rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


attenzione sociale


a cura di Felice Accame


Critica della modernità
e critica della democrazia



1. A quanto sembra le lamentele nei confronti della modernità si perdono nella notte dei tempi. Ricostruendone la genesi, in Un'altra modernità (Bietti Edizioni, Milano 2012), Davide Bigalli, d'accordo con Eugenio Garin, ne individua già i prodromi in Bernardo di Chartres (XIII secolo), ma è presumibile che, cercando e volendo trovare, possiamo andare ben più in là. Per esempio: che sono tutti i sospiri nostalgici delle varie età dell'oro perdute fioriti nella letteratura greca se non disapprovazione della modernità?
A prima vista, contro queste lamentele ci si potrebbe accontentare di rilevare la falsità – o l'improbabilità, perlomeno, e di certo la non dimostrabilità – dei vari paradisi perduti e dire che una società umana che si rispetti e che tenda alla convivenza felice non ha bisogno di miti negativi fondativi. Tuttavia, a ben guardare – a ben guardare ciò che rimane più vicino a noi e dunque più guardabile – ci si accorge ben presto di alcuni tratti comuni, in queste tesi, che, più o meno surrettiziamente, costituiscono il quadro essenziale di una proposta in positivo. Su alcuni di questi tratti varrà allora la pena – l'espressione qui non vuol essere un modo di dire – di riflettere.


2. Il primo di questi tratti concerne l'arte del governo che, almeno a partire da un certo momento in poi – chiamiamolo “illuminismo”, questo momento – comincia a prendere in considerazione la democrazia come un'alternativa possibile. L'atteggiamento degli antimoderni – da Herder a Novalis, da Joseph De Maistre a Burckhardt, da Chateaubriand a Jünger, da Nietzsche a Guénon e a Evola passando anche per la Scuola di Francoforte (per citare solo alcuni dei collezionati nel ricco catalogo di Bigalli) – nei confronti della democrazia è di esplicita insofferenza. Kant – forse anche perché non ce l'ha in casa propria – sostiene la rivoluzione francese e, al contempo, che non “non si può giudicare (...) circa la legittimità del potere vigente”, ma considera la democrazia come una forma di dispotismo, “perché fonda un potere esecutivo in cui tutti deliberano su uno e nel caso anche contro uno (che dunque non dà il suo consenso), quindi tutti che però non sono tutti”, mentre gli argomenti degli altri sono di tutt'altra natura.
Flaubert giustifica la sua opposizione al suffragio universale dicendo che “la forza del braccio, il diritto del numero, il rispetto della folla sono succeduti all'autorità del nome, al diritto divino, alla supremazia dello spirito”. Forse meno beotamente, ma senza mutarne di una virgola il senso, i fratelli Goncourt nel loro Journal, contro il suffragio universale sostengono che “il diritto divino del numero, rappresenta un'enorme diminuzione dei diritti dell'intelligenza”. L'argomento è noto e lo si ritrova in varie forme in tutta la storia della nostra cultura. Per Francesco Guicciardini – nel Libro primo delle considerazioni intorno ai ‘Discorsi' del Machiavelli – “el popolo per la ignoranza sua non è capace di deliberare le cose importante” ed è morta lì. Con il passare degli anni l'argomento cambia poco: dall'impresentabile Baudelaire che associa la democrazia alla “sifilide” e dà per assodata e immodificabile una “stupidità nazionale” ai teorici più perbenino del secondo Novecento che teorizzano una democrazia “informata” per decretarne – nuove tecnologie alla mano – l'impossibilità. Così un Robert Dahl che dall'aumento del “divario tra il livello di informazione dei cittadini elettori (modesto) e il livello di conoscenza richiesto per esprimere un mandato adeguato” ricava l'idea di un “minipopulus”, ovvero di un campione di cittadini, rappresentativo – scelto con le tecniche statistiche in uso nei sondaggi della cosiddetta “opinione pubblica” -, pronto a costituirsi in “elettorato presunto” svolgendo diligentemente il compito di un organo consultivo. Così un Niklas Luhmann, secondo il quale “concepire la democrazia come la partecipazione di tutti o della maggior parte ai processi di decisione politica è prima ancora che un'utopia, un radicale nonsense”, perché ciò a suo avviso contraddirebbe la “logica sistematica delle società complesse, il cui obiettivo funzionale è ‘l'economia del consenso', ossia la supposizione o funzione istituzionale del consenso, non già la ricerca di un consenso effettivo, fondato su ‘convinzioni comuni' dei cittadini. Una tale ricerca, così come la promozione di una partecipazione politica attiva dei cittadini, non solo distoglierebbe il potenziale di attenzione disponibile da altri temi e lo esaurirebbe rapidamente, ma farebbe esplodere la dimensione temporale dei processi decisionali. Il tempo è un bene anch'esso sempre più scarso nelle società complesse“. Come dire, insomma, che, alla luce della capitalizzazione del “tempo”, non c'è istanza democratica che tenga – del consenso “effettivo” dei cittadini ci se ne deve fregare ampiamente o, più elegantemente – come fosse un bene esauribile –, se ne deve “economizzare”. Giustamente Giorgio Galli ha sottolineato come l'impostazione di Luhmann – così come quella di Lipset e di Sartori (o, perché no? quella di un Evola che definisce la democrazia come “perversione ideologica tipica del mondo moderno”) – “sia un completo capovolgimento del presupposto illuminista: il cittadino elettore non diviene sempre più colto e quindi sempre più informato ma sempre più ignorante e sempre più teledipendente, per cui non è in grado di partecipare alle scelte, ma solo di delegarle, da 'subordinato'”. Il che farebbe “regredire l'idea di democrazia a una concezione arcaica” – una sentenza che, a mio avviso, avrebbe potuto anche essere espressa nei termini del Lukács de La distruzione della ragione quando osserva che la critica occidentale alla moderna democrazia borghese “è sempre legata all'irrazionalismo”.


3. Nel 1993, in occasione della ripubblicazione de Le illusioni del progresso, sul “Corriere della Sera”, Riccardo Chiaberge, apparentemente preoccupato, annotava che “proprio ora che avremmo bisogno di riscoprire le radici del pensiero democratico, un editore 'progressista' non trova di meglio che propinarci il pensatore più antidemocratico e antimoderno”. Lo stesso che Andrea Casalegno, su “Il Sole 24 Ore“, definiva come “eroe del regresso” seppellendo il suo pensiero come “radicali imbecillità”. Si tratta di Georges Sorel che, nel libro di Bigalli, risulta assente ma che, in quanto ad argomentazioni antidemocratiche, non sfigura di fronte a nessuno. La sua sfiducia nell'istituzione parlamentare e in coloro che, tramite questa, vorrebbero riformare la società implica per lui la condanna della democrazia in quanto tale. è con Vico nel ritenere che “i cittadini delle democrazie non considerano nient'altro che i loro interessi particolari”, ma si dice anche convinto che “la democrazia finisce pian piano col sopprimere tutte le opposizioni” – compreso il suo “sindacalismo”, corrotto com'è dalle infiltrazioni di “intellettuali” e di “socialisti ufficiali”. Quando, in odor di conversione a destra per aver cercato sodali nell'uggia antimoderna, scriverà la dichiarazione programmatica della rivista che non verrà mai stampata, “La Cité française”, la democrazia, per lui, costituirà “il più grande pericolo sociale per tutte le classi della Cité, principalmente per le classi operaie”. E questa volta non si trattava semplicemente di imputare alla democrazia lo svuotamento delle opposizioni, parlamentari e sindacali, ma anche la “confusione delle classi”, una sorta di esito interclassista obbligato dalle pratiche democratiche, “al fine di permettere a qualche banda di politicanti, associati a dei finanzieri o dominati da essi, lo sfruttamento dei produttori”. Nel 1921, in un'amara lettera a Missiroli in cui guarda con angoscia gli sviluppi del fascismo in Italia – di quello stesso fascismo che, più tardi, al momento di farsi teoria, lo eleggerà a proprio padre se non nobile almeno alfabetizzato – e l'incapacità del socialismo di “difendere le posizioni che aveva conquistato”, crede di poter constatare, attorno a sé (“partout”), “debilità intellettuale” e “democrazia che trionfa”.



4. Contro queste argomentazioni ho almeno tre obiezioni. La prima concerne il presupposto tacito che le regge: l'uomo – o, al meno, l'uomo sociale – è una bestia infida o tonta. Nessuno può sperare che ne possa venire qualcosa di buono. È il tipico presupposto di uno dei versanti più frequentati dei vari sistemi di morale derivati dalla filosofia: dove il risultato di un nostro operare – con cui giudichiamo i vari comportamenti dividendoli in buoni e cattivi, ammessi e non ammessi – è spacciato come caratteristica insita nella persona che assume il comportamento in questione; dove una categoria mentale – tutta dell'osservatore – è attribuita come stigma dell'osservato considerato indipendente dall'osservatore. Chi ne usa e ne abusa, di queste argomentazioni, come minimo non si è ancora liberato da ulteriori presupposti inequivocabilmente di ordine metafisico.
La seconda obiezione concerne la pratica della democrazia medesima. Posso anche condividere, posso anche farla mia, la constatazione che, nelle democrazie realizzate, qualcosa non vada per il verso giusto a proposito della formazione – e dell'informazione – dei suoi cittadini; posso anche essere pienamente d'accordo sul fatto che governi e loro strumentazione tecnologica in perenne evoluzione producano più inetti e stolidi subordinati che cittadini consapevoli e responsabili di sé e del proprio ruolo sociale. Ma ciò non lo posso affatto ritenere un argomento contro la democrazia. L'argomento è analogo a quello usato dalla borghesia faccendiera nei confronti del comunismo – che in quanto tale sarebbe da rifiutare insieme all'Unione Sovietica, a Cuba, alla Cina di Mao ed alle altre soluzioni autoritarie che si sono barricate dietro il suo nome. Se nella pratica democratica – difficile e faticosa quanto si vuole – includo il processo di formazione dei suoi attori, un processo in atto nell'autodeterminazione di darle vita e di viverla, buona parte dell'argomentazione svanisce e, alla luce del sole, ne rimane soltanto il presupposto manicheo.
La terza obiezione – rivolta ad una cerchia forse più ristretta di interlocutori – concerne quanto si contrappone in positivo contro il negativo di cui ci si lamenta. Per farla breve prendo il caso di Flaubert e ci aggiungo anche quello di Jünger. Flaubert – torniamo nel clima del detestato suffragio universale – contrappone a ciò che lo opprime la “autorità del nome”, il “diritto divino” e la “supremazia dello spirito”. Solo storia alla mano – senza ancora badare al senso delle sue parole –, sarebbe il caso di appellarsi ad un Dio che ce ne scampi e liberi. Nessuno può ignorare quanto arbitrio – quanto sangue – sia alla base di qualsiasi processo storico che ha condotto un “nome” – sia di re che di suoi manutengoli – ad acquisire una “autorità”. Come nessuno può ignorare il male inferto da qualcuno – arrogatosi il ruolo di interprete, spesso unico legittimato, mediatore autorizzato – a molti altri nel nome di un “diritto divino” che, per quanto la si rigiri, rimane l'invenzione di qualcuno tradotta in rituali di finzione per complici e succubi. Che, infine, per invocare una “supremazia dello spirito” sia prima necessario dicotomizzare l'essere umano in due parti – assegnando valore positivo all'una e valore negativo all'altra – è talmente evidente che non mi sembra il caso di infierire. Voglio semplicemente dire: ammesso e non concesso che i tratti costitutivi del suffragio universale facciano schifo, i tratti costitutivi di quanto gli si oppone fanno più schifo ancora. Ci volevo aggiungere anche Jünger quando dice che “solo il poeta, il letterato, in una parola, il ribelle possono superare l'invisibile 'muro del tempo' e penetrare in quella 'dimensione altra', dove riposano le forze primordiali”. Mi chiedo come possano essergli perdonate le sue metafore e se questo straparlare possa significare qualcosa d'altro – di più, di meno – di una retorica che si è rivelata così funzionale all'idea élitaria del fascismo.


5. Un altro tratto caratteristico di questo pensiero antimoderno è di ordine storico e, generalmente, può essere riassunto nella condanna dell'Illuminismo. In virtù di questo clima di pensiero avremmo cominciato a dubitare della provvidenza, la nostra felicità avrebbe continuato a essere differita e, per di più, sotto forma di etica del lavoro, differita sarebbe stata anche la fruizione dei suoi benefici, ci sarebbero toccate tutte le nefaste conseguenze dell'accumulazione capitalistica e infine – come ci avrebbe insegnato De Sade – avremmo dovuto fare i conti con la “catastrofica espressione del desiderio”. Avremmo scoperto a nostre spese che la “tirannia della ragione” – come diceva Georg Forster – è “la più inflessibile di tutte”. Nemmeno tanto sotto sotto, allora, viene sostenuta quella tesi del reazionario Augustin Cochin secondo la quale le rivoluzioni in un modo o nell'altro sono colpa degli intellettuali. Anche Sorel ce l'ha su con l'illuminismo – e con gli intellettuali. L'impresa di Diderot e soci gli sembra “da boudoir o da salotto” – tanto è vero, nota, che, pur con tutta la luce che pretendeva di emanare, non fa affatto sparire l'occultismo che, anzi, ringalluzzisce come non mai; tanto è vero che la sua scienza non avrebbe affatto eliminato quelle “illusioni parafisiche” che altro non sono che le deleterie “costruzioni immaginarie che noi facciamo della natura quando abbandoniamo il terreno scientifico”. Da questo punto di vista, Sorel non ha tutti i torti. Le sue argomentazioni sono ineccepibili, anche se la sua analisi è lacunosa laddove non vede come il primo fenomeno – il dilagare dell'occultismo e delle culture esoteriche in genere – sia diretta conseguenza del secondo – conti non fatti sino in fondo con la filosofia e, dunque, sua sopravvivenza malefica nelle radici del pensiero scientifico.


6. Tra gli insoddisfatti della modernità indagati da Bigalli c'è anche Johann Gottfried Herder che vari decenni prima di Marx si scaglia contro il sistema commerciale: “l'antico nome di pastore dei popoli”, dice, “si è mutato in quello di monopolista” e teme il momento in cui “il turbine si scinderà in mille venti di tempesta”, allorquando, in cerca di un'improbabile salvezza, ci si dovrà rivolgere al “gran dio Mammone, di cui tutti siamo servi ormai”. Questo per dire che il nemico della modernità – nemico della democrazia – non è che straveda per il modello capitalistico, ma – a differenza di Marx che lo elegge a causa prima di tutti i nostri guai – gli contrappone soltanto metafore consolatorie come quella dell'“antico nome di pastore dei popoli” che in nessun modo può garantire di essere meno monopolizzante di ciò che gli è succeduto.


7. Un'altra caratteristica che segna in modo imbarazzante queste lamentele è costituita dall'ingenuità dell'apparato critico con cui si guarda alla filosofia in genere e alla teoria della conoscenza in particolare. Se per Nietzsche la filosofia “deve divenire mitologica” – come se non lo fosse già abbastanza –, per Julius Evola – anche per Julius Evola, verrebbe da dire, visto che con ciò si aggiunge ad una compagnia già numerosa – la filosofia soffrirebbe di un errore commesso. Tuttavia, questo “errore” è davvero poca cosa se fosse costituito dal fatto che “a partire da Kant” si suppone che le “forme fondamentali dell'esperienza umana siano state sempre le stesse, e propriamente quelle familiari all'uomo ultimo”. Non si accorge che questa tesi è ridicolmente riduttiva rispetto perfino al mito della caverna di Platone e a tutta la filosofia scettica che l'ha seguito – e che, presumibilmente, neppure colpisce il minimo bersaglio che si propone di colpire. Così come Guénon ontologizza la “qualità” e la “quantità”, Evola ontologizza l'“ordine” (o l'“Ordine” con la maiuscola, nel suo caso), accreditando strumenti di “conoscenza” superiore come la “percezione psichica” di cose e luoghi da affiancare alla più modesta “percezione fisica” – facoltà di lusso per iniziati e facoltà banali per popolo ignorante, un'altra “illusione parafisica” nel catalogo di Sorel, metafora pestifera, per me, nella misura in cui prelude alla costituzione di una nuova aristocrazia di percettori.


8. Infine, mi soffermo brevemente su un'ultima caratteristica – non proprio comune a tutti, ma abbastanza frequente. Mi riferisco alla loro autodichiarata “rivoluzionarietà”. Reificano la metafora astronomica – quella del “giro completo” – e cavalcano una rivoluzione cui assegnano il significato di “ritorno allo stato di cose originario”. Non si accorgono di compiere un errore analogo a quello dell'idea di “progresso“ nel pensiero marxiano e marxista: dotano l'evoluzione di senso e scopo. Ma non si preoccupano della mancanza di un qualsiasi criterio in virtù del quale riconoscere questa “originarietà” eventualmente ri-raggiunta, che, pertanto – con le “forze primordiali” di Jünger e, già che ci siamo non facciamoci mancar nulla, con il “terzo occhio” di Helena Petrovna Blavatsky – si rivela un ingrediente indispensabile di uno dei minestroni più indigesti della storia delle idee umane.


9. Il libro di Bigalli inaugura una collana intitolata all'“Archeometro”, uno strumento medievale studiato da Guénon e da Saint-Yves d'Alveydre “che serve a misurare il legame che ogni cosa mantiene con il principio”. Già l'ontologizzazione del “principio”, la misteriosità della natura del “legame” e la pretesa di “misurarlo” mi basterebbero, ma il fatto che sia “formato da una serie di cerchi concentrici, ognuno dei quali contiene il simbolo di un certo piano della realtà o una categoria di cose, tra cui i segni planetari e le lettere degli alfabeti, ma anche lo zodiaco e gli elementi chimici”, mi convincerebbe dell'urgente necessità di prendere appuntamento con l'apposita istituzione comunale per gli sgomberi e lasciarlo sul ciglio della strada alle sei di mattina. Tuttavia, non è con lo strumento che ho a che fare. Queste spiegazioni che lo riguardano sono contenute in un corposo saggio di Andrea Scarabelli che viene premesso al libro – come un incipit di qualcosa che si estenderà ben oltre il libro medesimo. Fra il tanto d'altro, ivi si può leggere che “una critica al presente” – alla modernità – “può essere integrale” solo ad una condizione: che questa critica sia “sviluppata in senso metafisico”, perché “è solo dal ricorso a questa dimensione che si può pensare di ricostruire una epoca nuova”. Qui io ritengo che Scarabelli abbia torto e vorrei convincerlo a guardare le cose in modo diverso. Gli chiedo – e mi chiedo – se di epoche solidamente costruite sulle metafisiche non ce ne siano mai state e se sì se siano state fonte di felicità (per le moltitudini, non solo per i pochi al potere). Gli chiedo – e mi chiedo – se, ed eventualmente quando, ci sarebbe toccata quella che per lui è una iattura e che per me sarebbe un'immensa fortuna di esserci liberati dalla metafisica. Non verrò mica a scoprire oggi – dopo tanta vita allora spesa invano – che i neo positivisti e magari già quelli non neo l'hanno avuto vinta? Dicendolo in quello che per me resta un malo modo – un po' troppo vago – anch'io potrei avere parecchi motivi per dolermi del mondo attuale – e, infatti, me ne dolgo spesso: lo dico, lo scrivo, a volte mi ci strazio –, ma mai lo farei in nome e per conto di un pensiero metafisico qualsiasi cosa possa ciò voler dire. Non voglio ipostatizzare alcunché, preferisco considerare ogni mia percezione, categorizzazione e semantizzazione come risultato di operazioni innanzitutto mie e, poi, constatare in che misura queste siano condivise con altri. Nel caso m'imbattessi in differenze sono disposto a negoziare, a scavare nei criteri miei e altrui, a confrontarli, a stimarne insieme l'efficacia. L'accettazione di un principio “dato” – di ordine metafisico, suppongo – so che danneggerebbe la mia relazione con gli altri.


10. In Trockij e le orchidee selvatiche, il filosofo statunitense Richard Rorty dice che “non c'è nessun terreno comune e neutro su cui” lui e un “filosofo nazista” possano porsi “per discutere” le loro “differenze”. Tanto per cambiare, non sono d'accordo con lui. Lasciamo perdere quella “neutralità” richiesta al “terreno comune” – non so cosa sia, non so cosa possa intendere, non voglio nemmeno perderci tempo dietro. Guardiamo al resto. Rorty si sbaglia perché un “terreno comune” è costituito dalle operazioni mentali designate dalle parole che usiamo. È grazie a queste operazioni che possiamo tradurre da una lingua all'altra e, in definitiva, comunicare anche tra parlanti la medesima lingua. Si aprirà una negoziazione sui significati delle parole che usiamo? Si tratterà di un negoziato lungo, faticoso, irto di difficoltà? Certo. E senza aver innanzitutto prodotto l'uno all'altro un modello dell'operare mentale, presumibilmente, non si potrà neppure cominciare. Ma chi ha mai detto che si sarebbe trattato di un compito facile? Qui, sostengo che il compito è possibile e che, tragedia della storia umana innanzi ai nostri occhi, è doveroso provarci. Sono d'accordo, allora, con Bigalli sulla necessità di pescare anche nella pattumiera della storia delle idee e riflettere sopra quel che vi troviamo – può essere molto istruttivo. Ma a patto che la riflessione non sia monca, a responsabilità limitata. A patto che delle categorie rinvenute si faccia analisi e che non ci si trinceri dietro un insussistente camice professionale che, magari con la scusante di designare una specializzazione – una nuova forma retorica per la presunta “neutralità” –, si consegni un semilavorato buono per tutti gli usi.

Felice Accame

In “A“ 363 (giugno 2011) Felice Accame si era occupato di un altro libro dello stesso Davide Bigalli: Il ritorno del re.

Nota
Molte delle citazioni utilizzate in questo saggio sono tratte dal libro di Bigalli di cui si discute. Molte altre sono tratte da Il pensiero politico occidentale di Giorgio Galli (Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2010).
Per Sorel, poi, cfr. P. Accame, Georges Sorel. Le mutazioni del sindacalismo rivoluzionario (Prospettiva editrice, Civitavecchia 2009).
Il numero del “Corriere della Sera” citato è quello del 17 marzo 1993, mentre quello del “Sole 24 Ore” è quello del 21 marzo dello stesso anno.
Per il tanto che qui, per forza di cose, tralascio di dire, cfr. F. Accame, La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (Spirali, Milano 2002). Ivi, anche per le mie obiezioni a Rorty.