rivista anarchica
anno 42 n. 372
giugno 2012


 

La conquista
dell’inutile

Questo libro raccoglie il lungo diario tenuto da Werner Herzog durante i due anni e mezzo di lavorazione del suo film-limite Fitzcarraldo nella giungla amazzonica, tra il giugno 1979 e il novembre 1981: un’impareggiabile avventura, tra enormi difficoltà logistiche e mutamenti nel cast che, alla fine, comprenderà Klaus Kinski e Claudia Cardinale (Mick Jagger sciolse il contratto, essendo troppo occupato nell’ambiente musicale, ed Herzog scelse di eliminare il suo personaggio piuttosto che affidarlo ad un altro attore). Il regista tedesco ha definito queste pagine “più appassionanti del film stesso”.
Potrete leggere passaggi come questi:

  • Sulla lapide (del poeta pazzo Rafael Avila) si legge: le vanità del mondo/le grandezze del potere/sono chiuse nel profondo/silenzio del cimitero.
  • (…) proprio perché era stato ripudiato da tutti io avevo avuto quell’attenzione per lui e gli avevo dato lavoro.
  • (…) la vita è micidiale, sia mentre la vivi che quando finisce.
  • La famiglia che ci aveva prestato la pentola di acqua calda ci si è avvicinata, allora abbiamo preparato tonno anche per loro e gli abbiamo offerto del tè, qui funziona così, il cibo viene sempre condiviso. César dice che è una cosa talmente naturale che nella loro lingua non esiste la parola “grazie”.
  • La burocrazia (…) è (…) una spiacevole forma di organizzazione.
  • Mick Jagger (…) è venuto da noi in taxi, ma siccome l’autista si è rifiutato di procedere per gli ultimi cento metri tra le buche piene di fango, nemmeno al doppio della tariffa, l’ho trovato che camminava a tentoni al buio, in smoking e scarpe da ginnastica.
  • Ho dormito in una capanna (…) su una sorta di letto, dal quale primo ho dovuto togliere gli escrementi di topo secchi. I ratti si arrampicavano come lucertole sulle stuoie che facevano da pareti. La mattina mi sono svegliato presto e mi sono trovato davanti il muso di un porcellino d’India che mi fissava sbigottito.
  • Durante la scena una delle scimmie ha morso Mick (Jagger) sulla spalla e lui è scoppiato in una risata così sonora che sembrava di sentire ragliare un asino.
  • (…) la domanda a cui tutti volevano una risposta era se avrei avuto il coraggio e la forza di ricominciare di nuovo tutto dall’inizio. Risposi di sì, perché altrimenti sarei stato un uomo che non aveva più sogni, e senza sogni non volevo vivere.
  • La morte è ereditaria.
  • Senza prove le cose sembrano sempre migliori, altrimenti, come ripeto ogni volta, subentra una meccanica degli avvenimenti che rimane priva di una vera vitalità.
  • Di colpo si è scatenato di nuovo l’urlo infiammato di Kinski, ma questa volta non aveva niente a che fare con la situazione del campo. Gridava fuori di sé, sbraitando che gentaglia, che canaglie fossero quelli come Sergio Leone e Corbucci, quegli stronzi colossali. C’è voluto parecchio prima che Kinski fosse esausto. Le sue urla si sono poi accese di nuovo, ma brevemente, per dire che persona spietatamente non dotata, che maiale spietatamente grasso fosse Fellini.
  • (…) così nero e reale come i peccati del papa.
  • (…) l’accettazione di un evento che non ha avuto luogo modifica definitivamente tutta una vita.
  • La nostra squadra di cucina ha ucciso le quattro anatre che erano rimaste. (…) Il tacchino bianco, quell’animale vanitoso, sopravvissuto a tanti polli arrosto e anatre bollite per il brodo, è arrivato soffiando e pavoneggiandosi, ha sollevato raspando con le sue brutte zampe una delle anatre decapitate che sbatteva sanguinante le ali a terra, l’ha sistemata in una posizione per lui comoda e arrivando di corsa, violaceo, mentre emetteva dei gorgoglii di stomaco, è montato sull’anatra morente e si è accoppiato con lei.
  • Le due scimmie nere, tra le quali c’era Tricky Dick, che compare nel film come attrice, i Campas se le sono mangiate prima di partire.
  • Una cauta tristezza è calata su ogni cosa, come su antichi luoghi dell’infanzia che ora sono mutati.
  • Solo scrivendo riesco a raggiungere me stesso.

Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Nel gennaio del 2004, lo stesso Herzog scriveva: “Per ragioni che non conosco, un tempo non riuscivo nemmeno a leggere questi diari redatti durante la lavorazione del film Fitzcarraldo. Oggi, ventiquattro anni più tardi, mi è sembrato improvvisamente facile (…). Queste annotazioni non sono il resoconto delle riprese, a malapena accennate, né possono essere considerate diari, se non nel senso più ampio del termine: sono qualcosa di diverso, un paesaggio interiore partorito dal delirio della giungla. Ma nemmeno di questo sono sicuro.”

Marco Sommariva
marco.sommariva1@tin.it

 

Nicola Chiaromonte
lo sprovincializzatore

Il francese Maurice Nadeau (e così pure la scrittrice statunitense Mary McCarthy) lo ritenne uno degli ultimi “maestri segreti” di tutta una generazione, mentre per Enzo Siciliano Nicola Chiaromonte fu “un italiano del Sud Italia e talvolta persino scontroso come certi lucani possono esserlo, ma appassionato e devoto al proprio pensiero fino a soffrirne, fino ad un rabbioso silenzio di fronte alle altrui velleità…” .
Di Nicola Chiaromonte ricorrono i quarant’anni dalla morte e speriamo che tale ricorrenza sia davvero occasione tanto per rileggere articoli e opere (su tutte “Credere e non credere” e “Il tarlo della coscienza”) andati sommersi dalla polvere del tempo quanto per riscoprire il pensiero di uno degli intellettuali che “contribuì a sprovincializzare la cultura politica del Paese” negli anni immediati al secondo dopoguerra.
Nato a Rapolla (Potenza) nel 1905, si trasferì con la famiglia a Roma che era ancora bambino, poco più che ventenne aderì a Giustizia e Libertà fiancheggiando il gruppo del suo maestro Andrea Caffi, sostenitore di un socialismo proudhoniano e libertario in contrasto con quello liberale dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Perseguitato dal regime fuggì a Parigi dove si ritrovò tra la schiera degli antifascisti italiani in esilio, nel 1936 volle andare in Spagna a combattere contro le armate di Franco affiancando la pattuglia aerea dello scrittore francese André Malraux. Uscito traumatizzato dall’esperienza spagnola, Chiaromonte divenne un antimilitarista convinto. “Dopo l’esperienza che ho fatto in Spagna - scriverà - non mi è possibile di vedere la guerra come mezzo utile per risolvere le cose”. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti, qui collaborò con le prestigiose riviste avanguardiste “Partisan Review” e “Politics e si ritrovò negli ambienti letterari frequentati, tra gli altri, da Hannah Arendt, Meyer Shapiro e dalla stessa Mary McCarthy. E grazie pure a questa sua breve parentesi oltreoceano che Chiaromonte, una volta definitivamente rimpatriato, si andò affermando anche da noi in quel maestro che “ha insegnato a scrivere ad almeno due generazioni d’intellettuali” .
Lavorò al “Mondo” di Pannunzio come critico teatrale, i suoi articoli era molto letti e commentati, perché l’evento scenico era in lui solo un pretesto per insolite osservazioni filosofiche e valutazioni politiche. Ma tutto il percorso intellettivo di Nicola Chiaromonte è più marcatamente cementato all’esperienza di “Tempo presente”. La rivista che fondò nel 1956 con Ignazio Silone e andò ad affermarsi per la sfida sferrata alla degenerazione illiberale del socialismo, l’appoggio agli intellettuali francesi che si schierarono contro la guerra d’ Algeria, l’opposizione (tenace) alla sinistra stalinista e leninista.
Probabilmente Chiaromonte dalle pagine di “Tempo presente” commise l’errore di liquidare sommariamente sia Marx che Gramsci, ma a lui bisogna riconoscere la fermezza con cui difese il primato della morale in politica, le insistenti denunce contro la corruzione, la partitocrazia, la salda volontà nel voler progettare crescere una rivista culturalmente non sottomessa tanto al marxismo-leninista che alla chiesa cattolica e all’idealismo crociano. L’esperienza di “Tempo presente” purtroppo finì malamente nel 1968 a causa di uno strano scandalo internazionale e che vedeva sullo sfondo l’oscura longa manus della Cia. Negli ultimi anni della sua vita Nicola Chiaromonte lavorò all’Espresso dove si confermò in un principe della critica teatrale.
Morì a Roma il 18 gennaio del 1972 colpito da un improvviso infarto nella sede Rai di via Mazzini, poco prima che si apprestasse a registrare un programma radiofonico La sua opera più importante rimane “Credere non credere”, una raccolta di saggi su Tolstoj, Stendhal, Malraux che uscì per Bompiani nel 1971. E su queste pagine che ritroviamo pillole del suo pensiero estremamente non datato. Chiaromonte sta pienamente inficiato dentro le tensione del nostro tempo quando scrive(va): “La nostra non è un’epoca di fede, neppure di incredulità. È un’epoca di malafede, di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine”.

Mimmo Mastrangelo

 

Cinema rumeno
“La ricostruzione” di Lucian Pintilie

Ancora per tutti gli anni ’60 il cinema rumeno era ampiamente demodulato tanto nelle scelte stilistiche quanto nei processi di una originale ideazione narrativa. La crescita cinematografica, quantomeno nel senso di una coscienza liberata del proprio dire e dei rapporti dialettici tra arte e socialità, avvenne più oltre per effetto del condizionamento abbondantemente determinato da quel fenomeno di lentissimo disgelo che ha in qualche modo limitato il controllo totale della gerarchia burocratica sui modi dell’espressione cinematografica del paese.
Pure in queste condizioni, i cineasti hanno saputo comporsi in un margine di azione autentica che ha prodotto opere estremamente interessanti e, in alcuni casi, compiute proprio entro le ragioni di una specifica appartenenza geoculturale. Lucian Pintilie è l’autore che più si sottrae agli adescamenti della complicità ideologica con il regime; quantunque isolato e posto ai margini da una cultura d’apparato grigiamente ufficiale, fino poi all’esilio, Pintilie ha assunto un’autorevolezza intellettuale sapientemente congiunta al ruolo simbolico che la sua stessa opera ha prodotto. Pintilie esordisce coltivando interessi prevalentemente teatrali sui palcoscenici di Bucarest, dove metterà in scena opere del rumeno Ion Luca Caragiale e di altri drammaturghi europei contemporanei con spirito acre e modi di effettivo e non compiaciuto sperimentalismo.

Un fotogramma dal film “La Ricostruzione”

Il suo primo lungometraggio giunge nel 1965 con Domenica alle sei, opera che seppe rappresentare un atto isolato di rottura per via della sua statura linguistica alternata tra attitudine fenomenologica e rovesciamento onirico, con amplissime influenze sulla concezione strutturale di cineasti inquietamente raffinati come Resnais o Antonioni. Soprattutto Pintilie muta i criteri di descrizione narrativa attraverso un’originale soggettivizzazione dello sguardo della macchina da presa che rinuncia al tracciato di mera registrazione naturalistica in favore di una sua effettiva partecipazione al racconto; il linguaggio, insomma, diviene stile, luogo di ricapitolazione estetica di quei principi che Pintilie ha propri come demitizzanti l’anonimo realismo del cinema di regime. Domenica alle sei prepara il secondo film di Pintilie, e lo prepara nella misura in cui gli artifici formali e gli istituti stilistici dell’avanguardia europea saranno resi impliciti dalla struttura meditatamente sottrattiva del nuovo racconto per immagini.
La ricostruzione (1968), dalla novella omonima di Horia Petrescu, è la storia di due giovani studenti, Ripu e Vujca, che una notte hanno festeggiato la loro promozione bevendo qualche bicchiere di troppo. Ubriachi hanno aggredito il gestore del bar, fracassato una vetrina e fatto a pugni tra di loro. Qualche giorno dopo vengono riportati sul luogo del reato da un poliziotto, un magistrato, un insegnante e una troupe cinematografica. Il giudice ha deciso che al posto della prigione, i ragazzi dovranno fare gli attori per un documentario pagato dallo Stato contro l’alcolismo. Devono ricostruire fedelmente gli eventi di quella giornata, dalla rissa con il gestore fino allo scontro finale. Quello che non era accaduto nella realtà avviene tragicamente nella finzione. Fin dalla sinossi delle sue azioni narrative, il film di Pintilie appare come un’opera allegorica che consente una complessa stratigrafia ermeneutica sulla struttura manifestamente significante del metafilm strutturato nel rispetto delle unità aristoteliche.
Come è stato scritto, “la irripetibilità dell’esperienza, la vanità del pedagogismo repressivo, la vacuità del mimetismo didascalico fondato sul “tipico”, la inautenticità della riproduzione meccanica del reale, la distruttività di ogni “ricostruzione” che nasca da una visione schematica dei “fatti” (anzi, appunto, dalla riduzione a meri fatti non più immersi nella vischiosità dell’esistenza) sono altrettanti – o meglio appena alcuni – dei motivi che si rincorrono, si intersecano, si sovrappongono, si illuminano, reciprocamente e dialetticamente, di chiaroscurate prospettive (…) scambiando i colposi con i colpevoli, la finzione con la realtà, il volontarismo pedagogico con l’intenzione delittuosa, il dolore autentico con l’artificio”. Con ogni probabilità Pintilie realizza in tempi di dittatura il film più libero e significativo dell’intera cinematografia rumena. Il principio iperrealistico della mera ricostruzione costituisce, di fatto, nel rovesciamento dei suoi paradigmi, una critica serrata al regime comunista; di più, esso perviene all’esito paradossale di restituire la pellicola non al mimetismo ma alla visionarietà.
Come documento, il film ha un valore simbolico proprio nella misura in cui utilizza la metafora come strumento inalienabile della contestazione politica; per via indiretta, intrecciando il senso di realtà con la sur-realtà dell’esperimento, Pintilie concepisce una parabola sul significato della libertà come principio di responsabilità, eluso in questo senso sia dalla grassa borghesia capitalista che dal rozzo comunismo di regime. Inutile dire che la controversia giunge, di fatto, alla negazione dell’estetica del socialismo reale (lo zdanovismo, per intenderci) attraverso la dissacrazione del soggetto del film didattico. A nostro parere, piuttosto, l’opera di Pintilie si inserisce nella dialettica del comunismo reale (dialettica negata, certo, ma in fondo modello di autentica libertà) per quel socialismo dal volto umano cui ambiscono in quegli anni i paesi dell’est.

Il regista rumeno Lucien Pintilie

L’esigenza e insieme il precipitato della dialettica politica del film è indubitabile persino in considerazione delle scelte stilistiche di Pintilie (un pervicace ossimoro filmico) e soprattutto del suo tracciato metafilmico che si rovescia e sovrappone alla critica ideologica; così come ha scritto Gianni Toti, per cui “(…) Alla fine, che cosa c’è di veramente cinematografico e di autenticamente socialista in un film come questo di Pintilie, se non la denuncia cinematografica della illusione di una “ricostruzione” della verità che sia soltanto cinematografica, culturale cioè, e non vada al di là di questa stessa denuncia di crisi conoscitiva che è anche crisi politica, etc.?”.
Così Pintilie nutre la sua parabola grottesca nell’intuizione prodromica dell’entropia e, come per Cechov o Caragiale, nella tragedia della mediocrità, nella noia dell’abitudine, nella corrosione del tempo dell’esistenza è il tramonto doloroso della storia.

Beniamino Biondi

 

Una bambina
nei lager

Trudi ha trascorso la propria infanzia inizialmente nel ghetto di Kovno e poi nel campo di concentramento e di sterminio di Stutthof in Polonia. La storia narrata in Ho sognato la cioccolata per anni (Piemme editore, Milano 2008, pagg. 181, e 9.00), di Trudi Birger, è incentrata sul rapporto intenso fra Trudi e sua madre, grazie a cui riusciranno entrambe a salvarsi.
Dal ghetto di Kovno, Trudi e sua madre furono trasferite sui treni per il viaggio di deportazione, in condizioni igieniche terribili, senza cibo e acqua. Non conoscevano la precisa destinazione del viaggio, ma tutti sapevano che si trattava di un campo di concentramento.
“Ho sognato la cioccolata per anni” di Trudi Birger è un romanzo autobiografico, in cui l’Autrice racconta la personale e tragica storia di vita. Trudi Birger, sopravvissuta agli orrori dell’Olocausto, alla fine della guerra si è trasferita a Gerusalemme, dove ha vissuto con la sua numerosa famiglia.
L’Autrice, deprivata e derubata della giovinezza, ha scelto di dedicarsi ai bambini più poveri di ogni etnia, cultura e religione, fino alla sua morte nel 2002.
Trudi Birger con grandissima modestia, consegna a tutta l’umanità un libro che tramanda gli orrori dell’Olocausto, della guerra, raccontando delle personali radici etniche e culturali, della vicenda di una madre e di una figlia che, all’interno del dramma, giurano a se stesse di essere persone migliori nella speranza di un domani di pace, di dialogo e di accoglienza tra genti, culture e minoranze.
La storia di una bambina che viene strappata dalla quotidianità di Francoforte, per trovarsi presto rinchiusa, come un animale in gabbia, nel ghetto di Kovno, in attesa di essere reclusa nel campo di concentramento e di sterminio di Stutthof. La storia di una bambina, armata solo della propria innocenza, che si lega alla madre e a tutto ciò che rappresenta, per la memoria dell’intero popolo ebraico.
Questo libro è consigliato a chiunque tenta di fare memoria dei drammi personali e mondiali che si sono consumati prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, “Per Non Dimenticare” gli orrori dei conflitti armati nella storia e per costruire contesti collettivi di dialogo, accoglienza e soprattutto pace. Da questa lettura, nella Testimonianza diretta di deportazione, comprendiamo che l’odio, la guerra, il razzismo ingenerano morte, annientamento e distruzione. La pace, la fratellanza, l’accoglienza e il rispetto dell’altro sono il pensiero e il valore che vuole trasmettere Trudi, in quanto vittima, nel suo racconto.

Laura Tussi

 

 

Dalle TAZ
all’agricoltura?

Wilson non è molto conosciuto da noi con il suo vero nome, con cui firma questa microguida filosofica all’orticultura d’avanguardia, mentre raggiunse una certa notorietà con lo pseudonimo di Hakim Bey come teorico di quelle Zone Temporaneamente Autonome che furono di moda nell’epoca in cui si vide nei centri sociali occupati & autogestiti i gangli vitali di un nuovo sommovimento liberatorio diffuso nelle metropoli e (assai meno) nelle province d’Italia.
Tramontato l’entusiasmo per il centrosocialismo reale, ricordare le Taz fa quasi tenerezza, seguita da una buona dose di sarcasmo nel pensare quanto davvero fossero temporanee quelle zone, magari durate l’attimo necessario a costruirsi un’immagine vendibile sul mercato della musica o della politica.
Nel 1999 Wilson Peter Lamborn Wilson, con Avant Gardening (Nautilus, www.ecn.org/nautilus) aggiorna il suo panorama di zone autonome con notevole lungimiranza, visto come si va oggi diffondendo la voglia di ritagliarsi pezzetti di città in cui far crescere, assieme agli zucchini, la capacità di interagire con il nostro ambiente per riprendersi, anche se solo in piccolissima parte, quella capacità del fare, di aiutare organismi a svilupparsi, di avere la pazienza di osservarli fiorire e maturare. Chi vive in campagna sorriderà con ironia di gesti così ovvi, eppure proprio perché il numero di persone che non hanno idea di quand è che maturano mandorle o pomodori è in crescita costante, muovere un timido passo per prendere le distanze dalla raggelante sterilità di un mondo senza odore, costruito su un immaginario artificioso, è già un gesto coraggioso e vivo. «Curare un orto» – sostiene Wilson – «è diventato un atto di resistenza, ma non è solo un gesto di rifiuto. È un atto positivo, una pratica».
L’autore però non sta auspicando un ritorno di massa all’agricoltura, vista come l’inizio d’ogni sciagura autoritaria. «La cosiddetta Rivoluzione agricola generò l’ascesa dei primi Stati, assieme alla schiavitù, le tasse, la guerra, i sacrifici umani e altri benefici del progresso e della civiltà». Non agricoltori dunque, ma orticoltori o giardinieri, che non inseguano il lavoro e l’economia, ma la perfezione liberata nella creazione di pezzi di paradiso, termine derivato dalla parola persiana che significava giardino. Se a questo punto volete sapere se si riesce in questo modo anche a vivere di ciò che si coltiva temo però che Wilson non sia la persona adatta a rispondere, in fondo lui vive nel Lower East Side di Manhattan, mica sull’appennino pistoiese...

Giuseppe Aiello

 

L’inclassificabile,
irrecuperabile Louise Michel

Ultima novità per la Fiaccola, un piccolo libro solo per dimensioni su Louise Michel, di Anne Sizaire, uscito per la classica collana La Rivolta. Il testo ripercorre la storia, le azioni le idee a distanza di più di un secolo dalla sua morte.

Louise Michel nasce il 29 maggio del 1830 a Vroncourt in Francia da una relazione tra una domestica, Marianne Michel, e un castellano, Etienne Demahis. Il padre, la educò alle idee illuministe di Rousseau e di Voltaire e quando morì fu per lei un duro colpo; 5 anni dopo morì anche la moglie del padre e da quel giorno cambiò la sua vita: fu cacciata dal castello e dovette portare il cognome della madre.
La sua infanzia fu ricca di stimoli: suonava il piano, dipingeva, amava la natura, gli animali e, in particolare, i gatti. Il suo rispetto e amore per gli animali è fondamentale nella storia di questa donna che persino sulle barricate della comune di Parigi pensava a salvare gli animali in difficoltà mettendo a rischio la sua stessa vita.
Fin da giovane si cimentò con la scrittura e intrattenne una fitta corrispondenza con Victor Hugo il quale le dedicò la poesia Viro Major (da cui prende il titolo questo saggio) ma soprattutto iniziò a scrivere una “Storia universale” e dei racconti.
Nel gennaio 1853 incominciò la sua carriera di istitutrice a Audeloncourt, dove ogni allievo pagava una retta mensile. Presto lasciò questa scuola e diventò direttrice di una scuola libera, perché per essere istitutrice comunale, avrebbe dovuto giurare fedeltà all’impero e si rifiutò di farlo. Louise adottò il metodo sperimentale delle classi miste; non voleva accettare la divisione per età degli alunni e attuava metodi educativi libertari
La prima volta che ebbe problemi con l’ordine costituito fu quando paragonò Napoleone III, sulle colonne di un giornale di Chaumont, a Domiziano l’imperatore romano.
Dopo qualche anno si trasferì a Parigi e da subito frequentò una scuola popolare in via Thevenat dove diede delle lezioni di letteratura e di geografia. Nella stessa scuola si riuniva il gruppo “I diritti delle donne”, frequentato dalle femministe Jules Simon, Andrè Leo e Maria Deraismes. Il gruppo rivendicava la stessa educazione per uomini e donne e lo stesso salario.
Fu la tesoriera di un comitato di soccorso ai profughi russi il cui presidente era V. Hugo. Aderì anche all’Internazionale dei Blanquisti e sostenne il giornale “Libero pensiero”, dove discusse sulla religione e sulla rivoluzione ventura:
Quando verrà l’ora e gli uomini esiteranno, allora saranno le donne che marceranno in prima fila e io ci sarò”.

Louise Michel

In seguito all’assassinio del giovane Victor Noir, ad opera del principe Pierre Bonaparte, in Louise si acuì l’odio verso la monarchia e da allora portò abiti maschili, una cappa, un cappello e un pugnale per difendersi e, sulla tomba di Noir, Louise giurò di portare il lutto per tutta la vita. Intanto il 19 giugno 1870 Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia, il 4 settembre crollò l’impero e fu proclamata la Repubblica. Andrè Leo e Louise andarono insieme a migliaia di manifestanti al municipio e reclamarono armi per andare a liberare Strasburgo. Louise intanto si esercitava al tiro a segno al luna park. Le donne parigine si organizzarono costituendo comitati e L.M. fu una delle più attive organizzatrici fino a diventare presidente del “Comitato di vigilanza della guardia nazionale della XVIII circoscrizione”. Lei fece parte sia di quello maschile che di quello femminile e disse:
tutti appartenevano alla rivoluzione... non si chiedeva di che sesso fosse uno quando si trattava di compiere il proprio dovere”.
Il 22 gennaio 1871 vi furono scontri abbastanza duri e per la prima volta prese il fucile e non lo lasciò più fino alla caduta delle ultime barricate nel maggio 1871.
La prima volta che si difende la propria causa con le armi, si vive la lotta così intensamente che si diventa come un proiettile”.
Il 1 aprile il governo di Versailles dichiarò guerra alla Comune di Parigi. L’esercito era composto da 35000 uomini, 3000 cavalli e 5000 gendarmi. Louise in quell’occasione indossò la divisa della guardia nazionale e fece parte del 61° battaglione. Quando i versagliesi andarono a casa a cercarla e presero sua madre per fucilarla, lei si consegnò per fare liberare la madre e rimase con i condannati alla fucilazione attendendo il suo turno. Fu condotta al campo di Satory e da questo trasferita a Versailles alla prigione “dei cantieri”.
Il 28 giugno iniziò il processo e durante gli interrogatori Louise ammise di essere stata infermiera nel reparto ambulanze, riconobbe gli scopi della Comune, confermò di volere l’abolizione della istituzione clericale. Al secondo interrogatorio non negò niente, disse
sono accusata di essere complice della Comune! Certo che lo sono perché la Comune voleva prima di tutto la rivoluzione sociale che è ciò che desidero ansiosamente; è un onore per me essere una delle autrici della Comune, (..) Non voglio difendermi e non voglio essere difesa, appartengo completamente alla rivoluzione sociale e mi dichiaro responsabile delle mie azioni”, alla fine del processo aggiunse: “Bisogna escludermi dalla società, siete stati incaricati di farlo, bene! L’accusa ha ragione. Sembra che ogni cuore che batte per la libertà ha solo il diritto ad un pezzo di piombo, ebbene pretendo la mia parte!
Alla fine non fu fucilata ma condannata alla deportazione. In un primo momento fu trasferita alla prigione centrale di Auberive (dipartimento della Marna) e ci restò 20 mesi. Nell’agosto del 1873 iniziò il viaggio sulla “Virginia”, una fregata a due vele che impiegò 4 mesi per arrivare in Nuova Caledonia (il 10 dicembre 1873). Durante il viaggio divenne anarchica e disse: “sono quindi anarchica perché solo l’anarchia può rendere felici gli uomini e perché è l’idea più alta che l’intelligenza umana possa concepire, finché un apogeo non sorgerà all’orizzonte”.

Nuova Caledonia, anni di prigionia

Un aspetto molto interessante su cui voglio soffermarmi della vita di Louise Michel è che una volta arrivata in Nuova Caledonia creò quasi subito un rapporto con i nativi Canachi.
La popolazione indigena purtroppo veniva considerata dalla maggior parte dei rivoluzionari come inferiore, i Canachi erano considerati dei selvaggi, con i quali non si potevano creare legami.
Contrariamente agli altri deportati, Louise invece non si da pace finché non instaura legami con loro, tanto che A.Sizaire ci racconta che una sera, L.M. decide di andare a vederli da sola, per presentarsi. Questi ultimi che, normalmente, preferiscono evitare i bianchi, l’accettano velocemente e le danno presto il nome di “chènère” che significa sorella. Diventano amici e suoi allievi, lei impara rapidamente la lingua Canaca (cosa che era assolutamente vietata) e improvvisa per loro dei corsi, in particolare di storia e di politica sociale, in piena foresta, all’interno di grotte o capanne abbandonate.
Sempre A. Sizaire ci racconta nel suo libro che L.M. alcune notti scappa dalla sua dimora per raggiungere i suoi nuovi amici e al chiarore dei fuochi, ascolta appassionatamente le leggende dei loro narratori, o discute all’infinito con i loro guaritori, i “Takata”, che la iniziano all’infusione dei fiori di Niaouli, l’albero sacro.
L.M. si mostra sempre dolce e calma con i Canachi, notevolmente aperta e attenta, completamente (o quasi) denudata dai pregiudizi razziali del suo tempo, manifesta al contrario la speranza sincera di scoprire una cultura altra, cercando di apprendere da loro tanto quanto insegna.
Chiaramente questo suo rapporto con i nativi rimane incompreso dai rivoluzionari deportati e in più attira le furie del governatore francese, personaggio onnipotente dell’isola che poteva decidere quasi su tutto senza doverne rendere conto a nessuno. Il governatore giudica con decisione questa donna pericolosa per le sue ridicole idee di emancipazione degli indigeni:
Dove andremo a finire, santo cielo, grida lui , se i Canachi adesso si mettono a parlare di oppressione
Questi richiami non spaventeranno L.M. che continuerà ad avere rapporti con i nativi, e proverà a far capire loro cosa aveva significato la Comune e la ragione per la quale lei si ritrovava al bagno penale, cosa che scatenerà le loro personali confidenze:
Quando i bianchi sono arrivati, all’inizio hanno mangiato il piatto di igname che offrivamo loro. Poi hanno tagliato i nostri alberi, portato via le nostre donne, devastato le nostre colture, ucciso i nostri animali, preso i posti che occupavano i nostri villaggi vicino ai corsi d’acqua, cacciandoci nella foresta. Non ci hanno dato niente, nient’altro che tristezza, promettendoci la terra e il cielo”.
Le raccontano la storia del progresso, la storia dell’invasione e la distruzione di tutte le culture diverse dalla nostra che nei secoli abbiamo come occidentali distrutto in tutto il pianeta.
Con somma vergogna di L.M. la maggior parte dei suoi compagni di bagno penale, considerando i Canachi inferiori a loro, al momento della loro rivolta portata avanti da Atai nel 1878, non si interesseranno alle loro sorti, Louise scrive:
Loro si battono e sono pronti a morire contro la tirannia. Voi stessi qui, deportati, banditi, esattamente per la stessa ragione…e la maggior parte di voi osa negare i loro diritti!
L’insurrezione delle zagaglie e delle fionde contro i fucili europei volge, ovviamente al disastro: diverse tribù vengono interamente decimate e duemila uomini, all’incirca, muoiono.
Passati due anni da queste rivolte, l’11 luglio 1880 arrivò l’amnistia. L.M. ritornò in Francia il 9 novembre, alla stazione di Saint Lazàre dove fu accolta da migliaia di persone. Senza stanchezza e senza soste iniziò presto a fare conferenze. Fondò la “Lega delle donne” perché voleva che le donne imparassero quali erano i loro diritti per contrastare le leggi patriarcali forti anche nei movimenti rivoluzionari.
Il 9 marzo 1883 partecipò ad una manifestazione di disoccupati durante la quale furono assaltate le panetterie, ma solo contro di lei fu emesso un ordine di comparizione e fu condannata a 6 anni di carcere. Dopo meno di tre anni di libertà fu portata prima a Saint-Lazàre e poi nel carcere di Clermont.
Scontata la pena, iniziò un ciclo di conferenze. Il 23 gennaio 1888, durante una conferenza all’Eliseo, subì un attentato da un uomo pagato da un prete. Una volta deviarono addirittura il treno su cui viaggiava e imbastirono anche una serie di false accuse da cui riuscì a salvarsi. Nel 1890 andò a Londra dove conobbe Malatesta, Emma Goldmann, Kropotkin, Bakunin e Pietro Gori. Fondò nel 1895 il giornale “Libertario” con Sebastian Faure.
Nel 1902 ritornò in Francia e un anno dopo riprese i suoi giri di propaganda. Fece conferenze dal titolo: “Ciò che vogliono gli anarchici” e “Che cos’è l’anarchia”.
Negli ultimi anni della sua vita raccolse denaro per i moti rivoluzionari in Italia, per l’indipendenza cubana, per la rivoluzione spagnola; inoltre lavorò per l’internazionale antimilitarista. Morì il 29 maggio del 1905 a Marsiglia per una congestione polmonare, fu seppellita al cimitero di Levallois salutata da centinaia di migliaia di donne e uomini.

Andrea Staid

 

 

Topi d’archivio
che costruiscono

Federico Ferretti ha colpito ancora. Dopo il suo primo libro per Zero in Condotta nel 2007, “Il mondo senza la mappa. Elisée Reclus e i geografi anarchici”, ora esce per la stessa casa editrice il suo Anarchici ed editori. Reti scientifiche, editoria e lotte culturali attorno alla Nuova Geografia Universale di Elisée Reclus (1876-1894). 240 pagine di testo fitto fitto, anche se di dimensioni un po’ ridotte, per soli 15,00 euro.
Meno scorrevole alla lettura rispetto a Il mondo senza la mappa, ma necessariamente così vista la tipologia dell’opera. Lettura comunque piacevole se si parte dal presupposto di leggerselo “a pezzi”. Cioè anche andando a cercarsi le parti che più interessano il lettore e non vincolarsi alla sequenza narrativa del testo; che va bene comunque per chi la vuole leggere dall’inizio alla fine, ma non è la qualità fondamentale dell’opera quella del percorso espositivo.
Il grande pregio del libro crescerà nel tempo, per i lettori che lo leggeranno o lo studieranno tra qualche decennio. Perché si tratta di un lavoro prezioso non solo per “noi”, ma in generale come testimonianza di certe dinamiche culturali e intellettuali in un periodo storico che gli anarchici in generale conoscono e vogliono conoscere dal punto di vista della storia dei personaggi e del movimento sociale, ma meno dal punto di vista della “normalità” quotidiana dei soggetti più conosciuti.
E tanto per cambiare (ironico) Reclus si presenta e spicca come un caso emblematico di un (ri)conosciuto anarchico che riesce a fare opera di divulgazione scientifica utile non solo ai militanti, ma anche agli “altri”, i tiepidi e perfino gli oppositori.
Ferretti ha svolto una ricerca di archivi (plurale) fondamentale, utile e idealmente motivata. Anche solo dal punto di vista del tempo dedicato e dell’intenzione/motivazione nessuno fino ad oggi ha fatto una ricerca del genere e c’è da dubitare che altri l’avrebbero fatto; il tema anarchici e simili tira poco sia nel campo accademico che in quello editoriale. E giustamente Ferretti rileva e si-ci domanda quanti geografi dichiaratamente anarchici potrebbero oggi vivere (e far vivere i collaboratori) per 20 anni con i proventi della propria produzione scientifica.
Il libro ci ricorda che oggi gli anarchici non ci sono nell’immaginario collettivo (leggasi il sistema mediatico) se non per le bombe (ancora: uffa!!) dei sedicenti informali, mentre un secolo fa oltre alla banda Bonnot e a Bresci il dibattito/confronto/scontro culturale vedeva la presenza degli anarchici anche come scienziati autorevoli e ascoltati. E il libro ci mostra le modalità di lavoro, l’impegno, la correttezza professionale e umana, la tensione verso la precisione delle informazioni, la puntualità della produzione, la chiarezza delle proprie posizioni nello scambio di idee e la disponibilità a non irrigidirsi, ma a trovare il punto di mediazione senza rinunciare ai principi. In sostanza il mutuo appoggio applicato nella vita e nel lavoro. Perché dalle lettere, dai documenti d’archivio, dagli appunti e dalle riflessioni legate al lavoro di stesura di un’opera durata 18 anni emerge questo, cioè la capacità di essere militanti nelle cose quotidiane come pure “nell’ideale”, come pure nello “sforzo di costruire uno sguardo collettivo autonomo sul mondo” (p.237) … “che rende la geografia una strategia politica implicita” (p.238).
Oggi ci vuole proprio una geografia che serve a fare la pace perché le notizie geopolitiche quotidiane sembrano continuare a confermare la definizione di Yves Lacoste (1976) che “la geografia serve soprattutto a fare la guerra”. Un libro da leggere oggi (soprattutto i giovani che vogliono essere anarchici) e da lasciare ai nostri figli come eredità nella biblioteca di casa. Per non dimenticare e aver voglia di tendere al futuro.

Fabrizio Eva

 

 

Luciano Bianciardi

Luciano Bianciardi,
indisponibile al compromesso e al conformismo

Il Centro di Documentazione di Pistoia è una delle realtà più stimolanti e interessanti sopravvissute, felicemente,
agli anni della cosiddetta contestazione. Nato inizialmente nel 1969 come strumento di raccolta e conservazione del materiale di propaganda prodotto dai gruppi e dalle realtà della sinistra extraparlamentare che operavano negli anni Settanta (un lavoro di raccolta prezioso in anni nei quali il fervore militante era tale da far dimenticare la necessità di conservare e coltivare la memoria delle attività e dei progetti in atto) nel corso del tempo, grazie all’impegno dei curatori dell’archivio e dei soci della cooperativa formatasi attorno ad esso, si è dedicato anche e soprattutto alla diffusione delle conoscenze che nell’archivio, e tramite l’archivio, si venivano via via accumulando. Nacque così il Notiziario del Centro di documentazione, uno strumento prezioso di informazione, attento alle novità e in grado di aggiornare le bibliografie degli argomenti e delle istanze inerenti gli interessi e le conoscenze dei movimenti e delle realtà della sinistra non istituzionale. Questo Notiziario, che spesso ha assunto la forma di numeri monografici di grande interesse, ha ormai raggiunto il n. 225, mostrando così di essere una presenza vitale nel campo dell’informazione non istituzionale, tanto più essendo fra le poche ancora oggi operanti fra quelle nate in quegli anni lontani.
Fra le iniziative collaterali legate all’esistenza del Centro di Documentazione, va segnalata l’ultima nata, una collana di testi, I Quaderni dell’Italia antimoderata, con la quale i responsabili del Centro si propongono di riproporre all’attenzione delle nuove generazioni, ma anche a chi tanto giovane non è più ma a cui forse sarebbe bene rinfrescare la memoria, le figure di alcuni personaggi che hanno segnato i processi culturali più innovativi ed eterodossi del secondo dopoguerra. Figure che, nella loro trasversale “marginalità” hanno contribuito a gettare le basi formative di una nuova griglia interpretativa della società, quella stessa che sarebbe diventata il pane quotidiano delle generazioni della contestazione.
Italia antimoderata, dunque, in contrapposizione a quella “mefitica” e opprimente Italia moderata che, come spiega l’ideatore della collana Attilio Mangano nella sua presentazione, già a partire dall’Unità d’Italia esercitava “il peso rilevante del trasformismo e del moderatismo sulla società italiana fino a influenzare pezzi anche rilevanti della sinistra d’allora”. Un’influenza che ha contribuito ad ingessare il Paese nella falsa dialettica fra innovazione e conservazione, dove l’innovazione non era che un processo indolore, ininfluente, superficiale e sostanzialmente inutile, tale però da creare l’illusione di una sua preponderanza sulla conservazione. Questa sì, apparentemente sottotraccia, ma al contrario effettivamente in grado di “conservarsi” – si perdoni il gioco di parole – nonostante e contro le apparenti spinte innovative. E non c’è bisogno di dire che oggi, “morte” le ideologie, questa falsa dialettica sia più attuale che mai. Il gigantesco “inciucio” che ci sta agglutinando come un mostruoso blob è lì a rammentarcelo.
Ecco dunque che i primi due titoli della collana sono dedicati a due personaggi che, pur nella differenza dei percorsi esistenziali e degli ambiti di intervento, sono stati fra i più refrattari ad essere classificati all’interno di quelle categorie (“intellettuale organico”, scrittore sociale”, ecc.) con le quali si codificavano quanti contribuivano a rafforzare, col proprio lavoro intellettuale, gli schemi e i confini di una cultura istituzionale, eternamente moderata e pervicacemente conservatrice. Sono “antimoderati, infatti, coloro che hanno la coscienza e la capacità di opporsi a chi vorrebbe depotenziare sempre e comunque tutte le espressioni di antagonismo e di autonomia dei ceti subalterni, tutte le posizioni di riflessione culturale e politica che non si ritrovano in questa linea di pensiero”.
Parliamo di Luciano Bianciardi, l’indimenticato autore de La vita agra, uno dei romanzi “simbolo” della difficoltà di vivere negli anni del boom, e di Giovanni Pirelli, inquieto e attento osservatore dei fenomeni sociali, fratello di quel ben più famoso Leopoldo, al quale, in compagnia di Agnelli, Restivo e Colombo si auguravano, secondo uno dei più frequenti slogan dell’autunno caldo, le inevitabili “piogge di piombo”. Il terzo quaderno, già in cantiere, si occuperà di Dom Franzoni, altra figura emblematica di questo dopoguerra, portatore con altri di una coraggiosa eresia che contribuirà a formare uno dei fenomeni più interessanti nati dalla contestazione, il movimento dei “cattolici del dissenso”, il vasto contenitore di “nuovi” cristiani impegnati ad affrancarsi dalla secolare soggezione alle gerarchie e ad aprirsi all’impegno sociale.
Nel primo fascicolo della collana Giuseppe Muraca traccia un’accurata biografia di Bianciardi, arricchita da una bibliografia pressoché completa dei suoi scritti. Il percorso esistenziale di Bianciardi, parallelo a quello intellettuale, è stato assai complesso, segnato irrimediabilmente dalla terribile tragedia della miniera di Ribolla, in provincia di Grosseto, dove persero la vita 43 di quei minatori che erano stati il soggetto di una delle prime inchieste operaie dell’epoca, effettuata alcuni anni prima dallo stesso Bianciardi e da un giovane Carlo Cassola. Come si sa, dopo quella tragedia di cui fu responsabile la Montecatini (la futura Montedison), Cassola abbandona Grosseto e l’amata Maremma per trasferirsi a Milano con il vendicativo proposito, ben descritto nel suo più famoso romanzo, fortemente autobiografico, di far saltare il grattacielo di quell’industria. Ma la permanenza a Milano, dove si introduce presto negli ambienti culturali della sinistra intellettuale, diventerà per lui una sorta di terra di odio e amore, capace di raffreddarne i propositi e al tempo stesso di angosciarne la rabbiosa esistenza. Nonostante il grande successo editoriale della Vita agra, e la benevola accettazione da parte della cultura meneghina, nonostante il successo di altre sue opere e l’affermarsi in campo giornalistico – diventerà anche un apprezzato ed eterodosso cronista sportivo – nonostante trovasse un amore capace di sostituire gli affetti famigliari dolorosamente lasciati a Grosseto, la sua permanenza nella città del benessere e del miracoloso boom economico dell’Italia di quegli anni, non riuscirà mai a sopire la sua angoscia intima e profonda, propria dell’osservatore attento e disincantato di fenomeni sociali, per tanti aspetti positivi, ma comunque destinati a stravolgere quei valori sociali ed etici che lo accompagnavano fino dalle sue prime esperienze giornalistiche maremmane.
Sarà quella angoscia, dunque, a determinarne le scelte di vita, aspre nel rifiuto della omogeneità e al tempo stesso riflesso di una incapacità alla mediazione. Saranno dure, infatti, le scelte, da quella di rinunciare alla prestigiosa collaborazione al «Corriere della Sera», fortemente voluta da Montanelli (sintomatica la scelta di collaborare al «Giorno», il quotidiano che in quegli anni sovvertì le regole e gli stili del giornalismo italiano) a quella, altrettanto “autolesionista”, di creare le condizioni per essere licenziato dalla Feltrinelli, proprio quando quella giovane casa editrice si stava dimostrando come una delle realtà più innovative nella cultura del paese. E con quelle scelte Bianciardi mostrava la sua innata incapacità di diventare parte degli ingranaggi del potere, perché la sua natura “anarchica” era un ostacolo insormontabile per il compromesso e il conformismo che del potere, intellettuale o economico che fosse, sono componenti ineliminabili. Saranno altri i suoi punti di riferimento, quelli per cui continuerà ad impegnare la propria lucida ed eterodossa intelligenza, gli ambiti delle conquiste civili, della liberazione dai tabù e dai pregiudizi, della liberazione dai puntelli sui quali poggia e si forma il consenso di massa.
La sua parabola umana termina nel 1971 a soli 49 anni, causata, a giudizio dei medici, dalla cirrosi epatica: “ma la verità, la vera origine di quello che a molti sembrerà un lungo suicidio, va cercata molto lontano e non ha radici fisiche. La cirrosi è solo la punta dell’iceberg…”.

Massimo Ortalli

 

I Machnovisti
tra guerra e rivoluzione

La storia del movimento anarchico internazionale registra nel Novecento due grandi momenti rivoluzionari: la rivoluzione russa e la rivoluzione spagnola. In entrambi i casi gli anarchici si sono trovati a lottare su due fronti. In Russia contro lo zarismo, in Spagna contro franchismo; i rossi, invece, sono stati sempre gli stessi, con la sola differenza che prima erano agli ordini di Lenin, poi agli ordini di Stalin.
In Russia la lotta contro i bianchi e contro i rossi è stata portata avanti soprattutto dal movimento machonovista, sulla cui storia già esistevano varie testimonianze e trattazioni, anche di pregio.
Ora però è uscita un’opera storiografica (Alexander V. Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina (1917-1921), Milano, Elèuthera, 2012, euro 15,00), che di Machno e del machnovismo intende dar conto con un taglio interpretativo incline più alla ricostruzione “tecnica” dello svolgimento spazio-temporale degli avvenimenti che al loro significato ideologico. Ne è risultato un libro molto utile perché offre una esauriente documentazione di tutto ciò che è successo, sia dal punto di vista militare, sia dal punto di vista politico.
Il libro di Shubin segue Machno dalla nascita alla morte; comprende, quindi, anche il periodo dell’esilio in Francia, e offre perciò un panorama completo della sua vicenda politica ed umana.
Quello che emerge, innanzitutto, è un quadro di grande violenza che non risparmia nessuno, in un susseguirsi di fatti che cambiano rapidamente le situazioni esistenti perché tutto è sempre fortunoso e precario; un ritmo che rovescia continuamente ogni conquista in una sconfitta e ogni sconfitta in una conquista. A ciò si aggiunga il fatto, enorme, che per oltre un anno - dal 1917 alla fine del 1918 - l’intera Ucraina è sottoposta alla duplice tensione della guerra e della rivoluzione; il che spiega l’intreccio inestricabile di un conflitto allo stesso tempo segnato da una rivoluzione sociale e da una guerra civile.
Questo carattere fortemente dinamico impresso allo svolgimento generale degli avvenimenti conforta la convinzione che la rivoluzione russa abbia avuto, complessivamente, un carattere molto contraddittorio, nel senso che il risultato finale - la conquista del potere da parete dei bolscevichi - non risultava allora tanto scontato ai contemporanei del tempo. Vogliamo dire, in altri termini, che la rivoluzione russa è stata lungi dall’avere quel carattere così marcatamente operaio che la successiva storiografia marxista ha cercato di rappresentare, quello cioè di una rivoluzione vittoriosa della classe operaia, sotto la guida di un partito comunista avente un generale consenso nel Paese.
Tutti sanno che nel 1917 la società russa era composta da circa 140 milioni di individui, di cui oltre 100 erano contadini, mentre gli operai non raggiungevano la quota di 3 milioni. Gli operai, dunque, non superavano il 2, 5% dell’intera popolazione. Sempre nel 1917 in tutta la Russia i seguaci di Lenin risultavano 23.600 - totale degli iscritti al partito - e a Pietrogrado, vale a dire nella città dove i bolscevichi riuscirono a attuare il loro colpo di mano, non erano più del 5% di tutti i lavoratori industriali, numero, a sua volta, del tutto insignificante rispetto ad una popolazione complessiva di 2 milioni di persone. Ha ripetutamente scritto Trotsky che, nell’intera Russia, a dar seguito alla presa del potere nell’ottobre del ’17 furono circa 25.000 militanti bolscevichi. Il putsch d’ottobre, avvenuto dopo tre tentativi - aprile, giugno, luglio - di far crollare il governo Kerenskij con agitazioni di piazza, non ebbe pressoché alcun carattere cruento e fu il frutto di circostanze altamente fortuite. Occupate le installazioni chiave della capitale, l’ufficio delle poste e del telegrafo, l’ufficio centrale dei telefoni, il quartier generale del comando militare del governo, i bolscevichi assaltarono il Palazzo d’Inverno. Insomma se non vi fosse stata la guerra, i bolscevichi non sarebbero riusciti a prendere il potere. Conclusione: la rivoluzione d’ottobre non fu una rivoluzione di popolo, ma l’esito fortunato del colpo di mano di un piccolo partito.
Anche se gran parte della dialettica politica che ha dato vita alla rivoluzione si espresse nei grandi centri urbani, la sua autentica natura popolare fu quella datale dalla presenza e dal protagonismo contadino, ideologicamente anarchico nella sua immediata espressione sociale. Come scrisse il capo supremo dell’esercito russo, il generale Alekseevc Brusilov: i soldati, gli operai e i contadini «non avevano la minima idea del comunismo, del proletariato e della costituzione. Volevano la pace, la terra, la libertà di vivere senza leggi, senza ufficiali, senza proprietari terrieri. Il loro “bolscevismo” in realtà non era che una formidabile aspirazione alla libertà senza remore, all’anarchia».
Pare difficile negare l’importanza del movimento machonovista, che proprio di questo carattere è stato senz’altro la sua espressione più radicalmente rivoluzionaria ed egualitaria. Si consideri il fatto che Machno e i suoi seguaci riuscirono a organizzare un movimento politico e sociale in pochissimo tempo e in una situazione altamente caotica. Il seguito popolare di questo movimento era sicuramente notevole, come è dimostrato dai vari tentativi di instaurare un autentico regime egualitario e libertario, perfino all’interno dell’apparato militare.

Nico Berti

Alexander V. Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina (1917-1921), Milano, Elèuthera, 2012, euro 15,00.


Nestor Ivanovic Machno
(Guljaj Pole, 26 ottobre 1888-
Parigi, 25 luglio 1934)

Nestor Machno, il video

Dopo i lunghi decenni di silenzio imposti dalla storia ufficiale, Hélène Châtelain, regista cinematografica belga di famiglia russo-ucraina, è tornata sui luoghi della machnovscina raccogliendo inedite testimonianze che attestano una sorprendente sopravvivenza della figura di Nestor Ivanovic Machno nell’immaginario popolare. Viene così ricostruita, nel video Nestor Machno e la rivoluzione anarchica in Ucraina, 1917-1921,regia di Hélène Châtelain dvd 59’30’’ colore) anche attraverso rare immagini d’archivio, non solo l’insurrezione armata contadina ma anche la vita straordinaria del suo leader carismatico.
Sconfitto dall’Armata Rossa nel 1921, è costretto a lasciare l’Ucraina e nel 1925, dopo varie peregrinazioni, si rifugia infine a Parigi. Lì lo insegue una domanda di estradizione da parte del nuovo regime di Mosca per «tradimento della patria, omicidio e saccheggio». Morirà in esilio nel 1934, povero com’era nato. Eppure, la sua tomba al cimitero di Père Lachaise è ancor oggi meta di un curioso pellegrinaggio laico, testimoniato dai tanti bigliettini lasciati dai visitatori, in particolare visitatori ucraini che non hanno mai dimenticato la storia ormai leggendaria del loro Batko Machno, il «piccolo padre» che novant’anni fa aveva dato speranza alla loro aspirazione di libertà.

il filmato è visionabile sul sito di elèuthera al link
http://www.eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=297

il dvd, in vendita al prezzo complessivo di 20,00 euro insieme al libro di Alexander V. Shubin Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina può essere richiesto a

Elèuthera, via Rovetta 27, 20127 Milano - tel. 02 26 14 39 50
e-mail: eleuthera@eleuthera.it
o acquistato direttamente sul sito http://www.eleuthera.it

Autunno 1918: un distaccamento machnovista durante
la guerriglia partigiana contro le truppe
di occupazione austrotedesche