rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


storia
Perché rapimmo il vice-console spagnolo

testimonianza di Amedeo Bertolo
raccolta da Mimmo Pucciarelli


Nel 1962, a Milano, alcuni giovani anarchici rapiscono un diplomatico del governo franchista, per ottenere la cancellazione
della pena di morte per un anarchico spagnolo. Obiettivo raggiunto.




I brani che seguono sono estratti da un'intervista più ampia realizzata nel 2003 nell'ambito di una ricerca internazionale sui percorsi esistenziali e politici di alcuni militanti anarchici.
L'intervista completa è stata poi pubblicata in francese nel volume L'anarchisme en personnes pubblicato dall'Atelier de Création Libertaire di Lione nel 2006.


[...] Prima dell'estate del 1962, organizzo un'assemblea nel mio ex-liceo «Berchet» per raccogliere fondi di solidarietà con la resistenza libertaria nella Spagna franchista. Con questi soldi, una somma modesta, riesco ad acquistare un ciclostile manuale che successivamente porterò in Spagna. Ma già da qualche mese ero entrato in contatto con elementi di quell'organizzazione che si chiamava Defensa Interior, in particolare con Octavio Alberola che allora si faceva chiamare «Juan». Ed era stato allora che io e un altro mio compagno del gruppo giovanile libertario, Luigi Gerli, che al tempo studiava filosofia, c'eravamo impegnati ad andare in Spagna. Si trattava di una missione clandestina per portare dei volantini della FIJL (Federación Ibérica de Juventudes Libertarias) e dei nuovi codici di comunicazione (dopo una delle tante «cadute» di compagni dell'interno).

Ero abbastanza incosciente, sai la gioventù...”

Io viaggio da solo in motocicletta e il Gerli, anche lui in moto, assieme a un certo Vittorio De Tassis, che si definiva comunista rivoluzionario. Partiamo separatamente: qualche giorno prima Gerli e De Tassis, poi io. Io passo da Toulouse, dove incontro Alberola che mi dà tutte le indicazioni necessarie per la missione. Porto con me il ciclostile manuale, che nel frattempo ho camuffato da cassetta per pittore con l'inchiostro al posto dei colori e con un quadro abbozzato per darmi una copertura. Un quadro fatto da mio fratello Gianni, che sa dipingere meglio di me. In quell'epoca, era sedicenne, ma già anarchico anche lui.
Una volta arrivato in Spagna, passo da Barcellona, dove incontro Jorge Conill Valls del Gruppo giovanile di quella città, poi vado a Madrid, dove incontro il Gerli, che sta finendo la sua missione. Qui non riesco a stabilire il contatto, per ben due appuntamenti successivi, con il compagno spagnolo. Non ho mai saputo per quale motivo, forse perché era stato arrestato o forse perché non era riuscito ad arrivare a tempo all'appuntamento.
Dopo Madrid scendo fino a Cadice, Almería e Alicante dove ho tre contatti a cui consegno i nuovi codici e dei volantini firmati FIJL da me ciclostilati, una cosa che facevo a ogni tappa con il ciclostile manuale impiegandoci due o tre ore in camere d'albergo.
Poi inizio il viaggio di ritorno. Ripasso da Barcellona, vedo di nuovo i compagni del luogo, dormo nella loro sede clandestina, una soffitta nel Barrio Gótico vicino alla cattedrale, lascio il ciclostile che avevo portato dall'Italia e riprendo la strada del ritorno.
Questa missione dura un paio di settimane, tra fine luglio e inizi agosto. Per poterla fare, utilizzo i soldi che mi hanno dato i miei genitori per le vacanze. Loro sanno che vado in Spagna e mio padre sospetta che io ci vada per motivi politici in quanto sa che sono anarchico. Infatti, non è per nulla contento. Mia madre non dice nulla. Dunque non ho tanti soldi. Dormo in ostelli della gioventù o in albergacci d'infima categoria oppure nella tenda che ho portato con me. Ricordo che una notte, sulla spiaggia tra Almería e Alicante, mi sono appena messo a dormire in un sacco a pelo, quando vengo svegliato da due Guardia Civil che pattugliano la zona e che hanno visto le luci della motocicletta quando sono arrivato. In quell'occasione devo dire che la mia copertura di turista e artista ha funzionato perfettamente, non mi hanno neanche perquisito. Per fortuna, perché avevo un pacco di volantini…
Quella sera ho avuto un po' di paura, ma neppure tanto, anche perché ero abbastanza «incosciente». Sai la gioventù… Avevo vent'anni…

E poi c'era anche l'Idea!

Sì, l'Idea. Pensa che all'epoca, ma questo l'ho saputo dopo, erano in corso delle retate d'anarchici, in particolare di quelli collegati con Defensa Interior. Comunque, io parlo un poco lo spagnolo, perché l'ho imparato quando mio padre aveva progettato di andare a lavorare a Portorico. Anzi, secondo Alberola lo parlo sufficientemente bene da non suscitare sospetti… ma è un'esagerazione. Diciamo semplicemente che lo parlo abbastanza da intendermi con i compagni spagnoli che vado a trovare. In conclusione, ritorno soddisfatto da questa missione e prima di rientrare in Italia passo dal campeggio internazionale anarchico che si tiene dalle parti di Marsiglia, dove conosco altra gente.
Poi, a metà settembre di quel 1962, leggiamo in una breve nota di Le Monde che sono stati arrestati tre compagni di Barcellona, Jorge Conill Vals, Marcelino Jiménez Cubas e Antonio Mur Peirón, uno di loro studente universitario e gli altri due operai. Sono stati arrestati per due o tre attentati dimostrativi, di cui uno alla sede della Falange e uno a quella dell'Opus Dei. Qualche giorno dopo veniamo a sapere che sono stati condannati dal tribunale militare: pena di morte per Conill e trenta anni di reclusione per gli altri due. Allora decidiamo di fare immediatamente qualcosa per impedire l'esecuzione di questo assassinio.

Vernazza 1960 (in senso antiorario): Aimone
Fornaciari, Amedeo Bertolo, non identificato,
Luigi Gerli durante una gita


In modo abbastanza dilettantesco

Prima di tutto decidiamo di prendere nuovamente contatto con i rappresentanti giovanili dei partiti, questa volta persino con i giovani cattolici (noi del Gruppo giovanile libertario eravamo solo quattro, dunque figurati cosa potevamo fare da soli), e cerchiamo di organizzare una manifestazione comune o comunque di farli muovere in qualche maniera. Ma non riceviamo nessuna risposta positiva. I giovani cattolici di «sinistra», o cattolici sociali, prendono contatto con l'allora cardinale di Milano (Montini, il futuro papa Paolo VI), ma costui risponde che la vicenda non è di sua competenza.
Viste le reazioni decidiamo di andare sul pesante, cioè di sequestrare il console spagnolo di Milano per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla vicenda dei tre compagni spagnoli e in particolare sulla condanna a morte di uno di loro. Non ricordo esattamente come si sia arrivati a prendere questa decisione, ma nei mesi precedenti si era parlato di cosa fare se fossero stati condannati dei compagni spagnoli e fra le ipotesi evocate c'era anche quella di agire sulle rappresentanze diplomatiche e i suoi funzionari. In via teorica se n'era dunque già parlato. Ma in sostanza, dopo la condanna a morte del compagno spagnolo e la mancata reazione degli altri giovani a cui ci eravamo rivolti, abbiamo deciso precipitosamente (ma i tempi non consentivano di tergiversare) di prendere in ostaggio il console spagnolo di Milano.
Organizziamo quest'azione in modo abbastanza dilettantesco, ma la cosa funziona ugualmente. Il nostro gruppetto di libertari milanesi – ovvero io, Luigi Gerli, Gianfranco Pedron e Aimone Fornaciari – decide di coinvolgere nel progetto anche De Tassis, che ha partecipato alla missione in Spagna, e un paio di giovani socialisti di sinistra veronesi che studiano all'università di Milano, con i quali abbiamo già avuto diversi incontri e discussioni. Decidiamo di coinvolgerli non solo perché non siamo sufficienti per compiere quest'azione, ma anche perché ci serve qualcuno che abbia la patente per poter guidare un'automobile. Inoltre abbiamo bisogno di una pistola...

Una sola?

Una l'avevamo già... un residuato della Resistenza...
Il 27 settembre 1962 arriviamo davanti al consolato spagnolo con un'automobile noleggiata a Verona su cui all'ultimo momento è stata attaccata una targa falsa. O meglio una targa di cartone provvisoria tolta a un'altra automobile (una volta davano delle targhe provvisorie di cartone per i primi mesi di circolazione delle automobili). Il progetto è di entrare nel consolato e lì fare il necessario per prendere in ostaggio il console. Ma quando arriviamo il consolato è già chiuso perché siamo arrivati con cinque o dieci minuti di ritardo sull'orario d'apertura degli uffici. Come ti ho detto, eravamo dilettanti... ma forse la fortuna assiste i dilettanti perché ripieghiamo agevolmente su un altro piano.
Andiamo dapprima a casa del vice-console, perché nel frattempo abbiamo saputo che il console è in ferie e il suo posto è attualmente occupato dal suo vice, che si chiama Isu Elías. Quando arriviamo in Via Vincenzo Monti, dove abita questa persona, non ci sembra granché opportuno tentare di rapirlo lì perché il suo palazzo è proprio di fronte a una caserma dei carabinieri... Allora ripieghiamo su un piano più fantasioso. Telefono al vice-console spacciandomi per il segretario del vice-sindaco di Milano e lo invito a pranzo il giorno successivo dicendogli che sarei andato a prenderlo con un autista per portarlo al ristorante.
Il giorno dopo telefoniamo per conferma al consolato. L'autista è un veronese, Alberto Tomiolo, che ha noleggiato l'automobile solo per un paio di giorni perché i soldi che abbiamo a nostra disposizione non sono tanti. È l'unico della «banda» che ha la patente per guidare un'automobile. Per l'occasione indossa il mio vestito grigio scuro (quello che mettevo per andare alle «feste») e un berretto d'autista che ero andato a comprare il giorno prima.
Arrivati al consolato, Aimone Fornaciari rimane a fare il palo all'angolo di Via Ariberto. De Tassis, che è quello che ha l'aria più matura fra di noi, sale negli uffici per andare a prendere il vice-console, proprio come se fosse il segretario del vice-sindaco. Ridiscende, infatti, con il vice-console. L'autista, Tomiolo, allora esce dall'automobile, apre la portiera e fa salire il vice-console Elías. De Tassis si siede davanti e ai due lati del vice-console saliamo io e Pedron, impugnando le pistole...



Gran clamore della stampa

Partiamo verso una baita situata in un paesino vicino alla frontiera svizzera che abbiamo da un anno circa in uso gratuito. Si tratta di un rustico, una ex-stalla. È lì che abbiamo deciso di tenere sequestrato il nostro ostaggio. Senza entrare in ulteriori dettagli della vicenda, diciamo che abbiamo tenuto lì il vice-console per tre giorni. Naturalmente sulla stampa c'è un gran clamore. Infatti, rivendichiamo subito il sequestro in nome della Federazione internazionale della gioventù libertaria, chiarendone le motivazioni, cioè la condanna a morte del compagno spagnolo, e chiedendo come contropartita una commutazione della pena.
Ma la faccenda si fa subito un po' intricata perché il Tomiolo, tornato a Verona e forse impaurito, anziché starsene buono com'era stato programmato e lasciarci gestire il seguito della vicenda, si confida con un avvocato suo amico. Il quale gli dice di non fidarsi degli anarchici, perché sarebbero inaffidabili e la cosa potrebbe volgersi in dramma, e gli suggerisce di far liberare di sua iniziativa il vice-console prendendo contatto con i giornalisti di un quotidiano paracomunista, Stasera, che usciva allora a Milano.
Noi veniamo a sapere di questa «interferenza» e decidiamo di accelerare i tempi della liberazione per anticipare le mosse del Tomiolo e dei giornalisti di Stasera. Noi nel frattempo avevamo preso accordi con alcuni compagni spagnoli, con Alberola in particolare, per consegnare il vice-console a loro affinché lo portassero a Ginevra e lo rilasciassero nella sede di qualche organizzazione delle Nazione Unite chiudendo così la vicenda con un atto clamoroso. Sennonché dobbiamo rinunciare a questo piano perché c'è l'interferenza dovuta ai timori del Tomiolo. Allora decidiamo di liberarlo per conto nostro. Prendo contatto con il giornalista Nozzoli del quotidiano milanese Il Giorno (un giornale all'epoca di centro-sinistra) e salgo con lui alla baita per liberare il vice-console in sua presenza. Ma, quando arriviamo lassù, il vice-console non c'è più e neanche De Tassis che era il suo guardiano.
Infatti nel frattempo si è messa in moto un'ulteriore interferenza: un giornalista di un settimanale scandalistico, ABC, ha raccolto voci a sufficienza nell'ambiente frequentato dai veronesi e dal De Tassis – un ambiente d'artisti e finti artisti, gente di sinistra, sfaccendati, eccetera – da risalire fino alla baita e al vice-console. E costui arriva sul posto mezz'ora prima che arrivassimo io e Nozzoli. Il De Tassis, convinto che fosse il giornalista mandato da me, gli consegna il vice-console...

All'epoca non c'erano i telefonini...

Non c'era neanche quello fisso nella baita, dove mancava anche una parete... E così, convinto che questo giornalista fosse mandato da me, gli consegna il vice-console e scende con lui fino a Varese dove si fa lasciare, mentre il giornalista conduce il vice-console a Milano e fa lo scoop. Ho saputo solo recentemente che questo giornalista, Nino Pulejo, era all'epoca stipendiato dai servizi segreti. Non so se questo c'entrasse con la liberazione del vice-console... certo c'entrava con il suo orecchiare i discorsi nell'ambiente di Brera.
Dunque, arrivato alla baita e scoperto che non c'è più nessuno, torno a Milano dove ci dormo un poco sopra. La mattina dopo, sul presto, contatto Gerli e Pedron, li avviso di quanto è avvenuto e suggerisco loro di tagliare la corda. Gerli decide di scappare per conto suo e con i suoi mezzi, mentre Pedron decide di non scappare e di rischiare l'arresto, come poi puntualmente è avvenuto. Io mi affido per la mia fuga al movimento anarchico, soprattutto a Franco Leggio e ai compagni da lui conosciuti. In effetti, riesco ad andarmene da casa qualche ora prima che arrivi la polizia, dopo un ultimo abbraccio a mia madre piangente, cui avevo raccontato della mia responsabilità nel sequestro. Nel frattempo la polizia ha identificato la baita e Pedron, che è il nipote di un abitante di quel paese [Cugliate Fabiasco]. Dopo averlo fermato lo interroga, e lui quasi immediatamente racconta la vicenda. Del resto non ha indicazioni di tacere perché a quel punto, una volta trovata la baita, si trova anche il gruppo di giovani che lì si riunivano e quindi la loro identificazione è solo questione di tempo.

Quel conto aperto con l'oste anarchico

Come ho detto, io riesco ad allontanarmi da Milano e vado a Genova, dove resto un paio di giorni a casa di Carlo Boccardo, un operaio metallurgico, poi da lì passo alla casa di Dino Fontana, un compagno individualista, un tipo pittoresco: esperantista, naturista, vegetariano, sarto, fautore del libero amore, cioè quel tipo d'individualismo all'E. Armand. Abita in provincia di Novara, a Carpignano Sesia, dove rimango per una quindicina di giorni. Poi passo a Domodossola, vicino alla frontiera, a casa di un altro compagno, Dante Remi, e ci rimango il tempo necessario per organizzare il mio espatrio. Passo le Alpi. Mi guida un compagno esperto di passaggi in queste montagne perché è un raccoglitore d'erbe medicinali che va a cogliere in Svizzera, un'attività che non credo fosse «legale». In ogni modo, grazie a questa sua attività conosce bene i passaggi. Mi accompagna dunque dapprima in motoretta, poi facciamo due ore a piedi fino a un rifugio dove passiamo la notte. La mattina successiva mi accompagna al colmo di un passo dove mi lascia da solo. Nel frattempo, sul versante svizzero ha incominciato a nevicare e la neve mi arriva già a metà polpaccio. A quel punto lui ritorna indietro e mi dice di andare sempre dritto che avrei trovato la strada. E io vado avanti. Vestito da città, procedo con qualche difficoltà aiutato da una borraccia d'acquavite. Mi ricordo che a un certo punto quasi cado in un ghiacciaio perché, camminando dritto nella neve, mi trovo a scivolare a qualche metro da questo ghiacciaio.
In ogni caso l'acquavite mi aiuta a superare senza timore l'avventura, cioè aggiunge alla mia incoscienza giovanile anche un poco d'incoscienza etilica, e arrivo infine, bagnato, inzuppato, alla strada. Lì faccio l'autostop e riesco a farmi accompagnare fino alla stazione ferroviaria di Briga. Qui mi asciugo alla stufa della stazione e prendo il treno per Ginevra, dove sono ospitato da Pietro Ferrua, che il giorno successivo mi accompagna in automobile attraverso la frontiera fino in Francia. Di lì parto per Parigi, dove sono preso in consegna dai compagni spagnoli che mi danno in uso un mini-appartamento in una delle loro «case sicure», dove rimango fino alla vigilia del processo.
Nota di colore che si aggiunge alla vicenda: avevo allora un «conto aperto» con il gestore di una trattoria di Parigi che era un anarchico italiano abbastanza anziano di cui ora non ricordo il nome. Costui mi dava da mangiare gratuitamente ogni qual volta mi presentavo nel suo locale sapendo i motivi per i quali mi trovavo a Parigi. Ecco, tutta la mia fuga è stata costellata da anelli di solidarietà anarchica.
Sono rimasto a Parigi fino alla vigilia del processo, che è stato fissato con una rapidità straordinaria per la metà di novembre. Decido quindi di ritornare in Italia, ma prima rilascio un comunicato stampa all'AFP dove preannuncio che mi costituirò. Rifaccio il percorso a ritroso, ma questa volta attraverso il confine a Lugano, o meglio a Chiasso e più precisamente attraverso un valico minore vicino Chiasso...

Viaggiavi sempre con la pistola che avevate usato per il sequestro?

No, l'aveva seppellita mio fratello in un campo vicino a casa mia. E devo dire che quando un giorno siamo andati a riprenderla non l'abbiamo più trovata...
Attraverso quindi questo valico minore con uno dei miei due avvocati, dormo a casa sua e il giorno dopo mi presento clamorosamente all'udienza fingendo di essere il suo giovane d'ufficio che gli portava la borsa in tribunale. Una volta entrato mi consegno ai giudici. A quel punto c'è subbuglio in aula perché la polizia aveva fatto blocchi stradali e ferroviari per prendermi dopo che avevo annunciato il mio ritorno. Come ultima beffa c'è dunque stata questa mia libera consegna, e non l'arresto, com'era capitato a tutti gli altri attori e complici (conosciuti).

Varese, novembre 1962: Amedeo
Bertolo e Gianfranco Pedron
ammanettati durante le fasi del processo


Il processo, un successo

Il processo è una grande occasione di propaganda antifranchista. C'è un gran clamore sulla stampa... Ma non dimentichiamoci che a questo punto la notizia più importante è che la condanna a morte è stata nel frattempo commutata. Infatti, dopo la vicenda del vice-console, la notizia di quella condanna era uscita in prima pagina su tutti i quotidiani e i partiti si erano finalmente mossi, soprattutto i comunisti che avevano organizzato delle manifestazioni. Solo a quel punto il cardinale Montini si decide anche lui a chiedere clemenza al cattolicissimo Franco. Così, grazie a questa mobilitazione, la pena di morte viene commutata in trenta anni di galera e la pena carceraria degli altri due viene ridotta. La nostra azione ha dunque avuto un esito positivo per i compagni spagnoli, così come il processo lo ha avuto per la diffusione delle idee libertarie e per la solidarietà con la Spagna antifranchista.
Il processo ha rappresentato un successo anche per noi perché abbiamo ottenuto una pena minima, in pratica il minimo consentito dalla legge: sei mesi di reclusione per sequestro di persona e venti giorni per detenzione d'armi, con la concessione dell'attenuante per aver agito per motivi di «alto valore morale e sociale». Credo che per la prima volta sia stata concessa per fatti politici questa attenuante, che era normalmente utilizzata per i «delitti d'onore».

Quando lo avete sequestrato, come ha reagito il vice-console?

Era molto impaurito. Mi ricordo che quando siamo usciti dall'automobile, su in montagna, ci ha detto: «Se dovete ammazzarmi ditemelo prima, così prego». Noi gli abbiamo risposto: «Non preoccuparti, non siamo fascisti [sorride], è Franco che ammazza!». E lui: «A me non risulta...». In ogni modo, dopo un po' si è reso conto che non avevamo intenzione di fargli del male, oltre al fatto che lo avevamo sequestrato...

Il processo finisce bene...

Siamo condannati come dicevo al minimo della pena e siamo scarcerati tutti per sospensione della pena. In realtà io sono rimasto in carcere solo il tempo del processo, una decina di giorni, mentre gli altri sono rimasti tra un mese e un mese e mezzo a secondo del momento in cui sono stati arrestati.

Che cosa hanno fatto durante tutto questo episodio i vecchi anarchici?

Cosa vuoi che potessero fare... Ne hanno parlato su Umanità Nova e su L'Agitazione del Sud, naturalmente con termini entusiastici riferendosi a questi «bravi giovani che riscoprono gli ideali libertari». E hanno raccolto soldi per le spese legali.

Cosa hanno fatto in seguito Luigi Gerli, Gianfranco Pedron e Aimone Fornaciari?

Pedron ha abbandonato la militanza anarchica dopo il processo e ha continuato a studiare alla Facoltà di Agraria, dove ho studiato anch'io e dove si è laureato circa un anno dopo di me. Poi non ho più saputo nulla di lui. Gerli ha interrotto gli studi universitari e ha svolto varie attività. Ha trascorso un paio d'anni in Finlandia e poi è tornato in Italia. Da allora l'ho visto saltuariamente fino al 1967 e poi non l'ho quasi più visto. Aimone Fornaciari si è trasferito in Finlandia poco dopo il processo, dapprima a tagliare alberi, poi con il passar degli anni a insegnare Italiano. Continua a ricevere la nostra stampa, legge i libri di elèuthera, è abbonato ad A e Libertaria e periodicamente ci sentiamo.

intervista a cura di Mimmo Pucciarelli

Questa testimonianza di Amedeo Bertolo è estratta dall'intervista pubblicata nel volume l'Anarchisme en personnes, edita dall'Atelier de création libertaire di Lyon nel 2006.

Per lo stesso volume, oltre ad Amedeo, hanno raccontato la loro storia altri amici e una amica ben conosciuti da “A“ rivista anarchica: Eduardo Colombo, Ronald Creagh, John Clark, Marianne Enkell e José Maria Carvalho Ferreira.

Per riceverne una copia (prezzo “speciale“: € 10,00) le richieste vanno fatte a:
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