rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


Sicilia
E se coltivassimo le terre confiscate?
di Laura Orlandini


Nuove frontiere della lotta alla mafia: la proposta delle cooperative biologiche.

 

Vigna sui terreni confiscati, Corleone -
Cooperativa Lavoro e Non Solo


La Sicilia di questi ultimi anni sta raccogliendo la sua storia, la sua eredità di lotta, l'ha messa a piantare e l'ha trasformata in filari di vigne, in campi di pomodori.
Dal composito mondo dell'antimafia sta sorgendo un fiorire di proposte, un tentativo costante di conquistare terreno, di aggrapparsi al concreto, di prendersi uno spazio e lottare per tenerlo stretto. Mattone dopo mattone, seme dopo seme, la lotta tenace e costante che ha segnato la storia dell'isola sta diventando visibile alla luce del sole, sta dando i suoi frutti. Una realtà che cerca di prendersi pezzetti di terra, di fare spazio, mentre tiene stretto il filo che la collega alla propria memoria.
Corleone è il nome più famigerato della storia della mafia siciliana, patria di Provenzano e di Riina, ma soprattutto simbolo tristemente riconosciuto e pittoresco nella cinematografia americana. Andare in giro per il mondo e dire Corleone significa rievocare inevitabilmente coppole, lupare e codici d'onore. Eppure Corleone è uno dei posti dove la lotta alla mafia ha potuto piantare le sue radici più solide.
È un paese di 11.000 abitanti conficcato nel mezzo dell'entroterra palermitano, appoggiato su una campagna verde e gialla di vigneti e campi di grano, di colline ondulate interrotte da picchi di roccia bruschi e aridi. A Corleone, grazie alla volontà di alcune amministrazioni illuminate che dal 1999 in poi hanno creduto in questo progetto, tutte le terre confiscate alla mafia sono state assegnate a cooperative sociali. Quello che dieci anni fa era solo un'intuizione, è ora un percorso che si porta avanti con lavoro e volontà giorno dopo giorno.
Il primo a dirlo è stato Pio La Torre: per combattere la mafia bisogna andare a intaccare le sue fonti di reddito, le risorse che è in grado di controllare, la presenza territoriale di cui si vanta. Il potere mafioso si fa vedere, tiene in mano la terra e il commercio, esige un pedaggio che sancisce i confini e che stabilisce chi è che comanda.
Pio La Torre, comunista e sindacalista, assassinato nel 1982 dopo aver lottato per anni contro la base militare americana di Comiso, ebbe un'idea che sarebbe diventata legge: togliamo alla mafia i suoi beni, togliamole il mezzo che le permette di dominare incontrastata sul territorio, e si spaventerà: senza terra sotto i piedi inizierà a traballare.
Una legge può anche perdersi tra le scartoffie, rivoltarsi come un calzino, rimanere privilegio e profitto di qualcuno. L'intuizione di Pio La Torre è diventata una consuetudine viva nel quotidiano grazie anche all'impegno dell'associazione Libera, che dal 1995 riunisce sotto il suo cappello le diverse realtà che si riconoscono nella lotta alla mafia. Nel 1996 Libera raccolse oltre un milione di firme per proporre il riutilizzo sociale dei beni confiscati, perché non restassero abbandonati nelle mani di uno stato troppo spesso assente e distratto, facili prede delle famiglie di potenti che avrebbero potuto riappropriarsene passando dall'entrata posteriore. E invece no: di certo il rischio è ancora presente, i beni confiscati vanno difesi, vanno tenuti stretti (per questo, d'altronde, si lotta), ma c'è una realtà brulicante di associazioni e cooperative sociali che ha deciso di provarci e di farsi vedere. Si sono messi sotto la lente, hanno deciso di metterci la faccia, di accettare la sfida, e questo può fare ben sperare.
Tre sono le cooperative attive a Corleone, tutte e tre lavorano sui terreni, perché Corleone è soprattutto campagna: la presenza mafiosa è passata sempre attraverso la terra.
Tutte e tre si dedicano alla cultura biologica: una è intitolata a Pio La Torre, una a Placido Rizzotto, e la terza, la più longeva, una cooperativa dell'Arci, si chiama Lavoro e non solo e da più di un decennio collabora con il locale Centro di salute mentale per il reinserimento lavorativo di persone con disturbi psichici.

Cinisi, maggio 2012 - corteo del
Forum Sociale Antimafia 2012


Ma qualecultura della legalità“?

È poca cosa, sono solo fazzoletti di terra, un po' di grano e di vino, un po' di pomodori da raccogliere a mano e con fatica. La mafia che muove capitali immensi, che mette le mani nella politica e nel narcotraffico, quanto potrà infastidirsi per una vigna in meno? Per quanto si tratti di appezzamenti consistenti, sarà giusto un dispetto, una mosca sul naso, niente di più. Eppure aggressioni e minacce sono la prova che l'attività delle cooperative ha colpito nel segno, perché va a intaccare l'immagine, la presenza nel territorio. Anno dopo anno, raccolto dopo raccolto, le cooperative sono sempre più inserite nella realtà locale, il loro lavoro è riconosciuto e apprezzato, la proposta politica si mostra ogni giorno alla luce del sole. E questo non può che andare a intaccare un sistema di potere che si basava soprattutto sull'autorità indiscussa e sul silenzio.
Promuovere la “cultura della legalità” può voler dire tante cose. Lavorare nelle cooperative delle terre confiscate significa dare un contenuto, un senso, una direzione all'idea di legalità, che è innanzitutto agire a viso aperto, pensare e proporre rapporti di lavoro equi, in contrasto con lo sfruttamento schiavistico e l'abbandono che prima caratterizzavano quelle stesse terre.
Una delle case di proprietà di Provenzano è ora un “laboratorio della legalità”: significa che la porta è aperta, che è un soggetto vivo all'interno del paese, dove si vendono i prodotti delle cooperative e dove una rassegna di quadri di Gaetano Porcasi ripercorre la storia della mafia, delle stragi, delle lotte sociali in terra siciliana. Dalla mitraglia di Salvatore Giuliano sulle bandiere rosse di Piana degli Albanesi ai chili di tritolo esplosi sull'autostrada tra Cinisi e Palermo nel maggio del '92, si racconta una storia segnata da ferite profonde e dal sangue di molte vittime, una storia oscura fatta di rabbia e coraggio, di terribili sconfitte, carica però della volontà di trasmettere speranza. È come sovvertire un pezzo alla volta le regole che stabiliscono cosa è rispettato, cosa ha valore, cosa può lasciare il segno e fare frutti. E si tratta di una partita ancora in corso, che si sta giocando in questo momento, giorno dopo giorno.
È un mondo composito e variegato quello che si trova a lavorare sulle terre confiscate. La cooperativa Lavoro e non solo raccoglie ormai da cinque anni gruppi di volontari, proponendo campi di lavoro e di studio. Sono ragazze e ragazzi che arrivano da varie regioni del continente, anche dal profondo nord, hanno diciott'anni o poco più e portano le loro voci, la loro energia, la loro curiosità tra i filari delle vigne. Fanno domande, vogliono sapere e fare, e possono vedere da vicino cosa vuol dire stare sulla terra e difenderla. Soprattutto, allacciano la memoria siciliana con la loro, fanno diventare questo percorso qualcosa di condiviso, che getta reti nel tempo.

Portella della Ginestra, Piana degli Albanesi,
provincia di Palermo - lapidi commemorative
della strage del 1 maggio 1947

La memoria è un nodo fondamentale: la storia delle lotte sindacali degli anni Quaranta, di Placido Rizzotto e degli altri sindacalisti uccisi, delle battaglie perdute per la distribuzione della terra sono il filo conduttore che collega l'attività di ora con le ferite aperte del passato.
I sopravvissuti della strage di Portella della Ginestra, ormai novantenni, raccontano la loro storia e la loro sconfitta, il loro primo maggio lontano e vivo, e tendono la mano a una generazione che sta imparando appena a tirare fuori la testa dalla sabbia: è un passaggio di memoria e di eredità, di una lotta che cambia nelle forme e nelle coordinate ma passa sempre attraverso la terra, attraverso la necessità di contrastare il potere mafioso tenendo alta la testa.
I soci della cooperativa sono perlopiù contadini corleonesi, abituati al lavoro duro della campagna, che hanno scelto di mettere le loro braccia in questa storia, hanno raccolto il rischio e le difficoltà di sfidare la mafia a viso aperto, nel loro stesso paese. All'inizio ha voluto dire perdere il rispetto e la fiducia della comunità, svegliarsi al mattino e trovare la vigna saccheggiata, ha voluto dire stringere i denti e tirare avanti.
Col tempo, i semi piantati hanno iniziato a germogliare e la cooperativa Lavoro e non solo è ora un punto di riferimento riconosciuto, uno spazio di condivisione e confronto che si costruisce anche attraverso la fatica messa tra i filari. I contadini della cooperativa non sono più soli: anno dopo anno si è creata una massa sociale attenta, generazioni diverse e diversi percorsi che sono confluiti in quelle terre e che hanno imparato a tenerle d'occhio tornano a casa portandosi appresso un po' di questa battaglia. La mafia smette così di essere croce e condanna dei siciliani, quasi fosse un fenomeno atavico e culturale, e diventa qualcosa di concreto, che si può misurare e contrastare, destinato a perire come tutti i fenomeni umani, grazie a una lotta che può essere di tutti.

Cooperativa Lavoro e Non Solo, Corleone -
Soci e volontari al lavoro


Antimafia militante

La mafia è potere, nella sua forma più sfacciata e oscena, e la lotta alla mafia è, anche e soprattutto, lotta al potere. “Contro mafia i putiri c'è solu rivoluzioni”, recita uno striscione che apre le manifestazioni dell'associazione Radio Aut. Dalla Casa memoria di Cinisi, dove sono raccolti libri, fotografie e documenti sulla storia di Peppino Impastato, dove s'affaccia sul balcone la scritta “La mafia è una montagna di merda”, Radio Aut ha portato avanti in questi anni un percorso che tenta di unire memoria e conflitto nel presente. L'hanno chiamata “antimafia sociale”, per affermare la volontà di costruire una proposta politica dal basso, perché additare il potente di turno, gridare responsabilità e nomi, porta con sè anche un progetto da portare avanti, un sogno di società.
Sono dodici anni che Radio Aut, a ogni anniversario dell'omicidio di Peppino, cerca di dare un nome e un contenuto a quella nuova resistenza antimafia che Felicia Impastato aveva auspicato, creando una piattaforma di confronto e discussione sulle proposte politiche e le sfide dell'oggi. Il forum antimafia “Felicia e Peppino Impastato” dell'edizione del 2012 ha dimostrato ancora una volta la volontà di non arroccarsi sulla mera celebrazione ma di prendere spunto dalla lotta di Peppino per renderne attuale il patrimonio politico.
Si è discusso di crisi economica e dell'attacco antidemocratico imposto dalla dittatura delle banche, si è parlato di politiche del lavoro insieme a coloro che, in quest'ultimo anno, hanno subito la crisi e la demolizione dei diritti e stanno portando avanti percorsi di lotta: dagli operai di Termini Imerese a quelli della Dalmine di Brescia, passando per lo sfruttamento schiavistico dell'immigrazione clandestina nei campi di Rosarno. Come ricorda anche Salvo Vitale, amico e compagno di lotte di Peppino Impastato, la sfida alla mafia ha saputo esprimersi nel tentativo di difendere il territorio dai soprusi del potere, che anela al profitto anche a costo di devastare l'equilibrio ambientale e sociale esistente. Impastato che si siede davanti alle ruspe per fermare gli espropri del cantiere dell'aeroporto sta soprattutto cercando di tenere stretto uno spazio collettivo e di difenderlo da chi vuole appropriarsene con prepotenza, scavalcando diritti per il proprio guadagno. La sua battaglia non è molto diversa da quella che si sta combattendo ora in Val di Susa contro i cantieri della TAV.
A Cinisi, lo scorso maggio, l'estremo nord della penisola e la punta a ponente della Sicilia hanno trovato uno spazio comune di lotta, hanno lanciato una fune che ne tiene unite le rivendicazioni e i percorsi. Così come la difesa dell'informazione libera di Telejato, televisione locale che nonostante le ripetute minacce e intimidazioni continua ogni giorno a denunciare gli affari della mafia sul territorio, passa anche attraverso la memoria delle radio libere degli anni Settanta e della controcultura che ne è stata il segno di riconoscimento.
Conflitto in Val di Susa e difesa dell'acqua pubblica, diritti del lavoro e della libera informazione: la lotta si costruisce su queste basi perché l'antimafia non diventi un appiattimento passivo sull'azione della magistratura, un applaudire a ogni arresto, un fare la lista, ogni giorno, dei buoni e dei cattivi. La voce popolare vuole che anche i potenti vadano in carcere, non solo i poveri diavoli: c'è chi ha raccolto questa esigenza di giustizia rispondendovi con le armi della legge, indicando e arrestando i responsabili, dando un nome all'associazionismo mafioso che fino a trent'anni fa era giuridicamente una nebulosa inafferrabile. È necessario per la società civile fare dell'altro, pensare a quali contenuti dare al futuro, mettere le basi di un progetto che sia anche politico. In questi anni, in Sicilia, si stanno piantando i semi di una società ancora tutta da costruire: e c'è ancora un sacco di lavoro da fare.

Laura Orlandini