rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


No Tav

L’altrove che si fa qui

di Maria Matteo

Una lotta che va avanti da anni. E che negli ultimi mesi ha conosciuto accelerazioni e momenti di svolta. Le riflessioni di una militante della Federazione Anarchica Torinese che in valle è presente dall’inizio, tanti anni fa.

 

Il lungo inverno dell’incertezza si è rotto. Luca, il No Tav precipitato da un traliccio dell’alta tensione, dopo essere stato folgorato, poco a poco si sta riprendendo. È sempre in terapia intensiva ma da qualche giorno respira senza ossigeno: ci vorranno lunghi mesi e tante altre sofferenze per curare le gravissime ustioni che gli hanno inciso le carni.
Era il 27 febbraio e Luca era salito sul traliccio per rallentare l’azione delle ruspe e della polizia che quel giorno si presero la Baita No Tav e allargarono il fortino.
Erano passati solo due giorni dalla grande manifestazione popolare da Bussoleno a Susa. Tanti piemontesi e tanta gente venuta da fuori per dire no al Tav ed esprimere solidarietà ai No Tav arrestati il 26 gennaio per la resistenza allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena.
Il giorno successivo, a Villarfochiardo, in un’assemblea affollata ma difficile il movimento No Tav si interrogava sulla strada da prendere per mettere finalmente in difficoltà l’avversario, dopo dieci mesi di resistenza e nove di occupazione militare.

Giorno dopo giorno, notte dopo notte

Il quadro non era più quello del 2005. Nel 2005 tutto era nuovo, facile come la scoperta della vita che si apre, difficile come ogni volta che si fa qualcosa di non saputo. Aurorale. Si vinse e non si credeva che fosse vero, si vinse di slancio, gettando il cuore oltre l’ostacolo e trovandosi poi in tanti a fare la strada giusta. Se si fosse ascoltato il cuore, quel cuore che batteva al ritmo della lotta popolare, dopo la rivolta del dicembre, non ci si sarebbe fermati. Cominciava il walzer delle poltrone: il movimento aveva detto “no” agli amministratori che volevano il tavolo di trattativa offerto da Berlusconi. Ma dire “no” non basta. Bisognava restare in strada, non mollare: il governo aveva paura delle barricate, dei blocchi, della gente che spontaneamente aveva risposto alla violenza e all’occupazione militare.
Sei anni dopo, di tavolo in tavolo, il gioco degli inganni è andato avanti, tra walzer e giravolte, per logorare, sedurre, comprare. Nel maggio del 2011 la parola è tornata alle armi. Quasi dieci mesi di lotta, giorno dopo giorno, notte dopo notte.
Ci sono state giornate di resistenza, cortei, assemblee e mille incontri, cibo condiviso: la solidarietà di uno sguardo scambiato a metà notte mentre ci si incrocia su per il sentiero, tra un turno di guardia e l’altro. Ci sono stati i cortei dei tutti quanti e le giornate alle reti. Le botte, gli arresti, i gas che mozzano il respiro, la violenza dei media scatenati. Hanno provato a dividerci ma non ci sono riusciti. I buoni e i cattivi, gli ingenui valligiani e i guerriglieri venuti da fuori, quelli con la bandiera e i black bloc sono rimasti incastrati nelle penne malevole di certi giornalisti.
Il governo teme una rivolta che dilaghi da Torino all’alta Valle, teme che si ripetano gli scenari del 2005, per questo ha scelto con cura il luogo dove sferrare l’attacco e aprire una guerra di posizione e di logoramento: una zona isolata, difficile da raggiungere, dove si può gasare come in guerra e poi raccontare che i No Tav sono violenti.
Hanno dimostrato di aver imparato la lezione del 2005. Hanno puntato sui gas e le recinzioni. Un procuratore di stretta osservanza “Democratica” come Caselli si è assunto il compito di distribuire centinaia di denunce, decine di fogli di via, ordinare perquisizioni ed arresti.

Un’altra via, diversa dalla rassegnazione

L’8 dicembre, nel sesto anniversario della ripresa di Venaus, un corteo di tutti quanti, aperto dai bambini, aveva bloccato l’autostrada per oltre 14 ore. Un passaggio importante. Alcuni attivisti ci avevano creduto poco, attratti magneticamente dalle reti della Val Clarea, dal catino militarizzato predisposto dallo Stato per dare la propria prova di forza. La gente invece ci aveva puntato, convinta che fosse tempo di cambiare strategia. Lo aveva sancito in assemblea e poi realizzato con semplicità e coraggio l’8 dicembre.
Quello stesso 8 dicembre in Clarea si è ripetuto una schema visto e rivisto. Gli accessi dai sentieri principali bloccati dalla polizia, i manifestanti che arrivano facendo giri lunghi e non percorribili da tutti. Al fortino la polizia si scatena con i gas, esce dal fuori e carica. A fine giornata i feriti non si contano. Tre, colpiti dai bossoli sparati ad altezza d’uomo, sono gravi: un operaio padovano di cinquant’anni ci rimetterà un occhio e dovrà essere operato più volte al volto.
Una giornata che lascia il segno. Sono sempre di più gli attivisti che vogliono un’inversione di rotta, ma realizzarla non è facile. Da un lato i gruppi più moderati e i rappresentanti istituzionali premono perché il movimento rinunci all’azione diretta, dall’altro l’area post-autonoma punta sulla lotta di lungo periodo, sulla strategia di logoramento dell’avversario, sulla battaglia di trincea, su lunghi inverni di quiete interrotti da assedi estivi. Ma l’8 dicembre ha indicato anche un’altra via, diversa dalla rassegnazione, come dal testardo insistere nella pressione sul fortino.
Quella giornata ha rappresentato una sorta di spartiacque in questa fase della lotta al Tav. Per il governo di turno è più facile trattare le questioni sociali come affari di ordine pubblico, finché il dissenso, per quanto ampio, si concentra nell’assedio al fortino della Maddalena.
Il blocco dell’autostrada mette in difficoltà l’apparato militare, che la usa per i cambi turno e per i mezzi pesanti, crea danni alla Sitaf, la società che gestisce la A32 e ha aperto uno svincolo che immette direttamente nell’area del futuro cantiere. Il blocco dell’autostrada può essere fatto da tutti e riprodotto ovunque.
L’8 dicembre la lotta popolare ha cominciato a riprendere il proprio ritmo. Il ritmo di chi si mette di mezzo, scegliendo da se i luoghi e i tempi. Il ritmo di chi non delega a nessuno, soprattutto a chi gioca anche oggi il walzer delle poltrone sulla pelle di tutti.
La Procura, nell’ordinanza di arresto del successivo 26 gennaio punta l’indice sulla Libera Repubblica della Maddalena, ne cita l’autonomia, la partecipazione, la libertà. Segno inequivocabile che un movimento popolare mette paura anche agli specialisti della repressione. D’altro canto nessun potere, foss’anche il più dispotico, può permettersi di fare a meno di un po’ di consenso: assicurandosi almeno l’indifferenza dei più.
Non per caso il governo alza la posta, sperando che i No Tav, si infilino da soli in un cammino senza uscita. Decidere di attaccare la baita e, senza aver fatto le procedure per l’occupazione temporanea, prendersi con la forza i terreni dove è previsto lo scavo del tunnel geognostico, è segno della volontà di piegare i No Tav per far abbassare la testa ai tanti che considerano il movimento contro la Torino Lyon un punto di riferimento per le lotte e le resistenze di mezza Italia.
L’assemblea del 26 febbraio deciderà – pur tra mille dubbi e perplessità – di resistere ancora in Clarea: in prima fila un gruppo di anziani incatenati agli alberi. Ma il governo e il caso scompaginano tutto: le truppe si muovono nella notte di quella stessa domenica, i sentieri vengono chiusi, i No Tav non possono avvicinarsi, i quindici alla Baita vengono circondati, solo Luca riesce a intrufolarsi. La polizia gli lancia alle spalle un rocciatore: vuole chiudere in fretta, obbligarlo a scendere, mettere la parola fine alla giornata facendosi forte delle migliaia di uomini in armi concentrati nel catino della Maddalena. Luca non si arrende e sale più in alto. Solo per un caso fortunato la sua vita non finisce quel giorno.
Il gravissimo incidente di Luca mette fine ai dubbi del giorno precedente. La lotta popolare riprende il suo ritmo: tre giorni di blocco della A32 ridanno visibilità al movimento e mettono in difficoltà la polizia. Quando il ministro dell’Interno decide lo sgombero, gli uomini in divisa pestano gasano, umiliano, rastrellano sotto gli occhi di numerose telecamere. Anche nel fronte dell’informazione irreggimentata si aprono delle crepe.
Uscire dal catino della Clarea, dalla trappola allestita dallo Stato, che vuole nascondere la militarizzazione del territorio e la resistenza dei No Tav, mette in difficoltà un avversario che usa armi da guerra come i gas CS e poi intesse elegie alla non violenza.

In ogni angolo d’Italia

I No Tav non mollano. Giorno dopo giorno si moltiplicano le iniziative. Dopo lo sgombero della A 32 si torna ancora in autostrada, cambiando luogo e senso all’agire: una volta si blocca, un’altra si erige un barricata e si va, un’altra ancora si aprono i cancelli e si fanno passare gli automobilisti gratis.
La lotta popolare trova il proprio ritmo, con azioni cui possono partecipare tutti.
In ogni angolo d’Italia ci sono manifestazioni, blocchi, presidi, occupazioni. La lotta No Tav è divenuta un affare nazionale, perché l’opposizione al supertreno è lotta contro lo sperpero di denaro pubblico, spinta alla partecipazione diretta, rifiuto della delega in bianco, della logica della merce, del profitto ad ogni costo, della violenza di Stato come strumento di regolazione dei conflitti.
La posta in gioco è alta. Lo sa il governo, questo o qualsiasi altro venga dopo, lo sappiamo noi. Non si tratta solo di contrastare uno sporco affare, non è più solo lotta al malaffare pubblico o per la tutela di case, alberi, stili di vita. Tra Torino e Chiomonte sta capitando qualcosa che sarebbe potuto accadere ovunque. Si è rotto l’equilibrio che consente ai governanti di assoggettare i governati, di farli sudditi. Alla faccia della logora retorica democratica in questo poker con carte truccate tanta gente ha deciso di buttare le carte e di cambiare gioco, di fare da se le proprie regole, di sperimentare, giorno dopo giorno, il proprio percorso. Le scelte si delineano nel farsi concreto della lotta, in una sorta di laboratorio politico e sociale dove si pensa e si sceglie facendo e si agisce interrogandosi sul proprio agire.
Sarebbe potuto accadere ovunque ma è accaduto qui, perché qui, in tanti anni l’opposizione si è coniugata alla costruzione di relazioni politiche e sociali all’insegna della solidarietà, del mutuo appoggio perché qui radicalità e radicamento, resistenza e progetto, insistere nel presente e pensare il domani hanno creato l’humus adatto. Anche l’emergere di leadership carismatiche è temperato dall’intelligenza e dall’ironia. Chi si impegna di più, chi con generosità si spende per il movimento è amato e rispettato, mai posto su un piedistallo.

Costruire Libere Repubbliche

Il movimento No Tav ha accresciuto la propria autonomia nei sette anni che ci separano dai giorni di Venaus. Allora le assemblee ritmavano il nome di un leader istituzionale ma amato come Ferrentino, come i tifosi alla partita di calcio, oggi sarebbe impensabile. Oggi nessuno ha più quel tipo di delega: la parabola amara dell’ex presidente della Comunità montana, ha impresso un’accelerazione ai processi di autonomia dall’istituito, che caratterizzano questi mesi di lotta popolare.
Oggi in assemblea si plaude chi resiste, chi viene ferito, chi si spende tutti i giorni, chi riesce a dire quello che tanti pensano e vogliono, ma l’atmosfera è quella calda della relazione diretta, affettiva ma non cieca. Tenera perché di tenerezza è intessuta la nostra forza.
L’esperienza della Libera Repubblica della Maddalena ha lasciato il segno. Un segno forte. Lo scorso mese su queste stesse pagine scrivevo, tentando di riassumere in una formula agile il senso dell’agire per la libertà attraverso la libertà come “Esodo conflittuale e insieme conflitto che si radica nel presente, ne interroga le potenzialità e si assume il carico della sperimentazione. Itinerari d’anarchia. L’altrove che si fa qui.”
Nel piccolo la Libera Repubblica alludeva a questa possibilità.
Nei prossimi mesi ed anni la scommessa è costruire Libere Repubbliche ovunque, luoghi dove la comunità resistente si incontra e costruisce quello spazio altro che tanto intimorisce chi governa. Tutti i governi.

Maria Matteo