rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


dibattito violenza 1

Critica della ragion violenta

di Francesca Palazzi Arduini


Ma è proprio vero che “se la giustizia è borghese, la violenza è proletaria”?
Riflettendo sulle recenti conquiste (e sconfitte) dei movimenti, la proposta di un'etica popolare non-violenta.

A volte la gente protesta / e scende per strada a cantare / è come vedere una festa / il popolo intero che va / la rabbia non ha alternativa / laddove l'amore non c'è / ma attenti che la rotativa / si porta la rabbia con sé.

Chico Buarque



Le recenti vittorie dei movimenti autorganizzati, il referendum sull'acqua pubblica, la tenuta del movimento No-Tav, le manifestazioni operaie in tante città, la protesta animalista contro Green Hill; di contro, la disfatta della manifestazione del 15 ottobre a Roma, i referendum traditi, i postumi della reazione fascista alla contestazione del G8 di Genova: tutto ciò impone una riflessione drastica sulla violenza e sul suo uso da parte dei movimenti.
Abbiamo di fronte le prove che i piccoli cambiamenti portati da tutte le persone di buona volontà per le lotte di classe, i diritti umani, la giustizia sociale, l'ecologia, l'animalismo, non sono sufficienti a fermare i grandi disastri progressivi di un sistema politico ed economico che muove masse così grandi da risultare uno schiacciasassi. Mentre i movimenti a base assembleare, come il recente 'Occupy', promuovono su larga scala le regole libertarie del consenso e dell'ascolto, mentre il web dà ancora prova di poter essere un contenitore di azioni informative autogestite e liberate dal profitto... il “sistema” si mangia quattro dei tre passi avanti che ogni giorno, faticosamente, facciamo.
Gli spazi sociali liberi diminuiscono, mentre il controllo sociale aumenta in maniera vertiginosa e le persone sono indirizzate verso il godimento passivo di spazi e modalità di espressione artificiali, privi di contenuti pensati originali. L'imitazionismo è ai più alti livelli, così la tecnica pubblicitaria e mercantile nelle relazioni umane, nella politica, nell'arte. L'individuo è un vuoto aperto.
È vero che i sistemi statali di reazione violenta alle proteste e la schedatura totale sono sempre più organizzati a livello globale, ma la paranoia ci spinge a vedere questo sistema molto più organizzato di quello che è, sino a diventare complottisti: è un segnale del nostro sentirci deboli di fronte a sistemi politici, finanziari, commerciali, che fanno danni su grande scala e che invece di incepparsi si rigenerano a nostre spese.
Al di là della riduzione dell'incidenza della protesta al solo livello culturale, al restringimento delle capacità e possibilità di intervento sulle grandi scelte economiche e sociali più urgenti da fare, il grave problema, non solo italiano, è l'incapacità di saper dire “no” all'uso della violenza nell'azione politica, alla devastazione nostra (per l'acquisizione dei modi militari della violenza) e altrui; violenza con la quale c'è chi crede di poter sopperire alla nostra “non-potenza” e di poter avere una moneta di scambio mediatica, non avendo null'altro.
Non si sa distinguere tra forza e violenza e non è raro assistere all'omertà e al silenzio acritico quando si tratta di esprimere un'opinione sulla frequente presenza alle manifestazioni di gruppi organizzati per azioni di guerriglia e teppismo, la cui attività politica produce eventi funzionali solo alla comunicazione mediatica che denigra i movimenti popolari tramite i mass media più forti, che restano sempre e comunque quelli televisivi.
Le azioni di distruzione sono il compito auto-assegnatosi da chi vuole “interpretare” la rabbia popolare. Le battaglie in realtà, se sono vive e vengono vinte, lo sono con i mezzi pazientemente e faticosamente adoperati del confronto politico, delle azioni legali, della resistenza pacifica, del boicottaggio popolare pacifico nelle città, nei quartieri, nei tribunali, nei luoghi di lavoro, con una forza quindi che potremmo definire civile, e non nelle strade o nelle piazze trasformate in campi di battaglia.
Genova è stata un laboratorio in questo senso: un movimento trasversale, capace di riunire le differenze e di far sentire la propria presenza organizzandosi e scambiando, nel tempo, contatti ed esperienze, è stato fatto macello della reazione fascista con l'alibi della reazione alla violenza. Lo stop dato alla protesta popolare è stato chiaro, tant'è vero che ancora se ne pagano i costi sociali. Solo la voce femminista si è levata a contestare la scelta organizzativa di giungere a patti con l'ala dei ‘Black block' e con l'intenzione, tutta maschile, di puntare alla conquista territoriale della “Zona rossa”.
Ciò non significa che sia giusto censurare la propria radicalità, e omogeneizzare, come alcuni vorrebbero, anche la protesta. Anzi, il pensiero libertario dovrebbe essere presente nei contesti di lotta per impedire la trasformazione dei movimenti in pedine della “forma partito”, che trasforma le idee in macchine per promuovere nuovi burocrati e nuovi portavoce di mestiere, i quali finiscono per parlare sempre per se stessi.



La non-violenza può essere azione diretta

In definitiva, il vecchio slogan “Se la giustizia è borghese, la violenza è proletaria” può considerarsi un sostegno retorico all'incapacità di cambiare. La violenza del sistema, della polizia, dell'esattore, del giornalista, andrebbe affrontata tamponando con la forza della massa autocosciente. Per questo occorre trovare rimedio alla schizofrenia di movimenti, divisi tra espressioni di protesta “giocose”, allegre e satiriche, e i metodi teppistici o di guerriglia col mito della “avanguardia”, divisione che è risaltata in tutta la sua tragicità ed inefficacia il 15 ottobre a Roma.
Per fare questo con efficacia occorre rinunciare alla rabbia incontrollata e alla violenza come strumento politico ma non solo, occorre promuovere nuovi sistemi di lotta non-violenta e portare in evidenza nel pensiero politico la non-violenza e il non-leaderismo, la capacità di decidere tramite le assemblee e il sistema della delega solo temporanea. Se le cose vanno altrimenti il segnale è che l'affermazione “siamo il 99%” è vera solo in termini economici.
Lavorare sulla nostra rabbia è possibile: possiamo provare nella quotidianità la nostra forza numerica sull'avversario, scriveva Aldo Capitini, “La non violenza non può accettare la realtà come si realizza ora, attraverso potenza e violenza e distruzione dei singoli, e perciò non è per la conservazione, ma per la trasformazione; ed è attivissima, interviene in mille modi, facendo come le bestie piccole che si moltiplicano in tanti e tanti figli”. 
 Possiamo mettere in pratica azioni di disobbedienza minime e diffuse, come quelle dei Disobbedienti di Desobeir.net, o col metodo della presenza delle Donne in nero, così come possiamo impegnarci nella organizzazione di vasti movimenti di disobbedienza civile nei posti di lavoro, nelle città, ad esempio con l'attività sindacale, ma anche con l'autorganizzazione civile in gruppi di “transizione”, che ricreano un tessuto sociale attivo in quartieri e paesi, coi piccoli spazi libertari e anarchici di auto-aiuto, o partecipando alle reti, cercando modi per sfuggire alla morsa fiscale e penale che è stata stretta attorno ai movimenti di autoriduzione di tasse e gabelle ingiuste, come di recente ha fatto la rete No-inc contro la tariffa Enel.
Ma possiamo fare anche azione diretta non violenta. In questo momento uno dei sistemi di chi domina per sfuggire alle contestazioni è quello di rendersi anonimi e/o riunirsi in posti blindati e irraggiungibili. Possiamo lavorare per raggiungere nella quotidianità queste persone-simbolo rendendo evidente la nostra protesta con metodi non-violenti, manifestare e praticare la disobbedienza civile e il boicottaggio in tutte le necessarie sedi periferiche delle istituzioni di potere che dobbiamo contestare. Questo tipo di pratica ha già dato ottimi risultati nelle battaglie politiche locali, quando di fronte a scelte ingiuste l'amministratore crede di potersi trincerare nell'anonimato e nella sua agenda di impegni ma viene comunque raggiunto, con sit-in e contestazioni, nei luoghi ove vive e lavora.
La non-violenza è soprattutto un valore, un valore che richiama all'importanza dell'individualità e “indistruttibilità”, come scrive Capitini, della persona umana. Dobbiamo ricordare che chi contestiamo è in realtà solo un temporaneo sfruttatore e portavoce di forze che ci sono estranee ma non aliene, che sono il risultato della storia della nostra in-civiltà. Che sia un politico colluso, un burocrate portavoce di gruppi finanziari, uno sfruttatore o un fascista. Non siamo lì per sfogare la rabbia su lui o lei in quanto persona-bersaglio, ma per ottenere giustizia, contestare un metodo o una scelta, e soprattutto togliergli potere, autorità e credibilità. Per far questo occorre che chi contesta possieda autorevolezza, sappia opporsi fermamente, senza indulgere nelle cadute di tono che caratterizzano la violenza, con la riduzione della persona, degli oggetti e dei luoghi a bersaglio, la trasformazione della parola a slogan, la mutazione della dignità in anonimato.
Dobbiamo anche ricordare che se è una trappola l'invito al dialogo e alla “trattativa” sui nostri sacrosanti diritti - e così non ci recheremo a discutere con un cattolico integralista il nostro diritto di donne ad autodeterminare il nostro corpo, e non sdoganeremo un'iniziativa fascista accettando l'invito a dissertare sulle nostre politiche - ancora più trappola è cadere nella convinzione che sia giusto negare il diritto alla parola, perché è tramite la parola, oltre che tramite l'esempio e il contatto, che le persone si esprimono e imparano a uscire dal pregiudizio, e tramite la propaganda che invece vengono asservite.



Per resistereun minuto in più”

“Anarchia vuol dire non-violenza”, scriveva Errico Malatesta. Proprio la responsabilità di rifondare una civiltà nuova deve darci l'imperativo morale di non assecondare alcun leaderismo e gesto violento e di ricercare forme nuove per affrontare chi domina su terreni e con modalità che non gli consentano di neutralizzarci.
Nella società vi saranno, per dirla come Capitini “... due gruppi di persone: quelle che useranno eventualmente la violenza, e quelle che non la useranno, ma esplicheranno un'intensa attività”. Questa “intensa attività” è propria da sempre delle persone che sostengono i movimenti di ri-voluzione sociale. Per queste persone e in questi movimenti è fondamentale il riconoscimento della persona, non come “numero” o “militante”, ma come individuo. Ed è fondamentale che gli individui sappiano riconoscere e muovere le dinamiche dei gruppi, per mantenerli liberi da manipolazioni. Bookchin già ricordava l'importanza di queste dinamiche in L'ecologia della libertà.
In questo momento politico, prossimo a tragici mutamenti globali, è fondamentale ribadire e rinnovare questo valore, opposto alla proposizione della violenza come strumento di lotta.
La struttura sociale ci toglie tempo ma chi ci governa non ha calcolato quanto tempo abbiamo di nuovo, a causa della crisi, per tornare ad essere presenza viva nel tessuto sociale della protesta, nelle città e nei territori in genere: sit-in, boicottaggi, scioperi, serrate, marce, sottrarsi, rifiutare, propagandare, discutere, denunciare, disobbedire, contestare i mass media, portare il discorso sulla rappresentanza e sul voto ad una attenzione più marcata e dirompente nella politica locale e nazionale.
Ricordando che la parola “rivoluzione” significa cambiamento di prospettiva e di orizzonti, se ora ha qualche possibilità d'applicazione concreta, richiede l'abbandono dei pesi morti ideologici e la dedizione a pochi chiari concetti e a un obiettivo: vincere ogni giusta vertenza con il peso di una massa dotata di ragione non violenta, che “resista un minuto in più del padrone”.
L'azione non violenta è quindi una scelta strategica di base, che sottende anche un patrimonio culturale tutto da costruire rispetto all'organizzazione. Fatti come la morte di Mariarca Terracciano, o la caduta di Luca Abbà, possono sottolineare che senza una rete forte a sostegno delle proteste, ed anche un comune sentire culturale, la buona volontà individuale può purtroppo diventare martirio.
Dobbiamo dar forza alle lotte, quindi, cercando un equilibrio che eviti l'esasperazione ma ne tragga il coraggio a buon fine.
Se le cose vanno altrimenti significa che il veleno digitale dell'immobilità che genera rabbia e le tossine dell'emulazione del potere ci hanno reso incapaci. Ma con le parole di Capitini “non violenza è apertura”, manteniamo la speranza che una maggiore fiducia e intensità etica nelle lotte possa aprire al cambiamento.

Francesca Palazzi Arduini

Tre letture che consiglio

Aldo Capitini, Religione aperta (Editori Laterza, Bari, 2011)

Murray Bookchin, L'ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia (Eleuthera, Milano, 2010, pagg. 558)

Manifeste des Desobeissant, http://www.desobeir.net.

F.P.A.