rivista anarchica
anno 42 n. 372
giugno 2012


anarchici

Altre storie di ribelli

di Pino Cacucci

Un nuovo libro dello scrittore bolognese ci presenta libertari che in diversi modi hanno vissuto muovendosi in direzione ostinata e contraria.

Clement Duval
E in cuor mio, non vi ho più perdonato

L’uomo sulla sedia aveva il capo chino in avanti e le braccia tese all’indietro: le manette gli impedivano di crollare di faccia sul pavimento. Sembrava svenuto, ma quando entrò uno dei suoi aguzzini, strinse i denti contraendo i muscoli della mascella. Il detective era in maniche di camicia, il nodo della cravatta allentato, il distintivo del Bureau of Investigations appeso alla cintura dei pantaloni, la faccia stanca e la barba di due giorni: gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò con la punta della scarpa. Il pavimento era sporco di cenere e cicche, qualche cartaccia, e nell’aria aleggiava un odore acre, di fumo stantio misto a sudore rancido.
Il detective andò ad aprire la finestra, poi si voltò a guardare il prigioniero.
“ Sai una cosa, macaroni? Puzzi come una carogna”.
Si avvicinò, lo squadrò di sbieco, gli prese i capelli con la mano destra e lo costrinse a sollevare il viso. Lo osservò per qualche istante: profonde occhiaie scure, lividi ed ecchimosi su fronte e tempie, tracce di sangue ai lati della bocca, intorno alle narici, e persino sulle orecchie c’erano grumi scuri.
Il detective si spostò al tavolo, afferrò un volume rilegato, che usò per colpire il prigioniero sulla nuca: non forte come in altre occasioni, solo una botta leggera per cercare di ottenere la sua attenzione. Ma quello si limitò a un debole sobbalzo, per poi tornare inerte come prima, lo sguardo fisso sul pavimento.
“Oggi parliamo di questo”, disse il detective mettendogli il libro sotto il naso. Lo aprì alla prima pagina, e l’uomo, emettendo un sospiro, lesse mentalmente l’intestazione, in italiano.
“È nella tua merdosa lingua, possiamo farlo tradurre dalla prima all’ultima parola, ma non puoi farci perdere altro tempo… Quindi, me lo racconti tu, cosa diamine c’è scritto in questo libro e soprattutto chi cazzo è questo Clemente Duval. Chiaro?”
Il prigioniero non mutò espressione e non rispose. Il detective scorse rabbiosamente qualche pagina e gli sbatté sulla faccia quella con la prefazione: era firmata L’Editore, e sotto, tra parentesi, A. Salsedo.
“C’è il tuo nome, qui. Questa merda l’hai scritta tu”.
Non riusciva a leggere, troppo forte il dolore alla testa, e poi, gli occhi si chiudevano, per il bruciore e il gonfiore, ma quella pagina la conosceva a memoria…
…Lungo l’erta di un calvario che non finisce mai, che ha in vetta la ghigliottina e a ogni tappa l’aceto e il fiele di tutti i tormenti, la passione quotidiana di un iconoclasta che ha intraveduta la libertà, ne ha colto i sorrisi e le promesse… sfidando impavido sdegni, odii, vendette cieche e collere inesauste… esempio di audacia e di tenacia, di coraggio e di fede…
Stavolta il colpo sferrato con il libro fu più forte, intenzionalmente inferto per provocare dolore, sull’orecchio da cui riprese a scendere un esile rivolo di sangue.
…Densa d’insegnamenti ogni pagina, degna di esser meglio custodita che dalla dubbia fortuna del foglio di battaglia… è di una promessa l’assoluzione fedele, e il comune proposito di veder in volume raccolte le Memorie di Clemente Duval, è entrato nella via dell’attesa realizzazione, e a questo primo volume gli altri seguiranno fino ad opera compiuta… se non mi manchino le forze…
Il pugno nello stomaco gli spezzò il respiro.
“Ascoltami bene, figlio di puttana: tu sei l’editore di questo libro, e se in due mesi non hai ancora confessato niente sui volantini che inneggiavano agli attentati che tu e i tuoi compari avete commesso, ora mi spieghi almeno a che ti serviva stampare questo”.
… se non mi manchino le forze…

Clèment Duval

Il “suiciodio” di Andrea Salsedo

L’uomo in stato di arresto si chiamava Andrea Salsedo, tipografo, militante anarchico, nato a Pantelleria nel 1881 ed emigrato a New York nel 1910. Si trovava lì da ormai due mesi, sottoposto a interrogatori pesanti, pestaggi, torture fisiche e psichiche. La stanza era al quattordicesimo piano del Park Row Building, sull’isola di Manhattan, sede del Bureau of Investigations, che solo una quindicina di anni dopo sarebbe diventato FBI, giocando sulle iniziali di Fidelity, Bravery, Integrity, ma allora, quel 2 maggio del 1920, era soltanto il Bureau, braccio operativo del Dipartimento di Giustizia statunitense con funzioni di polizia federale e al tempo stesso servizio quasi segreto. A New York, il Bureau si stava impegnando a mettere in pratica l’esortazione del “Washington Post”, che in un articolo di qualche anno addietro, aveva detto senza mezzi termini: “Tutti gli anarchici dovrebbero essere messi a morte”.
Il 1920 era iniziato con una vasta operazione contro gli “immigrati sovversivi”: nel solo gennaio erano state arrestate quattromila persone ed espulsi tremila immigrati. Organizzazioni sindacali di ispirazione anarchica vennero sciolte e messe al bando, chiuse le redazioni di alcuni giornali e riviste, persino diversi circoli sociali furono bollati come covi eversivi. Gli anarchici italiani erano il bersaglio perseguito con maggiore accanimento, scatenando così un’ondata di razzismo contro i macaroni. E quando si verificarono alcuni attentati dinamitardi, politici reazionari e tutori dell’ordine si ritennero in dovere di non rispettare più neppure le fondamentali regole di quella che si autodefiniva la più grande democrazia del mondo, poco importa che le esplosioni fossero il risultato dell’esasperazione o spesso provocazioni architettate ad arte. In seguito alla deflagrazione di una carica dinamitarda a Washington, in cui era morto soltanto il solitario attentatore, vennero ritrovati alcuni volantini, e ricorrendo alla delazione di un losco individuo che si vorrebbe infiltrato negli ambienti anarchici, il Bureau nel febbraio del 1920 perquisiva la tipografia Canzani a New York, diretta da Andrea Salsedo, che era anche editore in proprio e stampava la rivista anarcosindacalista “Il domani”, oltre a vari libri, tra i quali, le memorie di un anarchico francese deportato alla Guyana, Clément Duval…
Secondo gli agenti del Bureau, nella tipografia di Salsedo avrebbero trovato alcuni caratteri “riconducibili” ai volantini dell’attentatore. E il 25 febbraio Andrea fu prelevato dalla sua abitazione in cui viveva con la moglie Maria, senza un formale mandato di arresto, e condotto non in un commissariato o in una prigione, ma al 21 di Park Row, l’edifico in cui aveva la sede più o meno segreta il Bureau, sorta di territorio extragiudiziale dove interrogare i sospetti senza “intralci”.
Salsedo era già schedato per renitenza alla leva, quando aveva deciso di rifugiarsi in Messico per evitare la chiamata alle armi durante la Grande Guerra, assieme ad altri anarchici residenti a New York tra i quali Luigi Galleani, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Non era solo il pacifismo, a unirli in quella scelta, ma la netta convinzione che il bagno si sangue in Europa fosse un massacro fra poveracci usati come carne da macello per gli interessi dei capitalisti. Dunque, Salsedo e gli altri erano al centro del mirino da tempo, si aspettava solo l’occasione propizia.
Sottoposto per giorni e notti a interrogatori spietati, Salsedo non parlava. Certo, negava di avere a che fare con quell’esplosione avvenuta così distante dalla sua città, ma rifiutava di riferire i nomi – “l’organigramma”, come sostenevano i suoi torturatori – dei militanti anarchici italoamericani su tutto il territorio nazionale. Gli fu negato un avvocato di fiducia e gliene assegnarono uno che era in realtà un confidente del Bureau. E ben presto il suo volto divenne una maschera tumefatta, non riusciva a dormire per i lancinanti dolori alla testa, non reagiva più ai colpi e non rispondeva. La rabbia dei detective aumentava… E quando, trascorsi ormai oltre due mesi, il Bureau si vide costretto a regolarizzare la sua posizione, e quindi a rilasciarlo per mancanza di indizi, dopo che lo stesso avvocato connivente aveva annunciato alla moglie che entro pochi giorni sarebbe tornato libero, Andrea Salsedo precipitò dal quattordicesimo piano sfracellandosi sul marciapiede. “Suicidio”, fu la versione ufficiale a cui nessuno dei suoi compagni avrebbe creduto neppure per un istante. Tutti loro erano convinti che Andrea fosse stato scaraventato dalla finestra per coprire la morte sotto tortura: gli agenti del Bureau avevano tentato così di cancellare le prove di un “omicidio di stato”, quando si erano ritrovati tra le mani un cadavere che non reagiva più ai colpi inferti. Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, assieme ai compagni del loro giro, organizzarono subito un comizio per denunciare pubblicamente l’omicidio di Salsedo, manifestazione indetta per il 5 maggio.

Questo pezzo di carta è mio

Il “Nonno” si infilò a fatica le scarpe, quel mattino, e uscì cercando di non strascicare i piedi per non far rumore e svegliare la giovane coppia di compagni che lo ospitava. L’artrite era un tormento quotidiano, e camminare, un supplizio a ogni passo. Decise di prendere un taxi, perché da Brooklyn, anche se la distanza non era eccessiva, usare mezzi pubblici sarebbe stato per lui arduo, senza qualcuno che lo aiutasse a salire e a scendere. E quel giorno, non voleva nessuno con sé, e tanto meno la pietà di chicchessia. Anche se così, avrebbe speso quanto gli sarebbe servito a pagarsi il pranzo.
Giunse in Park Row che era ancora molto presto, il sole primaverile appena spuntato, pochi i passanti e scarso il traffico. Si fece lasciare a un centinaio di metri dall’edificio, non voleva che il taxista vedesse dove era diretto di preciso, e percorse faticosamente quell’ultimo tratto appoggiandosi al bastone. Poi, si fermò davanti al lugubre palazzo, e alzò lo sguardo al cielo. Individuò il quattordicesimo piano, immaginò quale fosse la finestra tra le tante della lunga fila. Ed ebbe un sussulto, come un singhiozzo.
Cos’hai provato, fratello, volando da lassù… Forse nulla, se ti avevano già ucciso… Ma se fossi stato ancora vivo, cosa avrai pensato, amico mio, compagno di sventura, qualche attimo prima di raggiungere il selciato… Che ti avevamo abbandonato? Che nessuno qui fuori lottava per riaverti tra noi? Quanta solitudine, mon frère, quanta solitudine…
E abbassò lo sguardo, tremando, fino a fissare la macchia scura, che debordava dalle tracce di gesso che il giorno prima lasciavano intuire vagamente la posizione del suo corpo sfracellato.
Un giovane nero si avvicinò con secchio e ramazza: gettò l’acqua sul sangue rappreso, poi lo sfregò, compiendo gesti meccanici, indifferenti. La schiuma sporca scivolava verso il tombino, e il vecchio non riusciva a distogliere lo sguardo. Finché un secondo addetto alla pulizia del marciapiede non attirò la sua attenzione per lo strano compito che stava assolvendo: frugava tra i cespugli delle aiuole vicine e, ogni tanto, trovava dei fogli spiegazzati, bagnati forse dall’irrigazione o dal lavaggio della strada, e lo metteva in un sacco di juta. Sul sacco, c’erano le iniziali “B.I.” E, particolare ancor più singolare, a poca distanza da lui, un tipo in completo scuro, cravatta e cappello poggiato indietro sulla nuca, ne seguiva le mosse, come se sorvegliasse il suo lavoro. Dopo un po’, il giovane inserviente nero si voltò verso quello che sembrava un detective del Bureau e fece un’espressione interrogativa, alzando le spalle e porgendogli il sacco: a suo avviso, non c’era altro da recuperare. Il detective prese il sacco e lo congedò con un cenno sbrigativo. Poi, andò verso l’ingresso del Park Row Building. Passando all’altezza del vecchio, lo notò. Li separava una ventina di metri. Il vecchio sostenne lo sguardo. E il detective, fissando quegli occhi chiari, gelidi, che sembravano scrutarlo dentro, provò una inspiegabile inquietudine. Quello stesso sguardo, decenni addietro, aveva costretto aguzzini ben più crudeli e spietati di lui a mollare la preda, a rinunciare allo scontro sapendo che avrebbero potuto avere la peggio…
Il detective, nella baldanza dei suoi trent’anni o forse meno, forte del proprio ruolo, fece il gesto di andare verso il vecchio, che restò immobile e cupo come la statua di un eroe morto. Forse voleva chiedergli chi fosse e cosa ci facesse lì, magari lo avrebbe costretto a qualificarsi, ma fu fermato da un collega spuntato sulla soglia, che lo chiamò dentro indicando il sacco che aveva in mano. Il detective rimase indeciso per un istante, gettò un’ultima occhiata a quel vecchio rudere con il bastone, e infine si voltò e rientrò nella sede del Bureau of Investigations.
Assassins, mormorò il vecchio tra i denti, nella sua lingua dimenticata da tempo, o forse lo pensò soltanto.
Il giovane nero, intanto, era andato dal collega con il secchio e la ramazza. Quest’ultimo gli disse: “Ne hai trovate ancora, di quelle pagine?”
Il primo annuì, rispondendo: “Sì, ma erano le ultime. Che brutta faccenda, fratello. Se penso alla fine che ha fatto quel poveraccio…”
“Già. Mi sono scordato di darti anche questa”, disse il secondo, tirando fuori dalla tasca un foglio stropicciato: la pagina iniziale di un libro, come poté vedere da poca distanza il vecchio. Che si avvicinò e tese la mano, con un gesto che voleva essere garbato, quasi di supplica, ma ai due parve imperioso, un ordine perentorio. Rimasero a guardarlo perplessi. E ancora una volta, gli occhi in quel volto percorso da rughe profonde, quel bagliore metallico che incuteva rispetto, mise in imbarazzo i giovani inservienti.
“Per favore”, mormorò il vecchio, sempre con la mano tesa.
“Vuoi… vuoi questo pezzo di carta? E che te ne fai?”
“È mio”.
Il nero con la pagina in mano non si soffermò sull’assurdità di quell’affermazione. Poi, con uno scatto, quasi si liberasse di un peso, mise la pagina in mano al vecchio.
“Oh, se proprio ci tieni, prendi! Ma ti do un consiglio: togliti dai piedi, prima che quelli là dentro vengano a chiederti perché diamine te ne vai in giro a ficcanasare da queste parti”.
Il vecchio salutò con un cenno di inchino solenne, e si allontanò con quei suoi passi incerti, dolenti, trattenendo un gemito a ogni movimento, a ogni fitta nelle sue ossa deformate e dei suoi muscoli rattrappiti.
Poco più in là, fermandosi a riprendere fiato, appoggiandosi al bastone con la mano sinistra, usò la destra per spianare il pezzo di carta sul petto. Infine, guardò quella pagina staccatasi assieme a tante altre nell’impatto sul selciato, notò una traccia di sangue in un angolo, e pensò: “Andrea teneva il mio libro stretto a sé, durante quel volo. Ma perché? Perché?”
Era la prima pagina, l’intestazione, in italiano: Memorie autobiografiche di Clemente Duval.


Sante Pollastro
Il ciclista con la pistola

Il 15 dicembre 1919 alla stazione di Reggio Emilia scende un giovane con una piccola valigia in mano. Ha vent’anni, una chioma di capelli neri e un bel volto su cui spicca un leggero strabismo all’occhio sinistro che rende un po’ indisponente il suo sguardo svagato, è piuttosto alto e agile di movimenti, ha l’aspetto fine e una certa innata eleganza nonostante il vestiario dimesso. Esce dalla stazione, guarda il cielo plumbeo e pensa: “Meno male che non piove”. Posa la valigia a terra, e comincia a spogliarsi. Cappotto, giacca, pantaloni, indumenti un po’ lisi ma decorosi, che ripiega con cura e mette nella valigia. Qualcuno si ferma a osservarlo, e quando toglie anche la camicia e resta in mutande, gli sguardi dei presenti da perplessi diventano stupefatti: Ma el matt, li lò?
E dopo aver riposto le scarpe e i calzini, si toglie anche le mutande. Prende la valigia e si avvia a passo lento e disinvolto verso il centro. Completamente nudo. Le donne e gli uomini che incrocia restano allibiti. C’è chi pensa più al freddo che fa, cul matt là al ciaparà so na polmonite, puvrein, ma anche chi nota la muscolatura perfetta, polpacci robusti e cosce snelle, da buon ciclista. Lo stupore, in molti passanti, produce una strana indifferenza: il giovane è talmente tranquillo, cammina e guarda dritto davanti a sé come se fosse perfettamente a suo agio, che nessuno si ferma. Giusto qualche occhiata da dietro, quando è ormai passato oltre.
Un ferroviere ha avvertito gli agenti di servizio in stazione. Non ci vuole molto per raggiungerlo. Lo superano e gli si parano davanti: non sanno bene cosa fare, sono indecisi se afferrarlo di peso o provare a chiedere che diamine gli passi per la testa. E non lo toccano. Lui si ferma, sorride, e non dice niente. “Giovanotto, ti senti bene? Guarda che è vilipendio al pudore…” Sorride, alza un sopracciglio e fa un’espressione enigmatica, quasi volesse dire che non dipende da lui.
Uno dei tre agenti compie finalmente il gesto: lo prende per un braccio. Ma non è una stretta, appena un contatto timido, perché un conto è avere a che fare con i delinquenti, tutt’altra storia è trattare coi matti. Il giovane guarda prima la mano sul braccio, poi alza gli occhi al cielo e respira a fondo. Neanche fosse in alta montagna in piena estate.
Arriva l’ambulanza, un po’ scassata, residuato della Grande guerra. Gli infermieri gli mettono una coperta sulle spalle. Li segue docilmente.

Incompatibile con la vita militare

In stato di fermo, scoprono che si chiama Sante Pollastro e ha una fedina penale fitta di denunce e arresti, il primo risale a quando aveva appena tredici anni, e a quindici era già considerato “recidivo”. La questura lo ha consegnato alle cure dell’ospedale, ma ora, appurato di chi si tratta, la polizia non ha dubbi: con questa sceneggiata del nudismo nel centro della città emiliana, sta provando a farla franca perché è un disertore, sulla sua testa pende una condanna a quindici anni emessa dal tribunale di guerra di Alessandria. Certo, la guerra è finita da oltre un anno, ma lo stato pretende che vada comunque sotto le armi. Ecco perché si trovava su quel convoglio militare, da cui è sceso durante una sosta alla stazione di Reggio Emilia. Non è pazzo, decretano i medici impietosi dell’ospedale, dopo aver ricevuto una lunga velina dalla Questura. Con gli schiavettoni ai polsi, lo rispediscono alla caserma di Torino.
Poi, il tribunale militare accetta di considerare come una forma di demenza l’avversione di Pollastri Santo o Pollastro Sante – già era difficile stabilire come davvero si chiamasse – alla vita castrense. Forse quella corte marziale era stanca delle innumerevoli fucilazioni di soldati renitenti durante la guerra, meglio un “mezzo pazzo” che l’ennesimo lavativo in una cella, che se la brigassero gli psichiatri, i generali avevano altre incombenze a cui far fronte. E lo rinchiusero nel manicomio di Collegno, a fare lo smemorato come tanti altri, in largo anticipo sul famoso caso del 1926.

Pino Cacucci

Una rabbia sorda

In effetti lo avevano iscritto all’anagrafe come Santo Decimo Pollastri, nato a Novi Ligure il 14 agosto 1899, figlio di Giuseppina Cabella e di Vincenzo, sellaio. Un padre che prima abbandona la famiglia e poi muore di pellagra quando lui ha solo sette anni. Intanto, tutti lo chiamano Sante, e quando qualcuno storpia il cognome in Pollastro, non lo corregge, anzi, presto comincerà a farlo suo, quando gli chiederanno le generalità ai primi fermi dei carabinieri.
Non era ancora orfano che già lavorava in una fornace di mattoni. A casa c’era da sfamare la sorellina, Carmelina, tre anni meno di lui: Santino la adorava, non sopportava di vederla patire la penuria che stava scivolando nella miseria nera, e così, l’infanzia se ne sarebbe andata via presto, tra un impasto e l’altro e i mattoni da caricare in spalla.
Quel sapore amaro che sente sempre in bocca non è dovuto al fumo e alla polvere rossastra. È rabbia sorda: per i padroni che gli danno un salario indegno, per i capoccia che sbraitano e rifilano scoppole, per i “signori” che se la spassano mentre i poveracci ingoiano umiliazioni. E la gente del borgo che si accalca davanti alla caserma del 44° Reggimento in attesa di una mestolata di zuppa, gli avanzi della mensa del Regio Esercito, lui la guarda non con commiserazione ma con rancore: a che serve sgobbare dodici ore al giorno se la miseria non te la scrolli mai di dosso…
Rubare è giusto, anzi doveroso, per Santèin che a undici anni non si sente più un bambino. Ha un pugno di amici fidati, coetanei avvezzi alla vita di strada. Lì vicino c’è lo scalo ferroviario di San Bovo, con tutti quei treni merci carichi di ogni cosa. Carbone, tanto per cominciare, ché a Novi d’inverno fa un freddo cane. Sante e i suoi imparano presto a scardinare i portelloni. E una volta riempita la carbonaia di casa, va a distribuirne con una carriola alla gente miseranda del borgo. Lui, Sante Pollastro, non aspetta l’elemosina di una scodella di zuppa davanti alla caserma: va a prendersi ciò che occorre a sopravvivere dove ce n’è in abbondanza. Si ingegna a farsi un’imbragatura per appendersi ai vagoni provenienti dal porto di Genova e diretti in Svizzera, che a Novi rallentavano permettendo a lui e i suoi di saltare sui predellini, agganciarsi ai portelloni e aprirli con i piedi di porco. I ragazzini della banda lo considerano ormai un capo, e lo soprannominano Rangugnìn, rissoso, attaccabrighe, perché tiene testa a chiunque. Ma non è spavaldo, men che mai un prepotente. Al contrario, nel borgo lascerà di sé un ricordo di ragazzino dal cuore buono e generoso, sempre disponibile quando c’è da dare una mano a qualcuno. Insomma, Santèin è precoce, nell’individuare amici e nemici. Questi ultimi, sono i signori ben pasciuti e gli sbirri che li difendono.
Gli “sbirri” non tardano a piombargli addosso. Il 25 maggio 1912 lo acciuffano dopo che ha “svaligiato” un vagone di mattonelle per la stufa, gliene trovano solo quattro, ma bastano per buscarsi quindici giorni di gattabuia. Santino non lo sa, ma appena un mese prima è morto Jules Bonnot, l’anarchico che inventò la rapina in banca in automobile, crivellato di pallottole dopo un lungo assedio in una cascina alle porte di Parigi. Più avanti, la figura di Bonnot sarà per lui un costante riferimento. In quanto alle automobili, preferirà sempre la bicicletta, prima per tentare una improbabile carriera di corridore, poi per fuggire. E già allora, da ragazzino, Costante Girardengo è un idolo. Il campione di Novi Ligure ha sei anni più di lui, comincia a mietere vittorie mentre Santino va e viene dalla prigione – altri quindici giorni, poi trenta, e sessanta… – e non possono certo conoscersi e frequentarsi, distanti come sono le loro condizioni e l’età che li separa, e anche se Novi è piccola, uno è già un campione, l’altro il futuro bandito.

Passeggiata nudista

Sante adolescente ha una Bianchi da corsa. Non l’ha rubata, ma è grazie ai furti che ha potuto comprarla. Sogna di eguagliare le imprese di Girardengo, eppure, nelle gare di provincia non arriva mai tra i primi. La bicicletta resta una passione, nonché il mezzo per sfuggire alle guardie: non a caso Lombroso scriveva già nel 1900 un saggio dal titolo “Il ciclismo nel delitto”, definendo quel mezzo di locomozione come un pericoloso strumento generatore di delinquenza, “la passione del pedalare trascina alla truffa, al furto, alla grassazione”. Ma è con la pistola che Sante eccelle: nella villa di un conte che ha svaligiato, si è portato via una pistola francese da tiro a segno, una Flobert di piccolo calibro, con cui ben presto fa la prodezza di centrare una moneta a venti metri. Poi, si esercita a sparare pedalando: lampioni, isolatori di corrente, addirittura i fili. Chiude l’occhio strabico e prende la mira al volo con quello destro: infallibile.
Il borgo dove vive protegge i ladri per solidarietà proletaria e coltiva ideali socialisti e anarchici. Sante prende a frequentare un vecchio anarchico che sulle prime lo tratta in modo scorbutico, un tipo un po’ misantropo che chiamano Umèto e se ne sta per conto suo in una decrepita bicocca. Sante ha sete di sapere, l’ideale è ancora vago e Umèto gli parla di Gaetano Bresci, il vendicatore venuto dagli Stati Uniti per giustiziare Umberto I, il re che aveva decorato il generale Bava Beccaris per la bella impresa di aprire il fuoco con i cannoni sui milanesi che chiedevano pane, un centinaio i morti e mezzo migliaio i feriti. E gli fa leggere pubblicazioni anarchiche, dove Sante nota spesso gli articoli di un certo Renzo Novatore, singolare figura di pensatore passato all’azione, poeta e prosatore di invettive individualiste intrise di futurismo, profondo conoscitore di Max Stirner, estimatore di Wilde e Baudelaire, Nietzsche e Schopenauer. Non può immaginarlo, in quelle giornate trascorse a parlare di anarchia con Umèto, che di lì a pochi anni lui e Novatore avrebbero legato tragicamente i propri destini.
E poi, c’è Girardengo… che nel 1918 vince la Milano-Sanremo e l’anno successivo addirittura il Giro d’Italia, maglia rosa dalla prima all’ultima tappa. Intanto c’è stata la guerra, Sante Pollastro non si è presentato alla chiamata alle armi, “ragazzo del ‘99”, convinto che quella macelleria tra poveracci fosse un crimine vile e non una parata di eroi, e comunque, ormai aveva messo assieme una banda di ladri esperti scassinatori, continuava a distribuire refurtiva ai poveri del borgo, facendosi benvolere da quelli e odiare dalle guardie del re.
Fatto curioso, anche Girardengo aveva rischiato una condanna per diserzione. Arruolato nei bersaglieri, quando si era vista negare una licenza per correre la gara del campionato italiano nell’alessandrino, se l’era svignata: al traguardo di Spinetta Marengo aveva battuto tutti in volata, poi, tornato in caserma a Verona, si era beccato quindici giorni di cella di rigore più un mese di carcere. Niente corte marziale, grazie a un medico fanatico di ciclismo che gli aveva diagnosticato una malattia inesistente per tenerlo al riparo da carcere e trincee.
Strani anni, quelli della guerra, quando Sante Pollastro doveva essere ricercato per diserzione eppure girava tranquillo per le osterie di Novi, dove Girardengo, giovanotto semplice e alla buona, andava a bere mezzo bicchiere con i compaesani. Fu così che un comune amico, Cavenna, li presentò. Sante ammirava Costante, e il campione sapeva che l’altro pedalava forte, e lo invitò ad allenarsi nella sua squadra. Ma era troppo tardi. Non per l’età, che Sante era più giovane di Costante, ma per le scelte irreversibili ormai fatte. E mentre Girardengo vinceva anche il Giro della Lombardia, Pollastro inscenava la passeggiata nudista a Reggio Emilia.

Pino Cacucci