Venice
rock’n’roll
Potrebbe essere un libro che, dopo aver acceso una scintilla
di curiosità, scivola via indolore e si fa dimenticare
con una certa fretta: alla fine sono solo –e sottolineo
solo- ritratti di ragazzi con musiche varie, file under “dramma
personale di poveri sbarbi” piuttosto che under “revival
degli anni Settanta-Ottanta”. Roba da consumare in fretta,
impegnandoci quel giusto di curiosità e di attenzione
per cavarsela in poco tempo, con poca spesa. Sembra un libro
così così, insomma, e invece no: leggendo si
resta invischiati in certe suggestioni come quando capita
tra le mani una fotografia inattesa in cui ci si riconosce
lì sullo sfondo, ci si vede sì ma non ci si
ricorda di cosa e di come e di chi e di quando.
Se non vi accontentate di grattare appena appena in superficie,
vi sorprenderà di “Venice rock’n’roll”
(ed. Fernandel, 14 euro) il ritmo lento, la velocità
ridotta: in queste storie ci si cammina dentro riuscendo ad
ascoltare il suono dei propri passi e il battito del cuore,
il tempo – le ore, i giorni, gli anni – che prende
un peso, una consistenza ed una sua prospettiva, acquista
importanza, un significato. La cosa funziona meglio se si
ha una certa età: è piuttosto impegnativo conservare
quel minimo di credibilità spiegando a un ragazzo di
oggi come si poteva sopravvivere a sedici-diciott’anni
senza personal computer né mp3, senza telefonino né
videogiochi. La cosa funziona ancora meglio se a Venezia ci
siete già stati e vi ci siete persi, preferibilmente
se vi ci siete persi apposta.
Con il grande pregio della semplicità, Paolo Ganz racconta
la vita di un ragazzo di Venezia che ama la musica, e che
di essa si nutre, e cresce. La città è un personaggio
importante del libro (sarà difficile riconoscerla senza
il travestimento ufficiale del carnevale), così come
ne sono parte importante i veneziani, la gente normale, che
a guardarla da così vicino è tutt’altro
che normale. E c’è proprio Paolo dentro le storie:
ci siamo incontrati tempo fa e poco dopo persi di vista, ed
era curioso che potessimo avere così tanto in comune.
Da ragazzini ci separavano i chilometri lunghissimi e tutti
diritti del ponte della Libertà, io a crescere confuso
in terraferma in un quartiere in crescita sregolata, lui occupato
a restare a galla in una zona che avevano destinato a morte
lenta. Eppure quanti sogni e quanti suoni abbiamo condiviso.
Sembra ieri. Eccolo che inizia a raccontare e quell’aria
l’ho sentita subito familiare: quei pochi soldi in tasca
a certificare la fratellanza coi tuoi compagni e a cementarla,
quell’intreccio tra frustrazione e meraviglia per una
chitarra inaccessibile dentro a una vetrina, la gioia che
attanaglia lo stomaco per un vecchio amplificatore usato finalmente
tutto nostro, i ragionamenti persi dietro a quelli che cantavano
e suonavano dentro ai dischi. I dischi, i dischi: erano le
chiavi che aprivano le porte della fantasia, oppure reliquiari
da custodire come cavalieri templari. Di certo non li si trattava
come banali cerchi di vinile nero da piazzare sul giradischi
di Selezione (era la stessa roba velenosa che maneggiavano
i nostri padri negli stabilimenti, ma nessuno ci aveva ancora
fatto caso): girando, certi erano capaci di scatenare tempeste,
arcobaleni, spiriti.
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Paolo
Ganz |
Paolo racconta abilmente lo spaesamento di quegli anni lenti,
le fughe timide e brevi dello sguardo verso il cielo, le chitarre
di sottomarca con le corde così vecchie e dure da far
gonfiare e sanguinare la punta delle dita, gli strati di strafottenza
sotto a cui nascondevamo l’incertezza, l’immaginazione
nucleare che ci permetteva di trasformare i fustini del detersivo
in una vera batteria e una cantina umida in una sala prove
attrezzata. Sono storie che sono anche un poco mie. Mi piace
questo modo di raccontarsi senza imbarazzo, sapendo prendere
le misure di sé stessi con calma: scegliere di non
mentire è una scelta politica precisa.
Se seguite il cuore non vi sembrerà poi strano che
il blues, quello che di certo conoscete, rimbalzando tra le
pareti strette delle calli acquisti un riverbero nuovo, quasi
un’eco troppo corta che improvvisamente esplode lanciandolo
in volo a pelo d’acqua tra gli spazi orizzontali grigioazzurri
della laguna.
Il libro fa ridere, fa riflettere, fa diventare tristi e spesso
le tre cose accadono contemporaneamente. Le storie però
restano lì sospese, non si lasciano avvicinare più
di tanto, restano guardinghe a una certa distanza: a suo modo,
l’autore è uno di quei gatti solitari padrone
di un tratto di calle non ancora espropriato per ragioni turistiche,
cugino povero e senza ali del leone ufficiale ma con la sua
dignità intatta. C’è una malinconia di
cui è difficile tracciare i contorni e che si incontra
spesso, quasi ad ogni giro di pagina: non scambiatela per
rimpianto, nostalgia, per voglia di ieri. Prendetela per nebbia,
piuttosto, un effetto collaterale della nebbia che cala sulla
laguna. Nebbia sempre uguale, grigia, pesante, a cui non ci
si abitua mai.
Marco
Pandin
stella_nera@tin.it
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