispetto.

Cosimo Scarinzi

In “A” 366 (novembre 2011) abbiamo pubblicato l'introduzione di Massimo Ortalli alla biografia di Gaetano Gervasio (N.d.R.)

 

 

Lotte dure
contro il capitalismo

Il libro La rivoluzione dal basso. Dagli IWW ai Comunisti dei Consigli (1905-1923), (Quaderni di Pagine Marxiste, Milano 2011, Pagg. 200. € 15,00, comprese le spese di spedizione, richieste a http://www.paginemarxiste.it) giunge come il cacio sui maccheroni in un momento in cui, anche in Italia, i primi segnali di lotta di classe accendono riflessioni sull’organizzazione proletaria. Ed è quanto mai utile parlare, oggi, degli Industrial Workers of the World (IWW) e della Sinistra comunista tedesca e olandese (detta «consiliarista»), in un Paese come il nostro, dove una pesante eredità «leninista» ha sempre posto in secondo piano, se non denigrato, queste esperienze di lotta che, invece, furono tra le più avanzate. Avvennero nei due Paesi – USA e Germania –, in cui maggiore è stato, ed è tuttora, lo sviluppo del modo di produzione capitalistico. E in cui la classe operaia si è scontrata con il capitalismo nelle sue forme più alte, con ridottissimi margini di mediazione politico-sociale. Di conseguenza, era del tutto secondario il problema delle alleanze con i ceti medi – la piccola borghesia contadina e artigiana –. Problema che, invece, dovettero affrontare in Russia Lenin e il partito bolscevico, nel quadro di una rivoluzione democratica.

È quindi assai bizzarro che, ancor oggi, alcuni «vetero rivoluzionari» si richiamino a quell’esperienza politica e a quel modello organizzativo, quando, oggi, la situazione è del tutto mutata, e ci sono ben altri problemi, su cui sarebbe più opportuno riflettere.
Certo, il mito dell’Ottobre rosso è ancora forte, anche in quegli ambienti che, nei suoi confronti, hanno espresso critica e dissenso. Senza però fare poi il passo successivo, ovvero prendere in considerazione tendenze, come gli IWW e la Sinistra comunista tedesca – cui possiamo aggiungere gli anarco-sindacalisti in Spagna (la Confederación Nacional del Trabajo-CNT) – che, ponendosi in una prospettiva rivoluzionaria, hanno dato vita a un diverso rapporto tra «partito e classe», per usare la terminologia «leninista». Un rapporto che, per farla breve, privilegia la classe, e in cui il partito è solo uno strumento. Concezione che mi sembra assolutamente attuale, e che, tra l’altro, supera quella separazione «contro natura» tra lotta economica e lotta politica (tra partito e sindacato).
Per inciso, i leninisti nostrani dimenticano che l’organizzazione «consiliare» degli operai nacque in Russia, nel 1905 (i soviet!), e si affermò nel 1917, con la successiva fondazione della Repubblica russa dei consigli (1918), il cui declino coincide con il declino dei consigli stessi, annichiliti dal ri-emergere dei rapporti di produzione capitalistici. Cui contribuì la realpolitik dei bolscevichi, loro malgrado. E in questo, il buon Stalin c’entra come i cavoli a merenda: arrivò quando i danni erano già stati fatti (1924). Egli non fu altro che il cinico curatore fallimentare di una rivoluzione in fase di riflusso. A ben vedere, responsabilità ben più gravi ebbe Trotsky.
Analogo ragionamento possiamo fare per quanto avvenne prima negli USA, poi in Germania e in altri Paesi, tra cui la Spagna nel 1936, dove la sconfitta non fu causata dalle forme organizzative adottate dagli operai, bensì dalla riaffermazione dei rapporti di produzione capitalistici, accompagnata, ovviamente, dalla violenta repressione borghese. Questa riaffermazione-repressione la possiamo capire considerando la sfasatura temporale delle lotte (USA 1907-1917, Russia-Germania-Italia 1917-1919, Spagna 1936), che mostra, in primis, i diversi livelli di sviluppo capitalistico e quindi la diversa composizione della classe operaia. I proletari si mossero per ranghi compatti, ma separati, nel tempo e nello spazio; ciò nonostante il movimento complessivo indica una linea di tendenza comune: l’organizzazione unitaria dal basso (One Big Union, come dicevano gli IWW), che tendeva a superare le divisioni indotte da fattori sia oggettivi (tecnico-organizzativi) che soggettivi (politico-razziali). Ed è questo l’aspetto su cui occorre soffermarsi, una volta tolto di mezzo quanto c’è di accidentale e obsoleto in quelle passate esperienze.
La questione resta però tutta da sviluppare. Benché il libro di Giusti ci offra una panoramica ampia e articolata, lascia sullo sfondo la specifica fase attraversata allora dal modo di produzione capitalistico, che ci può permettere di formulare una valutazione di quelle lotte, fuori da facili schemi politico-ideologici.
Quella era la fase di sviluppo delle forze produttive, in cui il capitale poteva integrare alcuni settori, più o meno ampi, della classe operaia, come avvenne attraverso il welfare state. Beninteso, quell’integrazione non cadde dal cielo, fu il frutto del grande movimento di lotte dei primi decenni del Novecento, cui parteciparono wobbly, bolscevichi, comunisti dei consigli e anarco-sindacalisti, e che, benché sconfitti, dei segni gli operai li avevano lasciati. E i padroni e i loro governi dovettero tenerne conto. Lo fecero i Paesi democratici, a partire dagli USA di Roosevelt; lo fecero i Paesi totalitari, a partire dall’Italia di Mussolini. E lo fece anche l’Unione Sovietica di Stalin ... con un welfare state miserabile. E nonostante ciò, da quelle parti, qualcuno oggi rimpiange il piccolo padre, dicendo che «si stava meglio quando si stava peggio»... Questo è sicuramente un segno dei tempi, che vedono il tracollo senza futuro del modo di produzione capitalistico, in cui si inscrive l’attuale crisi.
Crisi che butta sulla scena della storia la massa crescente dei senza risorse delle mille periferie del mondo, che non hanno nulla da perdere, se non le loro catene. E che i venti del Nordafrica stanno già scuotendo...

Dino Erba

A Milano, i libri pubblicati da Pagine Marxiste e All’Insegna del Gatto Rosso si possono acquistare presso le librerie:
Libreria Calusca, via Conchetta 18.
Libreria Popolare, via Tadino 18.

 

Il mistero (solubile)
dello zucchero assassino

Una storia di cibo, dominio, denaro e scienza. O di alcune più o meno ragionevoli motivazioni per estromettere il saccarosio e diverse altre schifezze dalla vostra alimentazione.
Che cambiamento, eh? Da un ometto buffo che usava i nostri soldi per pagarsi le ragazzine tra l’indignazione o l’invidia del grande pubblico, a un austero signore di color grigio cemento mimetico, ben conosciuto dagli appassionati delle pagine economiche dei quotidiani, ma semi-ignoto a tutti gli altri. Dietro quella faccia da democristiano della prima repubblica chi c’è in realtà? Se si ha voglia di andare a vedere si scopre che l’attuale capo del governo ha nel curriculum una serie di incarichi piuttosto impressionante. Qui non c’è spazio per documentare in che modo Monti sia stato uomo dei governi di destra e di sinistra, quindi ci limitiamo a notare come risulti direttamente implicato nella Goldman Sachs, nella Commissione Trilaterale e nel Gruppo Bilderberg, tutte note associazioni filantropiche che, non possiamo dubitarne, operano quotidianamente nell’interesse della felicità e del benessere collettivi. Ma qui dobbiamo parlare di zucchero, quindi che c’entra il presidente della Bocconi? Beh, il nostro uomo è anche consigliere della Coca Cola Company, qualcosa di più di una grande multinazionale. Le bibite zuccherate hanno sempre dimostrato una particolare sintonia con il potere politico, magari occulto, come nel caso di Robert Geddes Morton, vicepresidente della Pepsi di Cuba, collegato alla Cia e strenuo organizzatore di gruppi paramilitari anticastristi incarcerato a Cuba tra il 1961 e il 1963. Più spesso in maniera palese. Warren Buffett, miliardario che detiene l’8% della Coca Cola, ha finanziato nel 2003 Arnold Schwarzenegger, già robocop e di lì in avanti governatore repubblicano della California ma nel 2008 ha sostenuto allo stesso modo Barack Obama. Nel 2004 la Coca Cola aveva d’altra parte foraggiato la campagna presidenziale di George W. Bush con oltre 380mila dollari. Anche il passaggio tra cariche pubbliche e private è un’affermata consuetudine, come nel caso di Donald McHenry, ambasciatore degli Usa presso le Nazioni Unite fino al 1981, poi diventato un alto dirigente della Coca Cola.
Zucchero, dolciumi, soft drinks e dominio sono sempre stati strettamente connessi, ma in “Il mistero (solubile) dello zucchero assassino” questo è solo uno degli argomenti presenti, perché le questioni da affrontare per sbrogliare l’enigma di una sostanza così insidiosa sono molteplici. Per prima cosa: ma è vero che lo zucchero fa male? Hanno ragione quelli che lo chiamano “il bianco veleno” oppure è una fissazione, come sembrano dimostrare i milioni di persone che non possono fare a meno dei cibi dolci? Da quanto tempo è presente nella nostra alimentazione? A che cosa è dovuto il suo incredibile successo che l’ha portato a divenire la principale fonte di carboidrati in alcune popoli di paesi industrializzati?
Dal momento in cui ho cominciato a farmi queste e altre domande ho cercato un libro che mi desse tutte le risposte che volevo ma ho scoperto che quel libro non c’era. Molte notizie interessanti, spunti, alcuni dati scientifici, ma le informazioni necessarie erano sparse qui e là, spesso nascoste in riviste mediche specializzate. Quando spiegavo a qualcuno le mie ragioni sentivo poi dirmi: “Ma queste cose dove le trovo?” – e io non avevo nulla di decente da consigliare.
Alla fine mi sono deciso e l’ho fatto io. Ho consultato centinaia di lavori, mi sono preso qualche anno di tempo e ho scritto. Ho cercato di mettere tutto in meno di 190 pagine, se ci sono riuscito non lo so, ma giuro che ci ho provato. Se vi è venuta voglia di verificare il risultato del mio sforzo, difficilmente lo troverete in libreria però potete chiederlo a me. Date un’occhiata qui: www.candilita.it e poi scrivetemi: g_aiello@hotmail.it.
Naturalmente è un’autoproduzione: avrei forse dovuto chiedere a Monti se mi sovvenzionava, ma non volevo disturbarlo, ha tanto da fare tra un taglio al bilancio e una coca, con tutte quelle bollicine…

Giuseppe Aiello

 

Ergastolo
ostativo

Gli uomini ombra: sono una piccola parte dei reclusi nelle carceri italiane, condannati a uno dei due tipi di ergastolo. Quello ostativo. La definizione di “uomini ombra” è di uno di loro, Carmelo Musumeci, 56 anni, nativo di Aci Sant'Antonio, provincia di Catania, un paese alle falde dell'Etna. Di lui abbiamo già parlato su “A”, personalmente sono in corrispondenza (costante, anche se saltuaria) con lui da più di un decennio.
Parlare di lui è sicuramente riferire delle vicende di un uomo, condannato appunto all'ergastolo ostativo e in carcere da una ventina d'anni con la scritta, sulla cartella penitenziaria, “fine pena: mai”. Ma è ancor di più riferire della sua appassionata e lucida – e umana e coinvolgente – testimonianza e battaglia (sì, si può combattere anche dal chiuso di una cella) contro l'ergastolo, e quello ostativo in particolare. Quindi una vicenda personale e una battaglia di dignità, di giustizia, di quelle che gli anarchici – nel corso della loro lunga storia – hanno saputo fare propria non per calcolo “politico”, ma per istintiva vicinanza agli ultimi della società. E con una piccola ma forte ragione in più: l'esser stati noi stessi, tramite la vita e l'esperienza di alcuni nostri compagni, noi stessi in quelle condizioni e, da quelle condizioni, in questa battaglia. Penso, in questo momento, agli scritti di Giuseppe Mariani, ergastolano per oltre un ventennio durante il fascismo, liberato dopo la Liberazione grazie al cambio di clima politico, se no destinato – come Carmelo Musumeci e gli altri “uomini-ombra” – al “fine pena: mai”.
Il libro che qui segnaliamo si intitola Undici ore d'amore di un uomo ombra, è appunto di Carmelo Musumeci, Gabrielli Editori (via Cengia 67, 37029 San Pietro in Cariano – Vr, tel. 045 772 55 43, info@gabriellieditori.it), esce con la prefazione di Barbara Alberti e contiene allegato il singolo dei 99 Posse con il “Morire tutti i giorni”, scritto da Musumeci e già presente nell'ultimo CD della band intitolato “Bravi guaglioni”. Il riferimento temporale nel titolo è al permesso concesso all'ergastolano ostativo Carmelo Musumeci in occasione della laurea, recentemente conseguita, in Giurisprudenza, con una tesi proprio sull'ergastolo ostativo. Già in uno scritto che aveva circolato, Musumeci aveva raccontato con parole al contempo misurate e coinvolgenti l'esperienza di quell'uscita dalla cella, l'incontro con i suoi cari, la corsa all'Università, la cerimonia della laurea, i festeggiamenti e subito gli addii. Con la speranza che fossero degli arrivederci, ma la coscienza che erano degli addii. In realtà, spiega Carmelo, la quasi possibilità di vedersi concessa un'analoga licenza ci sarebbe, tra le pieghe dell'inumano regolamento dell'ergastolo ostativo. E ha le sembianze di una nuova laurea: se – tra quanti anni? – Carmelo, entrato in carcere quasi analfabeta nel 1991, riuscisse a prendere una seconda laurea, gli “spetterebbe” (ma con la burocrazia carceraria il condizionale è d'obbligo) un'analoga giornata di libertà.
Ci sembra giusto far seguire questa breve segnalazione da uno scritto di Carmelo appunto sull'ergastolo ostativo. Segnaliamo il suo sito www.carmelomusumeci.com, ascoltate pure il brano di 99 Posse su Youtube http://youtube.com/watch?v=P6tgG8ziRN8, procuratevi i suoi libri, insomma anche grazie all'impegno umano e dignitoso di Carmelo non dimentichiamo mai chi vive l'abiezione dell'ergastolo. “La differenza tra la pena di morte e quella all'ergastolo ostativo – spiega Carmelo – è che la prima la si sconta da morti, la seconda da vivi”.

Cos'è l'ergastolo ostativo?

È una pena senza fine che in base all'art. 4 bis dell'Ordinamento Penitenziario, mod. con Legge 356/92, nega ogni misura alternativa al carcere e ogni beneficio penitenziario ai chi è stato condannato per reati associativi:
“Pochi sanno che i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno uno spiraglio; poi c'è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza.
Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell'escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere.
L'ergastolano del passato, pur sottoposto alla tortura dell'incertezza, ha sempre avuto una speranza di non morire in carcere, ora questa probabilità non esiste neppure più.
Dal 1992 nasce l'ergastolo ostativo, ritorna la pena perpetua, o meglio la pena di morte viva.”
Insomma l'ergastolo ostativo è stare in carcere per tutta la vita, è una pena che viene data a chi ha fatto parte di un'associazione a delinquere e che ha partecipato a vario titolo a un omicidio, dall'esecutore materiale all'ultimo favoreggiatore. Ostativo vuol dire che è negato ogni beneficio penitenziario: permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non si collabori con la giustizia per l'arresto di altre persone.
Si continua a parlare di “pentiti”, mentre in realtà si dovrebbero chiamare semplicemente “collaboratori di giustizia”, perché è evidente che la collaborazione è una scelta processuale, mentre il pentimento è uno stato interiore. La collaborazione permette di uscire dal carcere, ma non prova affatto il pentimento interiore della persone. In realtà sono gli anni di carcere, nella riflessione e nella sofferenza, che portano ad una revisione interiore sugli errori del passato. Tutto questo nonostante un sistema carcerario che abbondona i detenuti a se stessi e che non agevola affatto la rieducazione e, nel caso degli ergastolani ostativi, esclude completamente ogni speranza di reinseriumento sociale.*
Noi incontriamo ogni settimana decine e decine di persone condannate all'ergastolo, senza speranza, ostative ai benefici penitenziari, persone che sono in carcere dal 1979, ragazzi di 40 anni che sono stati condannati all'ergastolo a 18 anni e che non sono mai usciti, neanche per il funerale del padre. Ragazzi che hanno vissuto più tempo della loro vita in carcere che fuori.
In Italia ci sono più di 100 ergastolani che hanno alle spalle più di 26 anni di detenzione, il limite previsto per accedere alla libertà condizionale. La metà di questi 100 ha addirittura superato i trent'anni di detenzione.
Al 31 dicembre 2010 gli ergastolani in Italia erano 1.512: quadruplicati negli ultimi sedici anni, mentre la popolazione “comune” detenuta è “solamente” raddoppiata.
Al 31 dicembre 2010 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 67.961 e quelli in semilibertà poco più di 900 e di questi solo 29 sono ergastolani. 29 su 1.512, a fronte di quasi 100 in detenzione da oltre 26 anni: non esiste, eccome, in Italia la certezza della pena? (...)


* Dall'introduzione di Angelino Giuseppe e Bizzotto Nadia, Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII, al libro “Gli Uomini Ombra” di Carmelo Musumeci e Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano – Vz, 2010.

Paolo Finzi

 

Alle radici
del fascismo

È uscito Fascismo 1919. Mito politico e nazionalizzazione delle masse (BFS edizioni, Pisa 2011, pagg. 208, 18 euro). Per richieste: Circolo culturale Biblioteca Franco Serantini, largo C. Marchesi s.n. Civ., 56124 Pisa, tel./fax 050 57 09 95, info_bfsedizioni@bfs.it, www.bfs.it/edizioni, versamenti sul conto corrente postale n. 11 23 25 68. Ne pubblichiamo parte dell'introduzione.

Il problema possiamo formularlo in questi termini: i movimenti politici che, nel corso del Novecento, hanno dato vita a regimi totalitari, erano nati già con questo programma, oppure lo avevano elaborato nel corso delle lotte politiche e della loro ascesa al potere? Nella fattispecie che in questa sede c’interessa: il fascismo nasce autoritario e totalitario, oppure lo diventa nel corso dell’esercizio del suo potere politico? Il che significa: quali caratteristiche del fascismo diciannovista inducono a sospettare la presenza di un’inclinazione totalitaria, o comunque ostile alla democrazia, destinata a svilupparsi negli anni successivi? E infine, quali motivi inducono il fascismo a privilegiare il concetto di “nazione”, rispetto a un nazismo che avrebbe privilegiato il concetto di “razza”?
Com’è dato di vedere, le sollecitazioni e gli interrogativi che indirizzano il presente lavoro non intendono proporre un ulteriore contributo alla storia del dopoguerra e alle origini del fascismo, entrambi argomenti sui quali la storiografia è, com’è noto, a dir poco notevole. Anzi, daremo per assodato il ricco dibattito storiografico sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo, senza la pretesa di fornire un’ulteriore rilettura di quelle vicende, avendo invece come prospettiva d’analisi la verifica delle nuove visioni della politica e della nazione che vengono a formarsi, tra la fine della guerra e l’esplosione fascista dello squadrismo, nell’ambiente frastagliato delle avanguardie politico-culturali che costeggiano il fascismo diciannovista, e di cui quest’ultimo è, al tempo stesso, una delle articolazioni e la proiezione politica più significativa.
Una delle ipotesi da cui muove questo lavoro è che il modello di “nazionalizzazione delle masse”, così magistralmente descritto da Mosse (1), è valido per la Germania ed è certamente utile per collocare il nazionalsocialismo all’interno della storia nazionale tedesca, ma è costretto ad affrontare resistenze notevoli qualora lo si volesse applicare al caso italiano e, nella fattispecie, al gigantesco processo di nazionalizzazione delle masse avviato dal fascismo (2). In una cultura politica italiana in cui la crisi del positivismo era stata promossa da studiosi di Hegel e Marx come Croce e Gentile, e in cui il richiamo a pensatori come Nietzsche aveva trovato risonanze in alcuni settori delle avanguardie politiche e intellettuali (si pensi al giovane Mussolini), la critica della democrazia e la domanda di una rottura politica col liberalismo non potevano godere di richiami al romanticismo e alle decantazioni misticheggianti dell’universo politico-culturale völkisch, spesso a fondo razzista e antisemita, di cui si sarebbe alimentato il nazionalsocialismo.
Beninteso, nell’epoca degli Stati-nazione, prima dell’avvento dei movimenti politici nazionalisti, una nazionalizzazione delle masse si rende necessaria, per le classi dirigenti, al fine di saldare il vincolo di fedeltà fra la nazione e i cittadini. Ma in questa sede si rifletterà sull’ipotesi che già il fascismo delle origini presenta uno specifico modello di nazionalizzazione delle masse, anche se non ancora del tutto elaborato e specificato.
Ciò che accomuna i vari processi di nazionalizzazione è l’intuizione della necessità di un nuovo modo di rapportarsi alla politica: nazionalizzare le masse significa politicizzarle; e nel momento in cui le masse sono politicizzate, la politica non può più essere un’attività ritenuta patrimonio esclusivo delle precedenti élite politico-intellettuali e delle tradizionali classi dirigenti. In questo caso, la politica diviene invece una pratica diffusa, sia nel senso che le decisioni delle élite politiche sono sottoposte al giudizio di settori di società ben più ampi di quelli precedenti il processo di nazionalizzazione, sia nel senso che alla politica partecipano attivamente settori di società fino ad allora esclusi, o comunque marginali, capaci peraltro di esprimere una propria classe politica dirigente.
Ora, se il precedente modello tedesco di nazionalizzazione delle masse cui il nazionalsocialismo si appoggia e utilizza per i propri fini politici non è applicabile alla vicenda storica italiana e al fascismo, dove rintracciare, in quest’ultimo caso, il punto d’origine? L’ipotesi è che la mitizzazione politica della Prima guerra mondiale, al fine di avviare il processo italiano di nazionalizzazione delle masse, nel caso del fascismo delle origini abbia svolto l’identica funzione che, per quanto riguardava il nazionalsocialismo, aveva svolto il processo di nazionalizzazione avviato con le guerre antinapoleoniche in Germania.
Rispetto al nazionalsocialismo, dunque, il fascismo rivela il riferimento a un mito politico ben più recente, con tutti i vantaggi del caso, a cominciare dalla constatazione che alla vicenda della guerra aveva partecipato gran parte della classe dirigente squadrista. Rispetto all’universo politico-culturale völkisch, costretto a rimontare alla resistenza antinapoleonica, il fascismo – cui pure, com’è noto, non manca la mitizzazione della Roma imperiale, del Medioevo italiano e dell’epoca del Risorgimento, lungo un percorso teorico-politico che il Panunzio del 1919, con notevole originalità speculativa e rielaborando suggestioni che erano già attive in alcuni settori della cultura filosofico-politica tedesca, avrebbe definito quale «conservazione rivoluzionaria» (3) – godette del vantaggio di avviare il proprio processo di nazionalizzazione delle masse sfruttando la mitizzazione politica di una vicenda storica da poco conclusa, che la nazione tutta aveva vissuto in prima persona e da cui era appena emersa.
La constatazione di questa differenza implica alcune conseguenze, a nostro avviso, decisive; la prima delle quali consiste, come è stato già rilevato dalla storiografia, nel giudicare assolutamente centrale e importante il ruolo che il richiamo alla Grande guerra rivestì nel fascismo (4), sia perché, come sì è appena osservato, in questa si era formato gran parte dello squadrismo fascista, sia perché a quella vicenda si richiamò sempre l’immaginario politico del fascismo negli anni del regime, sia perché, infine, da tale vicenda ha origine quella cultura della “brutalizzazione della vita”, per riprendere ancora un lucido concetto di Mosse (5), in cui s’inserì di prepotenza lo squadrismo fascista.
Ora, come conciliare sul piano storiografico il problema della visione mitica della politica con la prospettiva della nazionalizzazione delle masse? Ogni processo di nazionalizzazione delle masse non è altro, a ben guardare, che la diffusione massiccia di vicende del passato mitizzate e (ri)elaborate a fini di lotta politica. Il fascismo diciannovista, anche se vide la confluenza di suggestioni e atteggiamenti provenienti da differenti culture politiche, si caratterizzò soprattutto per la difesa della guerra vittoriosa e della visione della nazione che da quella guerra era emersa. Entrambi questi concetti furono rielaborati in una visione mitica: la guerra era stata la drammatica vicenda che aveva messo a dura prova gli italiani, soprattutto la parte di coloro che quella vicenda l’avevano vissuta in trincea, dimostrando di aver sviluppato un senso della nazione in precedenza debole, ovvero inesistente in settori consistenti della società italiana, in particolare delle classi subalterne.
Quello della nazione era invece un mito politico che, secondo il fascismo diciannovista, doveva ormai figurare al primo posto nella gerarchia valoriale degli italiani. Proprio per questo, secondo Mussolini e i collaboratori del suo quotidiano, dalla guerra era uscita una nazione rinnovata e rafforzata; e il rafforzamento consisteva non tanto nella vittoria, bensì nel diverso legame venutosi a creare fra cittadini e nazione e nel diverso modo con cui gli italiani “avvertivano” il valore della nazione. Da qui la rielaborazione della guerra in senso mitico: era stata una vicenda così drammatica e coinvolgente, che non poteva essere razionalizzata.
Dal punto di vista del fascismo diciannovista, uno dei problemi fondamentali della situazione politica creatasi nell’Italia del dopoguerra era il rischio di smarrire proprio quei risultati che la guerra aveva prodotto, a causa di uno Stato liberale debole – la cui debolezza consisteva nella difficoltà di rafforzare ed eventualmente estendere la nazionalizzazione delle masse – e di un movimento socialista che addirittura intendeva denazionalizzare le masse, spostandole sul terreno dell’internazionalismo e della rivoluzione proletaria.
Intendiamo col concetto di “fascismo diciannovista” quella fase della storia del fascismo in cui l’obiettivo del movimento era quello di mantenere intatto il processo di nazionalizzazione delle masse verificatosi nel corso del conflitto mondiale, opponendosi, per un verso, a un movimento socialista che, su posizioni filobolsceviche, rischiava di spostare nuovamente le masse al di fuori di un’ottica nazionale; per l’altro verso, a uno Stato liberale accusato di non riuscire a valorizzare quella nazionalizzazione a causa di strutture politiche deboli e inadeguate a sostenere la partecipazione delle masse alla politica.
Una lunga e consolidata tradizione storiografica ha sottolineato le differenze fra il fascismo delle origini, demagogico, protestatario e alla ricerca di uno spazio nel mercato politico italiano, rispetto al fascismo squadrista, più caratterizzato politicamente. Qualora volessimo individuare una differenza fra il fascismo diciannovista e quello dei decenni successivi, si dovrebbe osservare che, mentre il primo intendeva mantenere e consolidare i livelli di nazionalizzazione conseguiti nel corso della guerra, il secondo, almeno dal momento della presa del potere, nell’ottobre 1922, reputò ormai politicamente insufficiente la strategia della nazionalizzazione, impegnandosi a declinarla in termini di una fascistizzazione delle masse.
Che quest’ultimo progetto politico fosse o meno riuscito, è un problema storiografico che naturalmente in questa sede non è oggetto di ricerca. Ciò che invece ci pare necessario sottoporre ad analisi sono le caratteristiche italiane del processo di nazionalizzazione, nello specifico la sua declinazione in senso schiettamente autoritario, ossia come il fascismo diciannovista vedeva la questione della nazionalizzazione delle masse. Per dire meglio: a quali cause addebitare il carattere autoritario della nazionalizzazione delle masse che, nel caso italiano, il fascismo tradiva in modo evidente fin dalle sue origini?

Francesco Germinario

Note

  1. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, il Mulino, 1975 (ed. or. 1974).
  2. Per una bibliografia sul dibattito italiano a proposito del concetto mossiano di “nazionalizzazione delle masse”, cfr. D. Aramini, George L. Mosse, l’Italia e gli storici, Milano, F. Angeli, 2010, pp. 135-140.
  3. S. Panunzio, Lettera di uno non candidato, «Il Popolo d’Italia», 9 novembre 1919.
  4. Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna, il Mulino, 1996, p. 123 (1 ed. 1975).
  5. Cfr. G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990.