rivista anarchica
anno 42 n. 370
aprile 2012


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Del cantare gitano
Una piccola antologia. Poeti e cantori gagi che guardano il popolo Rom

L’occasione è stata l’inaugurazione del “Museo del viaggio”. La mia compagna, Patrizia Chiesa, è impegnata da ormai un anno – per conto dell’associazione SIR e assieme a Opera Nomadi e Romano Drom – nella costituzione di un museo del popolo rom. Vi renderete conto dell’estrema difficoltà di mettere in vetrina, sotto teca, l’ansia di movimento che ha caratterizzato la storia di un popolo. Per stare solo alla banale questione del reperimento di materiali, tradizione zingara è quella di bruciare ogni oggetto personale appartenuto a un gitano quando muore. Per cui già poco c’è (il poco che può stare su un carro, in una roulotte) e nulla resta. Ciò fa parte della poesia, del pensiero leggero e vagante di individui che vogliono proseguire liberi da ogni pesantezza, da ogni accumulazione. Iattura però per noi che li amiamo, ma che abbiamo il bisogno di tenere e poi di archiviare per poter conoscere. La nostra cultura è basata sull’accumulazione di dati, di documenti, di manufatti.
L’occasione, dicevo, è stata il 7 ottobre 2011, data dell’inaugurazione di questo museo a cielo aperto che coincide col campo nomadi, o quanto meno una parte di esso, in via Impastato a Milano, zona Rogoredo. Il campo della famiglia Bezzecchi, per fare un nome noto su queste pagine.

Milano, Museo del Viaggio Fabrizio De André, 14 febbraio.
Presentazione del volume di Walter Pistarini Il libro del mondo.
Le storie dietro le canzoni di Fabrizio De André
(Giunti).
Al centro, l'autore. Alla sua destra Alessio Lega

Il museo è intitolato a Fabrizio De André, soprattutto perché è l’autore di Khorakhané, canzone scritta in consulenza con lo stesso Giorgio Bezzecchi. Questa intitolazione è la testimonianza di un’apertura fortemente voluta, di un processo che dovrebbe condurre “dallo stereotipo alla conoscenza”, di un omaggio anche a un cantore che è riuscito con una sola canzone a suscitare emozione, interessi e dubbi nella crosta di diffidenza che separa anche certi uomini di buona volontà dai Rom. Poco si calcola il potere immenso di una canzone del genere. Non è solo una canzone di eccezionale valore letterario cantata da un autore carismatico, ma è soprattutto la canzone dove “il cuore rallenta e la testa cammina”, tenendo sapientemente in asse l’emozione e la ragione, evitando di regalarci un bozzetto zingaro, ma componendo il piccolo poema che illustra le tappe di un popolo in cammino, che indica la strada della reciproca comprensione, che accusa ma anche che solleva. Un capolavoro ma ancor di più una canzone di preziosa utilità all’incontro.
Il fatto che il popolo Rom, o quanto meno la parte più illuminata di esso, con il gesto dell’intitolazione, abbia riconosciuto il valore poetico e potenzialmente profetico di una canzone d’autore, è motivo d’orgoglio per me che credo nell’utilità di quella “poesia per tutte le tasche” che è appunto la canzone (la definizione è di Brassens).
Anche in questo caso però la mia sensibilità vuole vedere in Fabrizio De André la punta di un iceberg sommerso. L’autore più visibile di una corrente carsica di poesia che rotola libera come un seme portato dal vento per germogliare a caso nel cuore degli uomini. Dei più inaspettati, dei più necessari.
«Costruiamo un piccolo concerto» mi son detto «dove mettere assieme le più belle e meno scontate canzoni sugli zingari, sulla diversità, sul viaggio». L’elemento musicale è senz’altro un elemento di grande contiguità. La musica viaggia, i musicisti provano a starle dietro… e poi il più grande chitarrista della musica moderna e il più noto artista gitano non coincidono forse nel manouche Django Reinhardt?
Ne è emersa un’antologia, in continua fase di censimento e crescita, che propone un originale approccio all’imprendibile mondo gitano.
Quello che leggete qui sotto è uno splendido brano di Léo Ferré che risale al 1962. Ritmicamente forsennato, insopprimibilmente vitale, il canto procede per frammenti d’illuminazione, ma contiene moltissimi dei temi più importanti coi quali questo popolo pare interrogarci. L’ultima strofa poi, con quel rovesciamento delle parti, nelle quali il gagio chiede “in prestito” i peccati del popolo rom, quasi fossero una patente per il viaggio, è di una straordinaria finezza. Il popolo Rom non ha alcun senso di colpa, è il gagio che imprigionato nelle sue sbarre quotidiane ha bisogno di un “peccato”, di una “colpa” per trovare la forza di evadere.

Les Tsiganes

Ils viennent du fond des temps
allant et puis revenant.
Les Tziganes.
Ce sont nos parents anciens
les Indo-Européens.
Les Tziganes.
Cheval maigre et chien perdu dans la nuit bleue
quand je passe, je n’ai pas peur d’eux...

Tu es noir comme l’été
quand le soleil m’a brûlé.
Ô Tzigane
Tu fais des paniers d’osier
pour avoir un peu d’osier.
Ô Tzigane.
Le temps t’a hâlé le teint de cuivre et d’or
le soleil est jaloux quand tu sors.

Ils ont des châteaux roulants
quatre roues meublées de vent.
Les Tziganes.
Ils vont traînant mon destin
dans les lignes de ma main.
Les Tziganes.
Le bonheur, c’est un chagrin qu’on a manqué
aussi, je cours pour le rattraper.

Tu marches depuis des temps
La route roulant devant
Ô Tzigane
Quelle faute as-tu commis
Pour devoir bouger ainsi?
Ô Tzigane
Je ferais n’importe quoi pour m’en aller
Ô Tzigane, prête-moi tes péchés.

Gli zigani

Vengono dalla notte dei tempi
tornano e poi vanno.
Gli zigani.
Sono i nostri
avi indoeuropei.
Gli zigani.
Cavalli magri e cani randagi nella notte blu
quando passo vicino non ho paura.

Tu sei nero come d’estate
quando il sole mi ha scottato.
O zigano.
Intrecci panieri di vimini
per fare un po’ di grano
O zigano.
Il tempo ti ha virato il colorito di rame ed oro
anche il sole è geloso di te.

Hanno castelli mobili
quattro ruote arredate di vento.
Gli zigani.
Trascinano il mio destino
nelle linee della mano.
Gli zigani.
La felicità una tristezza mancata
così le corro appresso.

Cammini da sempre
con la strada sempre avanti.
O zigano.
Che colpa hai commesso
per dover fuggire continuamente?
O zigano.
Io che farei qualsiasi cosa per andarmene
O zigano prestami i tuoi peccati.

Quest’altro brano è una versione per musica di una poesia di Federico Garcia Lorca composta da Paco Ibanez per il suo primo disco del 1964. Il poeta andaluso è forse il primo ad aver fatto del canto gitano – molto diffuso nella patria del flamenco – materia grezza della propria poesia.
Qui è tutto molto più sfumato… non una descrizione di usi e costumi, ma una serie di ossessioni, di cantilene infantili, di morbosi tremori, di incubi notturni e desideri inconfessati, in questa filastrocca-dialogo fra il bambino e la luna. Il lato forse più torbido e sensuale della fascinazione per un popolo lunatico e misterioso.

Romance de la luna

La luna vino a la fragua
con su polisón de nardos.
El niño la mira mira.
El niño la está mirando.
En el aire conmovido
mueve la luna sus brazos
y enseña, lúbrica y pura,
sus seno de duro estaño.

Huye luna, luna, luna.
Si vinieran los gitanos,
harían con tu corazón
collares y anillos blancos.

Niño, déjame que baile.
Cuando vengan los gitanos,
te encontrarán sobre el yunque
con los ojillos cerrados.
El jinete se acercaba
tocando el tambor del llano
Dentro de la fragua el niño
tiene los ojos cerrados.

Huye luna, luna, luna,
que ya siento sus caballos.
Níno, déjame, no pises
mi blancor almidonado.

¡Cómo canta la zumaya,
ay cómo canta en el árbol!
Por el cielo va la luna
con un niño de la mano.
Dentro de la fragua lloran,
dando gritos, los gitanos.
El aire la vela, vela.
El aire la está velando.

Huye luna, luna, luna,
que ya siento sus caballos.
Níno, déjame, no pises
mi blancor almidonado.
.

Romanza della luna

La luna venne alla fucina
col suo sellino di nardi.
Il bambino la guarda, guarda.
Il bambino la sta guardando.
Nell’aria commossa
la luna muove le sue braccia
e mostra, lubrica e pura,
i suoi seni di stagno duro.

Fuggi luna, luna, luna.
Se venissero i gitani
farebbero col tuo cuore
collane e bianchi anelli.

Bambino, lasciami ballare.
Quando verranno i gitani,
ti troveranno nell’incudine
con gli occhietti chiusi.
Il cavaliere s’avvicina
suonando il tamburo del piano.
nella fucina il bambino
ha gli occhi chiusi.

Fuggi, luna, luna, luna
che già sento i loro cavalli.
Bambino lasciami, non calpestare
il mio biancore inamidato.

Come canta il gufo,
ah, come canta sull’albero!
Nel cielo va luna
con un bimbo per mano.
Nella fucina piangono,
gridano, i gitani.
Il vento la veglia, veglia.
Il vento la sta vegliando.

Fuggi, luna, luna, luna
che già sento i loro cavalli.
Bambino lasciami, non calpestare
il mio biancore inamidato.

Varrà forse la pena di ricordare come i fascisti spagnoli fucilassero Garcia Lorca proprio all’inizio della rivoluzione, nel 1936 nella sua Granada. Il poeta era certo di sentimenti antifascisti, ma quintessenza della più pura innocenza colpisce la foga di abbatterlo, come un pericolosissimo oppositore. Certo la chiacchierata omosessualità fu un movente del crimine – lo chiamavano «il frocio col farfallino» e il suo carnefice si vantò «di aver sparato in culo a quel finocchio» – ma soprattutto la libertà di aria e di tensione di questo genio della lingua mossero alla sete di sangue i nemici del genere umano. Non è un caso se fu uno dei primi a sentire e a legare a sé il nome del popolo Gitano.
E poi c’è questa canzone di Francesco De Gregori, un esempio di come si possa fare del romanticismo post-moderno. Il linguaggio è quello cui ci ha abituati il cantante romano soprattutto all’inizio della sua carriera (il brano è del 1978): giustapposizioni visive che, con una loro grazia ed ermetica giocosità, si aggregano fino a comporre un quadro colorato e solo all’apparenza indecifrabile.

Due zingari

«Ecco stasera mi piace così
con queste stelle appiccicate al cielo
la lama del coltello nascosta nello stivale
e il tuo sorriso trentadue perle»
così disse il ragazzo
«nella mia vita non ho mai avuto fame
e non ricordo sete di acqua o di vino
ho sempre corso libero, felice come un cane.
Tra la campagna e la periferia
e chissà da dove venivano i miei
dalla Sicilia o dall’Ungheria
avevano occhi veloci come il vento
leggevano la musica nel firmamento»

Rispose la ragazza «ho tredici anni
trentadue perle nella notte
e se potessi ti sposerei
per avere dei figli con le scarpe rotte
girerebbero questa ed altre città
a costruire giostre e a vagabondare
ma adesso è tardi anche per chiacchierare».

E due zingari stavano appoggiati alla notte
forse mano nella mano
e si tenevano negli occhi
aspettavano il sole del giorno dopo
senza guardare niente
sull’autostrada accanto al campo
le macchine passano velocemente
e gli autotreni mangiano chilometri
sicuramente vanno molto lontano
gli autisti si fermano e poi ripartono
dicono c’è nebbia, bisogna andare piano
si lasciano dietro un sogno metropolitano.

La narrazione sentimentale risulta per converso chiarissima, se la si prende sotto il profilo delle libere associazioni con cui procede il discorso interiore. Certo, contrariamente a Khorakhané o al brano di Ferré, qui la scelta di parteggiare senza alcun distacco critico per i due giovani zingari assunti a emblema della libertà è palese, e il brano è alla fine il più letterario dei tre. Ma l’ambientazione suburbana accennata per le prime due strofe, e protagonista dell’ultima, è una trovata geniale per spiazzare e rendere coerenti questa sorta di “zingari universali” ai nostri occhi.

Museo del Viaggio Fabrizio De André

E nulla sul Porrajmos?

Il Porrajmos, come certamente sapete, è l’omologo Rom della Shoa, la persecuzione e il tentativo di annientamento da parte dei nazi-fascisti, di alcune famiglie dell’umanità. Su questo tema c’è un brano riportato dal bel libro del compianto Leoncarlo Settimelli “Dal profondo dell’inferno. Canti e musica al tempo dei lager”, e alcuni versi di “Khorakhané” vi alludono certamente.

I figli cadevano dal calendario
Jugoslavia, Polonia, Ungheria
i soldati prendevano tutto
e tutti buttavano via.

Però questi versi sono volutamente imprecisi, e si riferiscono tanto ai più recenti conflitti balcanici quanto alla guerra mondiale.
M’è sembrato importante portare avanti il discorso, provare a registrare la mia indignazione personale e quella di chi ha un pensiero e una cultura simile alla mia… e poi a cosa servirebbe ascoltare canzoni se non se ne potessero scrivere altre?
Ho dunque cominciato a percorrere quella smilza bibliografia che è reperibile sull’argomento, il doppio DVD pubblicato proprio dall’editrice A “A forza di essere vento” e il libro “Il Porrajmos dimenticato” edito da Opera Nomadi. L’incertezza cresceva, nelle parole dell’ex-deportato Mirko Levak che dice «Io ancora non ho capito, perché ci odiavano tanto quei tedeschi?...diciamo ebreo si, perché ebreo era ricchezza… ma il zingaro, cosa faceva?... io ancora da capire perché uccidevano zingaro».
C’è in queste calme parole il senso di una tragedia non solo devastante, ma incompresa, senza definizione e quindi senza fine e senza nuovo inizio. A questo si aggiunge la prescrizione Rom di non parlare mai dei morti. Così se le vittime e i loro eredi non hanno coscienza e memoria, dove troveremo noi l’orrore per ciò che è stato fatto? La coscienza di quelle ripugnanti leggi razziali che, codificando una teoria di editti che vanno dal medioevo ai nostri giorni, testimoniano l’odio e la paura per gli eterni stranieri?

Alessio Lega

Ho perciò scritto una ballata nella quale torna la “luna” di Garcia Lorca, le parole di Fabrizio De André quando diceva che se gli zingari rubano, quanto meno non lo fanno tramite banca, e soprattutto torna la coscienza nera del popolo italiano, che troppo spesso si considera solo il complice, il “palo” dell’alleato nazista.
Lui vero colpevole e noi “brava gente”. Per questo ho evocato invece il nome dell’italianissima Risiera di San Sabba e dell’orrido giornale di Telesio Interlandi “la difesa della razza”, come pure “il manifesto degli scienziati razzisti” (non sto scherzando… si definivano proprio così!). Ma soprattutto l’idea che noi non possiamo distogliere la memoria dal Porrajmos, perché ne portiamo addosso una macchia che si rinnova ogni volta che il nome del popolo Rom viene pubblicamente infamato.

Si bruci la luna (Porrajmos)

Che fastidio questa luna… da mille anni sulla terra
senza mai fondare stato senza mai portare guerra
senza mai fondare banche non accumulando niente
qualche volta anche rubando per sfamare la sua gente…
E poi via di balza in balza, che la luna non si ferma
coi suoi carri e via sobbalza, luna che tira di scherma
coi suoi raggi inargentati, quell’argento maledetto
dentro il cuore dei soldati, gli agitava tutto il petto.
Come il cuore non si arresta come il tempo non aspetta
come tutto è una gran festa movimento, amore, fretta...
«Si bruci anche la luna con le stelle che di noi non han rispetto
che attraversa il buio e ride, che non ha sale d’aspetto»
così dissero i nazisti quando chiusero la gabbia
degli zingari nel campo di risiera di San Sabba.
«Si bruci anche la luna misteriosa che sa leggere le carte
sul violino della sposa sulla giostra che riparte»
così dissero i fascisti in difesa della razza
così vollero i razzisti della scienza che ti ammazza.
Così vollero fermare
quel gran viaggio della vita
così vollero bruciare
la speranza inaridita.
Rimasero i campi deserti
e il cielo disabitato
i vivi più morti dei morti
nel crematorio di Stato.
Quei pochi tornarono al viaggio
senza un momento di gloria
“Porrajmos”: un nome selvaggio
non soldi, rispetto o memoria.

Ripresero i carri più lenti
«parlare dei morti è sfortuna»
stringendo il silenzio fra i denti
una cicatrice di luna.
Ma in cielo una ferita resta aperta nel bel mondo ch’è rinato
che si scorda sempre tutto per ripetere il passato
questa pioggia che cadendo pare proprio abbia gridato
«c’è un Porrajmos dentro il campo che anche oggi han sgomberato»
E brucia ancora luna, brucia ancora dentro il mondo che è lo stesso
Dove chi non sa non può non vuole stare al compromesso
è uno zingaro, un nemico, è un colpevole, un diverso
e tu luna brucia ancora brucia sempre brucia adesso

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

Il Museo del Viaggio Fabrizio De André

In un piccolo campo regolare Rom, a Rogoredo, estrema periferia est di Milano, incastrato tra gli svincoli di un’uscita della tangenziale, è attivo da alcuni mesi il Museo del Viaggio Fabrizio De André. Un container quadrato, che contiene i documenti, i libri, i video, il tavolo e le sedie per una ventina di persone, insomma il centro di doumentazione/sala conferenze.
E intorno caravan, carri, pentole di rame, oggetti tipici della cultura e della vita Rom. E fa parte del Museo del Viaggio anche una bella casetta, in cui vivono alcuni Rom. Val la pena andarci, magari in occasione di una delle iniziative e conferenze là promosse.

Museo del Viaggio Fabrizio De André,
via Impastato 7, Milano, aperto tutti i giovedì ore 15-19.
Per informazioni e prenotazioni:
museodelviaggio@gmail.com
tel. 334 543 23 52.