rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


lettere


Antispecismo/non ho soluzioni prestabilite

Gentile Redazione,
mi inserisco nel dibattito sollevato dall'intervento di Andrea Papi sul n° 368 (febbraio 2012), che, prendendo le mosse dal dossier vegano di Troglodita Tribe, aderisce esplicitamente a una visione critica circa il modello antropocentrico, critica che ha tra i suoi corollari il rifiuto di ogni forma di discriminazione, compresa quella nei confronti delle altre specie animali, nonché dei vegetali e del cosmo tutto.
Condivido pienamente l'impostazione del suo ragionamento che vede l'antispecismo come un elemento essenziale, ovvio del pensiero anarchico, essendo questo la forma più avanzata e coerente di riflessione e lotta contro ogni forma di dominio e discriminazione.
A proposito della questione circa l'atteggiamento verso i comportamenti specisti, come il mangiare carne, praticare vivisezione, vestirsi di spoglie di animali, ecc. e il rispetto dei tempi di maturazione delle singole concrete persone che si riconoscono nel movimento anarchico, penso che ogni libertario antispecista abbia tutta la pazienza e la delicatezza del mondo, perché sa che ogni individuo può cominciare ad ascoltare e vedere la sofferenza subita dagli altri chiunque essi siano e a comportarsi in modo da evitare di infliggere questa sofferenza; tuttavia mi permetto di evidenziare anch'io che il punto non è questo.
La questione fondamentale è che, di fatto, mentre noi dibattiamo e discutiamo, miliardi di persone non umane, oltre che umane, vengono quotidianamente massacrate o sfruttate dagli umani. Sono persone che in questo momento storico, a differenza di altri, non così lontani, non hanno la forza di liberarsi da soli da questo giogo, non per inferiorità, che non esiste, essendo solo un portato dell'ideologia verticista del dominio, ma per una diversità che non conosce le possibilità di violenza e sopraffazione della nostra specie.
Pongo la questione in termini problematici, non ho soluzioni prestabilite, ma mi chiedo quale sia il confine che non è lecito oltrepassare per non turbare le convinzioni di chi si muove anche in un'ottica di violenza antropocentrica e specista.
Penso per esempio alle critiche che ha ricevuto il fumetto pubblicato sul n° 365 della Rivista, che, come riportato dalla Redazione, è stato giudicato da molti offensivo e insolente.
Ma guarda caso questa insofferenza e disagio sono proprio la misura dell'arroccamento antropocentrico che non consente di guardare e riconoscersi nell'occhio o nella presenza dell'altro, qualunque forma abbia, di riconoscere l'altro da sé, come essere dotato di dignità propria e unicità a prescindere dalle classificazioni che possiamo permetterci di imporre solo grazie alla nostra violenza.
Come scrive Papi questo sguardo allargato è la strada per non riproporre nuove forme di dominio e discriminazione anche intraspecifiche e questo è il grande contributo teorico che l'antispecismo può portare al pensiero anarchico e di conseguenza alle prassi del movimento.
Ancora è da ricordare, benché già scritto e noto, che, per esempio, la parola capitalismo deriva da capita, quantità di bestiame posseduto, prima forma storica di accumulo, primo sfruttamento su larga scala che ha inaugurato tutti gli altri, anche intraspecifici, oltre alla categoria mentale dell'organizzazione sociale verticale, all'ideologia del dominio degli umani su tutto il cosmo, ideologia rilanciata e amplificata dalle religioni.
Sono solo accenni rispetto a tematiche allo stesso tempo complesse e semplici, a dati, riflessioni e istanze che comportano una profonda rivoluzione antropologica, che scardinano millenni di cultura e visione di sé, che sgretolano il piedistallo su cui gli umani si sono collocati e quindi le difficoltà sono comprensibili perché, come giustamente è stato detto, salvo eccezioni ora sempre più frequenti, quasi tutti gli antispecisti “occidentali” sono nati e cresciuti in ambiente carnivoro e antropocentrico. Tuttavia individui che nei momenti e modi più diversi hanno cominciato a portare avanti un cambiamento rivolto in primo luogo verso se stessi, in una dinamica di liberazione esistenziale e mentale mai conclusa, per arrivare a percepirsi sempre più in maniera orizzontale, parti di qualcosa di più ampio, gruppi viventi accanto ad altri, abitanti tutti dello stesso pianeta.
Con questo intervento rivolgo anche un invito alla Redazione, che ha voluto esplicitamente prendere le distanze dalle riflessioni che vedono l'antispecismo parte essenziale e ovvia del pensiero anarchico (“A” 364 e altri), ribadendo che la rivista non è vegana e che sia coerente essere anarchici e non antispecisti, a esporre anche le ragioni di questa presa di posizione, nel solco di quella predisposizione al confronto che è parte essenziale del movimento.
Comunque sappiamo tutti che “A” non è una rivista vegana e inoltre che non esistono patenti per un anarchismo più coerente. La storia e l'attualità del movimento parlano di una varietà di posizioni enorme tanto che spesso si afferma che ci sono tanti anarchismi, quanti sono gli anarchici, ma questa è, a mio modesto parere, anche una delle sue forze più rilevanti, perché è una realtà che rispecchia la stessa multimorfimità caotica della vita.
Ma il punto è, lo ribadisco, un altro cioè capire i motivi per cui si ritiene che l'antispecismo non sia strutturale al pensiero anarchico. Questa sarebbe la vera apertura verso un pensiero diverso, la relazione, la dialettica e non solo la pubblicazione degli interventi da cui poi si prendono le distanze senza condividere le proprie riflessioni.
Magari, e l'invito è rivolto a tutte le persone concrete che fanno parte del movimento, si potrebbe cominciare a dialogare in merito ai dati circa l'impatto ecologico e sociale del consumo occidentale di carne, dati che non ripeto, essendo stati già ampiamente pubblicati, ma che si possono riassumere in gas serra, deforestazione, inquinamento delle falde, predazione delle terre alle comunità locali e delle risorse agricole per esempio africane o brasiliane dirottate nei nostri allevamenti intensivi, ecc.
Incominciamo dai dati numerici e poi finalmente leggeremo anche le riflessioni sulle posizioni politiche ed etiche dell'antispecismo e la spiegazione per cui questo pensiero non sia strutturale rispetto a quello anarchico.
In conclusione mi associo all'invito rivolto da Papi agli antispecisti a continuare a rivolgere in primo luogo a se stessi la critica quale segno di “determinazione a oltranza nel combattere male e ingiustizia” e inoltre, come avevo già scritto, a essere meno timidi all'interno dei movimenti, a far esplodere le contraddizioni, a citare i dati, le conseguenze dei comportamenti di violenza specista, anche se ciò comporta fatica, incomprensioni, isolamento, un andare controcorrente laddove si è già controcorrente, lungo i percorsi impervi della lotta e dell'energia antispecista non violenta.

Luca Bino
Milano



Il seme della discordia

L'agricoltura, attività primaria, fonte basilare per l'approvigionamento alimentare dell'uomo, si fonda su alcuni elementi imprescindibili: la disponibilità di terra, l'abbondanza d'acqua, la conoscenza di buone tecniche agronomiche.

Veniamo all'ultima di queste condizioni, la conoscenza. Da tempo immemorabile, da quando il primo uomo o donna ha posto a dimora un seme ed ha appreso a curarlo, allevarlo, seguirlo fino ad ottenere la pianta voluta, le sementi sono sempre state riproducibili, esse sono state selezionate in base alle esigenze umane e, per fare un esempio, la vite che conosciamo noi, non è certamente la stessa che allignava, suo areale originario, sui monti del Caucaso ove si ritiene essa abbia suscitato l'interesse degli uomini per la prima volta.

È una semplice legge naturale quella della selezione, prendete, anche oggi, nel duemila, qualunque seme di infestante, per esempio il comunissimo amaranto, cominciate ad isolarne i semi, coltivatelo nell'orto, liberatelo dalle altre consorelle, non ci vorranno molte generazioni e vedrete che questo amaranto arriverà a produrre chicchi più grossi, diventerà sempre più imponente, certamente perderà quella rusticità che aveva l'amaranto selvatico che aveva quello preso in campagna, spontaneo.

Bene, applicate questo semplice meccanismo su vasta scala, prendete in considerazione popolazioni di contadini in ogni parte del mondo, distanti tra loro, operanti in ambienti alquanto differenti: tutto ciò nel corso di decine di migliaia di anni ha prodotto la biodiversità rurale.

Per semplificare: esistevano qualcosa come 12.000 varietà di riso e crescevano ed alimentavano popolazioni dalle sabbie desertiche alle ricche ed irrigue pianure asiatiche, ovvero esistevano varietà di riso asciutto, dai colori, fogge, dimensioni le più incredibilmente diverse.

Certo, se ci si reca in un negozio di prodotti macrobiotici o biologici si possono trovare rissi a chicco nero, rosso, con un pò di fortuna anche il cossiddetto “selvatico” ma dovete immaginare un'abbondanza infinitamente maggiore.

Agli inizi del Novecento, i ricercatori dell'Istituto Vavilov, San Pietroburgo, poi Leningrado, istituto intitolato giustamente a quell'insigne botanico che aveva percorso i continenti alla ricerca, raccolta e catalogazione di tutto il germoplasma esistente, e fino alla dissoluzione dell'Urss, hanno custodito,

sopravvivendo persino all'assedio nazista, i ricercatori si lasciarono morire di fame pur di non intaccare quella meraviglia accumulata nelle loro celle, migliaia e migliaia di varietà di verse di ogni tipo di orticola, cereale, di ogni pianta utile per l'umanità, avevano accumulato una quantità di germoplasma imponente.

Questa biodiversità era dovuta ad una molteplicità di fattori, dal clima, alle tecniche colturali, alle tradizioni delle tante popolazioni di agricoltori presenti sul pianeta.

Come mai, oggigiorno, in tutto il pianeta, sempre per attenerci al riso, di varietà non ne esistono che poche centinaia e pure esse a rischio di estinzione?

È stata, principalmente, colpa della cossidetta “rivoluzione verde” ovvero dell'introduzione massiccia, in ogni angolo del globo, ovunque possibile, di una meccanizzazione totale, i trattori, le trebbiatrici, dappertutto o quasi hanno sostituito i buoi, i cavalli, gli asini. L'introduzione massiccia di fertlizzanti chimici, l'agricoltura è passata in poche decine d'anni da attività di sussistenza o al più di scambio su piccola o media scala ad attività industriale. I sostenitori di questa modernizzazione, mentendo spudoratamente, sostengono che tutto questo abbia migliorato e aumentato le speranze di vita dell'umanità: certamente, di quella parte che quegli strumenti produceva e rivendeva. Consiglio un libro molto interessante, almeno uno “Olocausti tardo vittoriani” di Mike Davis e si leggerà, tra le altre cose, che il PIL di Calcutta, agli inizi del Settecento era superiore a quello di Londra.

Ovvero, l'imposizione della tecnologia occidentale, della agronomia europea in tutto il mondo ha provocato la distruzione, l'erosione dei suoli, l'impoverimento in consistenti parti del mondo. E questo è avvenuto, prima che vi ponessero rimedio, negli stessi paesi che questo sconvolgimento avevano causato ed esportato. Negli anni ‘20, nelle pianure sconfinate dell'ovest americano, già terreno di pascolo per milioni di bisonti, sterminati al pari dei nativi americani, grazie all'adozione della coltura in linea di cereali a pedita d'occhio, le rese celebri dai romanzi di John Steinbeck, “dust bowls” le tempeste di sabbia che erosero milioni di ettari rendendoli aridi e desertificando aree di stati interi, i contadini americani, specie i piccoli conobbero fame e disperazione. Gli Americani cambiarono sistema di coltura, capirono che se la prateria era un habitat equilibrato, le graminacee, nutrimento per i bisonti, sradicate per far posto alla monocultura cerealicola, dovevano quantomeno praticare un sistema di rotazione per non impoverire il terreno e ripetere, alla prima tempesta, i disastri suddetti.

Renè Dumont, agronomo francese ha parlato nelle sue opere di questi ed altri sconvolgimenti soprattutto egli si è dedicato ai paesi francofoni, dall'Indocina all'Africa equatoriale: ovunque la “rivoluzione verde” ha prodotto sconquassi similari.

Il resto del mondo, politicamente soggetto, a quale dei due blocchi, capitalista o comunista non ha fatto nessuna differenza, è stato, ed è in parte ancora, solamente luogo di produzione massiccia di fibre, legname, cereali destinati all'alimntazione, all'industria del primo mondo.

È conosciuta abbastanza la distruzione totale delle foreste equatoriali per far posto alla monocultura della palma da olio in diverse aree del mondo, Indonesia, in primis.

E già qui saremmo ad un passo dal baratro: paesi che non hanno avuto autonomia politica hanno subito grazie a classi dirigenti comprate e corrotte un tanto al chilo, il depauperamento totale di pari passo con la perdita di ogni libertà anche della propria biodiversità originaria.

Non è finita qui, con la nascita delle biotecnologie, con la scoperta degli OGM, il quadro diventa fosco, il futuro alimentare dell'umanità, già precario, minaccia di saltare completamente. Multinazionali come Syngenta, Novartis, Monsanto hanno cominciato a brevettare ed esportare in ogni parte del mondo, trovando resistenze di qualche peso in Europa, sementi che di quel processo di selezione naturale di cui parlavamo all'inizio, non hanno più nulla a che vedere: laddove per passare dall'uva del Caucaso ci abbiamo impiegato millenni, questi, in camice bianco, in pochi giorni, agendo sul Dna, combinando segmenti di organismi viventi anche diversi tra loro, per esempio, DNA del merluzzo nelle fragole e così bioingegnerizzando, manipolano tutto il manipolabile e sono arrivati a determinare in un campo pericoloso come il vivente quello che si fa con le automobili, per poterne vendere di più, hanno ideato l'obsolescenza programmata, ovvero, dopo un certo numero di anni queste, tac! si scassano e tocca comprarne un'altra.

Pazienza, uno può pure andare a piedi, questa tecnica applicata grazie alle possibiltà della bioingegneria alle semnti ha portato per dirne una, all'invenzione di cotone, di riso contenenti un gene, il famigerato “Terminator” che sterilizza il seme rendendolo irriproducibile.

Ecco, come si può leggere in Monoculture della mente, Vandana Shiva, che decine di migliaia di contadini indiani, stato del Karnataka, arrivano a suicidarsi in massa: la carestia, il mncato arrivo del monsone non avevano permesso a questi contadini in possesso di questi semi OGM il riacquisto della semente per l'annata successiva, per evitare che i debiti ricadano sui figli, il capofamiglia si toglie la vita... o passa alla guerriglia naxalita assaltando e distruggendo depositi Monsanto.

Il quadro, ancorchè parziale ma credo possa dare le dimensione planetarie della facenda, è questo.

Consideriamo che si è agito sul seme, fonte primaria di vita, culla stessa di ogni essere vivente senza nessuna cautela, prevedendo solamente il guadagno immediato, studiando a tavolino, seguendo le leggi della domanda e dell'offerta come per qualsiasi altro bene strategico, il petrolio o il carbone: meno ce n'è più costa, maggiore sarà il valore aggiunto.

Ora, piccoli Davide contro Golia, ma il paragone non regge, Davide aveva molte più possibilità e Golia non controllava, come queste multinazionali, governi interi, catene editoriali al completo, come i “seedsavers” salvatori di semi, sono in lotta per preservare, ricercare, riprodurre quanto più possibile ed in ogni parte del mondo la biodiversità agricola originaria.

Impresa improba, nonostante i seedsavers negli Usa, pur divisi in due distinte associazioni, siano circa 50.000, in Europa molto meno, ciò che è stato salvato è nulla rispetto a quanto si è estinto per sempre, eppure... Eppure, è faccenda di questi ultimi tempi, una sentenza della Corte costituzionale europea, organismo UE, ha dato torto ad una associazione francese Kokopelli in causa da molti anni con una ditta sementiera, la Baumax Sas,

L'associazione Kokopelli attiva nella salvaguardia della biodiversità in vari paesi del mondo organizzando corsi di autoriproduzione delle sementi, di pratiche agricole sostenibili, che destina molta parte della vendita di queste sementi rare a queste attività non profit ed alla fornitura gratuita di semi a contadini in varie parti del pianeta, si è vista condannata per frode commerciale sarà costretta a pagare e non è la prima volta che accade migliaia e migliaia di euro di ammenda, sempre che la reiterazione del reato non porti il suo presidente, Dominic Guillet direttamente nelle patrie galere per qualche annetto.

Davide contro Golia era, in confronto, uno scontro alla pari. L'implicazione di questa sentenza che sanziona la non commerciabilità di sementi non inscritte nel catalogo nazionale prevede che solamente le grosse ditte sementiere, e, dietro di loro, le multinazionali, potranno vendere sementi, tutto il lavoro di recupero della memoria storica, gli studi di etnobotanica, le infinite sfumature di colori, profumi e sapori della biodiversità originaria sono destinati alla sparizione.

I seedsavers saranno condannati al piccolo scambio, tutt'ora legale tra di loro: completamente ininfluente rispetto al mercato nelle mani dei manipolatori. In pratica si potrà ancora scambiare la semenza del grano Carusieddu del Cilento ma se un contadino me ne chiede qualche quintale io non posso venderglielo, è semplicemente pazzesco, cedere ad un amico una bustina di semi di pomodoro gigante di Lecco è ben altra cosa dal procurare mais “scaiola” per seminarne ettari, nessuno è così ricco da poterlo fare.

Questa sentenza mette fine alla biodiversità, certificando che solamente chi è in grado, pagando, di registrare le proprie sementi nel catalogo ufficiaile, potrà commercializzarle. Inoltre una varietà per essere inscritta in questo catalogo abbisogna di tante di quelle scartoffie e pratiche che, ad oggi, nessuna associazione di seedsavers è in grado di fare. gli enti pubblici, con poche eccezioni, latitano.

L'istituto Vavilov di San Pietroburgo è alla sfascio e da tanto. Restano, baluardi della bioversità, le banche del seme costruite alle isole Svalbard dalle stesse multinazionali che hanno rapinato e dilapidato germoplasma in tutto il mondo.

Come per l'acqua, bene primario insostituibile per l'umanità, così il seme deve restare bene comune, libero e riproducibile, esso deve essere libero da brevetti, occorre lottare e sancire l'intangibilità del vivente.

Diversamente saremo ancora più schiavi di quanto già non lo siamo: se è possibile vivere senza un Cd o senza un film, sui quali pesano i diritti degli autori, non è pensabile che sui semi s'impongano diritti e copyright della stessa natura, ciò equivale a condannare alla fame miliardi di persone.

Questo mio intervento, non oggettivo, io sono un seedsaver, un custode dei semi antichi, socio di Civiltà Contadina da oltre 10 anni e amico personale di Dominic Guillet, presidente di Kokopelli, intende continuare il dibattito, ho cercato di chiarire, di spiegare cose che semplici non sono, mi scuserete eventuali imprecisioni.

Teodoro Margarita
www.civiltacontadina.it
Asso (Co)



Il razzismo al tempo della crisi

Yassine ha rubato e la deve pagare. Yassine è un ladro perché non ha voglia di lavorare, è strafottente e la legge non lo punisce. Tutti noi siamo minacciati, le nostre case, le nostre famiglie; ci sentiamo sotto pressione, frustrati, arrabbiati. Yassine non è italiano e non è di qui, di questo territorio che è solo nostro. È venuto per rubare, per ubriacarsi, per recar danno. E noi gente per bene, padri di famiglia, onesti lavoratori ci difendiamo e lo ammazziamo (almeno tentiamo di farlo) e lo trattiamo peggio di un animale, di un oggetto.
Yassine non è solo un ladro: è straniero, è africano, un mezzo negro perché non è del tutto bianco ma nemmeno nero come i centroafricani. E noi quella gente lì la mal sopportiamo perché ci hanno invaso il territorio nostro per tradizione. Diciamo che non siamo razzisti e xenofobi perché gli immigrati li tolleriamo se lavorano e se stanno per i fatti loro, senza far troppo rumore perché sono loro che si devono adattare alle nostre leggi e ai nostri costumi. Noi li rispettiamo nel senso che li ignoriamo: loro credono in Allah, noi in Cristo. Ma questa civile convivenza può essere interrotta in alcuni casi: quando qualcuno di quelli esce fuori dalle righe e si permette di rubare e di violare la nostra proprietà, la nostra casa immacolata e di mettere in pericolo con la propria presenza le nostre famiglie così a modo e per bene.
Noi non siamo solo razzisti e xenofobi ma pure vigliacchi, e della peggior specie. Non siamo disposti neanche a difendere le nostre idee (ma direi meglio pregiudizi) in pubblico o in tribunale; aggrediamo vilmente nella notte tre contro uno e pure armati e poi sosteniamo di esserci difesi. Già perché l'aggressore è diventato lo straniero: prima socialmente (ruba in casa nostra, invade il territorio dove viviamo, occupa posti di lavoro, spaccia ecc.) e adesso anche fisicamente. Versione credibilissima fatta da gente per bene. La stessa gente, nello stesso territorio, che organizza ronde armate di bastoni e quant'altro, che segue i rom con le auto piene di mazze quando vanno in cerca di ferro, per controllare che non vadano invece a rubare.
Questa è la nostra vallata - spaccato di una parte d'Italia ma non rappresentativa di tutti - ai tempi della crisi economica. In questa vallata soffia forte il vento dell'odio e del razzismo con cui una parte delle forze politiche di questa splendida democrazia per anni ha intriso le proprie campagne elettorali e la propria propaganda in cerca di paura e di voti.
Ed è lo stesso Stato in cui siamo costretti a vivere che non lascia molte alternative: basti pensare ai respingimenti in mare al largo di Lampedusa e non solo o ai lager chiamati CPT o CIE o chissà come altro ancora. E la tolleranza che si pavoneggia di applicare verso gli immigrati è solo un falso principio di esclusione e separazione. Perché al potere dello Stato e del mercato è funzionale questa separazione, questa guerra tra poveri e tra derubati dove il nemico è quello che viene da lontano, quello che ha meno di te, che minaccia la tua proprietà e la tua vita. E tutto questo ti tiene occupato e non ti fa vedere il macro: la tua vita confinata ed emarginata in una ristretta cerchia di persone, luoghi e lavori, incapaci di guardare oltre il proprio recinto di cogliere le trasformazioni in atto e soprattutto di non sentire la mano pesante (istituzionale, economica, bancaria) di chi realmente ti schiaccia e ti deruba.

Matteo Cariaggi
Lavagna (GE)



Botta.../Il governo libertario non è un ossimoro

“Il dispotismo governativo non è mai così terribile e così forte come quando si sostiene sulla cosiddetta volontà del popolo”.
(M. Bakunin)

Forse non tutti ricordano un certo Pardaillan, che spinse Malatesta a replicare, nel 1932, a una sua proposta di “governo libertario”.
Malatesta, come è ovvio, respinse la proposta come una contraddizione in termini, e tuttavia, a distanza di ottant'anni, la stessa merita di essere riconsiderata. Come si vede, si tratta di un triplo salto mortale per la tradizione anarchica, perché qui non si propone solo di votare o di presentarsi alle elezioni, ma addirittura di proporsi direttamente come forza di governo.
Qualcuno dirà che, in tal modo, il movimento libertario, da soluzione del problema diviene parte del problema. E tuttavia, la vicenda storica, da quando esiste un movimento anarchico, ci ha insegnato alcune cose. Ad esempio che lasciare la politica agli altri non è un buon investimento. Ma chi sono questi “altri”?
Io, nel mio ultimo libro (“Il dittatore libertario”), individuo due categorie psicologiche, che chiamo inclinazioni: l'inclinazione libertaria, che è di chi non vuole né comandare né essere comandato, e l'inclinazione autoritaria, che è di chi vuol comandare, e che se non ci riesce accetta di essere comandato a sua volta: la morale dello schiavo, direbbe Nietzsche.
Gli uomini quindi non sono tutti uguali, come sostiene una certa vulgata democratica o anche anarchica, sia pure con importanti eccezioni, come Kropotkin, che riconosceva che esistono uomini con bisogni più elevati di altri. Il problema è che gli uomini dotati di inclinazione libertaria sono una minoranza, o almeno così pare, e le leve della società sono, agli alti livelli come ai bassi, nelle mani degli individui dotati di inclinazione autoritaria.
In effetti, siamo abbastanza grandi per fare un'analisi non consolatoria dei meccanismi sociali: guardiamoci in giro. Forse troviamo a ogni angolo di questa società libertari che non chiedono altro che di essere liberati, o piuttosto tanti Fantozzi, che “rispettano le regole” in attesa di andare in pensione (sempre che la situazione economica sarà tale da poter concedere una pensione)?
Scusate il riferimento personale, ma io sto scontando anni di internamento, prima in OPG e poi in comunità, proprio per non avere rispettato le regole, sia pure da malato, e oggi mi tocca sentire settimanalmente dalla mia psicologa che le regole sono necessarie perché danno sicurezza e consentono a ciascuno di mettersi nei panni degli altri, trovando il paziente, cioè io, piuttosto recalcitrante, perché io intanto sto maturando in me, così circondato, sentimenti immoralisti, dato che, sempre come diceva Nietzsche, non esistono fenomeni morali, ma solo interpretazioni morali dei fenomeni. E non è neanche delle peggiori!
Cosa c'entra allora tutto ciò con il governo libertario? Come si giustifica il paradosso, la contraddizione in termini? La risposta è semplice: si tratta di una legittima difesa rispetto all'ipotesi che il comando resti nelle mani degli autoritari.
Si pensi alla battaglia antiproibizionista: sono quasi cinquant'anni che va avanti, se pensiamo ai primi capelloni degli anni '60, mentre in un governo libertario sarebbe stata una priorità decisa dalla sera alla mattina.
Si tratta quindi di raccogliere tutti gli antiproibizionisti (cartina di tornasole dell'inclinazione libertaria, l'antiproibizionismo come metodo su tutto, non solo sulle droghe) sotto comuni bandiere e andare all'assalto. Se c'è accordo su questo, poi si potrà discutere di quale sia il sistema elettorale più adeguato al progetto (io penso sia quello proporzionale) e degli altri dettagli. L'importante è che si sia gettato un sasso nello stagno per iniziare la discussione.

Fabio Massimo Nicosia
Milano

 


...e risposta/Smettiamola di illuderci sui “poteri buoni”

Pare strano che a centoquarant'anni dal congresso di Saint-Imier, considerato l'atto di fondazione del movimento anarchico, si debba ancora ribadire l'ABC dell'anarchismo, e per di più su una rivista anarchica e in risposta a chi parrebbe definirsi anarchico.
Tuttavia la lettera del Nicosia è interessante, perché, nel candore con cui trae le conseguenze delle proprie premesse, illustra esemplarmente la bancarotta del revisionismo anarchico. Il Nicosia è chiaramente una persona di buoni sentimenti, che ha particolarmente subito la repressione degli apparati autoritari. In questo ha tutta la mia fraterna simpatia umana e il mio rispetto. Ma il suo argomento ricorda il proverbiale ubriaco che ha perso le chiavi di casa in un angolo buio della strada e va a cercarle sotto il lampione. O il tifoso di una squadra di provincia sempre sconfitta, il quale, per amore della sua squadra e per vederla finalmente vincere, diventasse juventino.
Per sua stessa ammissione, l'argomento di Nicosia è una minestra riscaldata: siccome al mondo sono sempre stati gli autoritari ad avere la meglio, facciamoci autoritari e imponiamo “il bene per forza.” Accettiamo per un momento la premessa, per amore di discussione. Per imporre il bene bisogna arrivare al potere, cioè convincere la maggioranza di quella folla di Fantozzi che Nicosia suppone. Con che programma ci arriveremo? Con un programma schiettamente libertario? Ma se avremo la maggioranza con noi su quel programma, la rivoluzione facciamola nelle strade. Oppure, per conquistare la maggioranza, annacqueremo adeguatamente il nostro programma? E così, se tutto va bene, potremo alla fine trionfalmente imporre un programma che non ha più niente di libertario.
Ma lasciamo perdere le fantasticherie. È il concetto stesso di “bene per forza” che è la negazione stessa dell'anarchismo. Come Malatesta scriveva già nel 1894, “quali saranno precisamente le idee che bisognerà imporre? Le mie, per esempio, o quelle dell'anarchico A o B? (...) Perché voi converrete che non vi sono quattro anarchici completamente d'accordo tra di loro, ciò che, insomma, è ben naturale ed è un segno della vitalità del partito.”
Nicosia vuole andare al potere come “legittima difesa” contro gli autoritari. Purtroppo però - c'è bisogno di dirlo? - non si può andare al potere e rimanere non-autoritari. Potremmo solo diventare noi i nuovi autoritari, che toccherà poi a qualcun altro rovesciare per legittima difesa. Nicosia vuole l'antiproibizionismo come metodo, ma vuole praticarlo con l'aiuto della polizia, perché altrimenti non avrebbe motivo di voler andare al potere. Gli anarchici invece praticano la libertà come metodo.
Il principio anarchico fondamentale è la coerenza tra fini e mezzi: non si può raggiungere una società anti-autoritaria con mezzi autoritari. Questo principio non è un lusso che gli anarchici si concedono, per non sporcarsi le mani, ma è una necessità. I vari revisionismi sono sempre giustificati da un preteso “pragmatismo,” messo in contrasto all'utopismo anarchico. Invece il pragmatismo è proprio dalla parte degli anarchici. Machiavelli sosteneva che “è necessario ad un Principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono.” Sono gli anarchici, i quali non credono che possa essere fatto il bene mantenendosi al potere, ad avere imparato la lezione realista di Machiavelli, non i vari revisionisti che continuano a illudersi sulla possibilità dei “poteri buoni.”
Chi si è stancato o ha cambiato idea dica chiaramente di non essere più anarchico. Non ci sarebbe niente di strano e costui sarebbe in (più o meno) buona compagnia. Ma, per favore, smettiamo di voler convincere gli anarchici a diventare autoritari per amore dell'anarchismo.

Davide Turcato
(Vancouver, Canada)



Ricordando Carlo Oliva

Pubblichiamo alcuni dei messaggi che ci stanno giungendo in redazione.

Sono una maniaca seguace di Radiopop e ritenevo Carlo Oliva la voce più seria, colta e interessante della radio. Purtroppo non lo conoscevo personalmente.
La sua morte mi ha molto addolorato e stupito, anche perché nei giorni scorsi lui ha fatto normalmente le sue trasmissioni. Leggevo anche i suoi pezzi su “A”, sempre con ammirazione e condivisione.
Spero che la rivista si ricordi di lui, ampiamente.
Un abbraccio antifa e A

Marcella Denegri
(Milano)



Volevo anche dirvi che mi sono molto dispiaciuta per la morte di Carlo Oliva. Non me lo aspettavo e lui sarà un'altra persona che mi mancherà molto. Lo seguivo da sempre su Radio Popolare e nei suoi molti interventi, nella sua trasmissione della domenica La Caccia, nelle recensioni dei gialli e in molte altre occasioni, e anche su A-Rivista anarchica, o ancora dai tempi del vecchio Linus. Che peccato, proprio mi dispiace molto. Immagino che tu lo conoscessi. Io non l'ho mai frequentato, però ricordo di aver scambiato con lui qualche parola nella libreria Utopia, dove spesso lo vedevo.

Viviana De Luca
(Granada, Spagna)



Non ho conosciuto Carlo di persona e l'ho apprezzato su “A” e a Radio popolare. Sono davvero dispiaciuto. Ciao.

Orazio Gobbi
(Piacenza)



Non l'ho conosciuto personalmente, ma l'ho apprezzato nel leggerlo. Ciao.

Giacomo Ajmone
(Milano)



È un vero grande dolore per noi e per la cultura italiana.

Alessio Lega
(Milano)



Caro Paolo e cara redazione tutta, vi esprimiamo la nostra partecipazione al dolore per la perdita di Carlo Oliva, che per tanti anni ha lavorato con voi condividendo il lavoro e spero le soddisfazioni che la rivista vi dà. Un abbraccio forte.

Gruppo Anarchico Germinal
(Trieste)





I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. A/m Danilo, Jack Grencharoff (Quama – Australia) 150,00; Peter Sheldon (Sydney – Australia) 300,00; Marcello Vescovo (San Michele – Al) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Roberto Nanetti (Settimo Torinese – To) 20,00; Roberto Chiacchiaro (Milano) 20,00; Maria Rosa Orru (Nuoro) 20,00; Giuseppe Anello (Roma) 20,00; Monica Giorgi (Bellinzona - Svizzera) 80,00; Umberto Lenzi (Roma) 50,00. Totale € 1.180,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Danilo Sidari (Sydney – Australia); Battista Saiu (Biella); Roberto Di Giovannantonio (Roseto degli Abruzzi – Te); Alessandro Cantini (Andora – Sv); Alfredo Gagliardi (Ferrara) 300,00; Lucia Sacco (Milano); Marco Galliari (Milano); Luca Denti (Oslo – Norvegia); Paolo Vedovato (Roma); Verena De Monte (Bressanone - Bz). Totale € 1.200,00