rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


storia
La Repubblica nata dalla Resistenza
(molto fumo, poco arrosto)

di Dino Erba


Dietro alle quinte della retorica patriottarda, alcuni squarci di storia aiutano a comprendere come nacque questo Stato.
E il ruolo del PCI, in particolare di Togliatti.


Nessun sovversivo degno di questo nome ha mai dato credito alla Repubblica nata dalla Resistenza, anche se l'eroismo del parto – la lotta partigiana – potrebbe alimentare illusioni su possibili e differenti sviluppi, rispetto a quelli che oggi ci incombono. Ma le cose andarono assai peggio di quanto molti – seppur disillusi – si immaginano.
La Repubblica nata dalla Resistenza è frutto di un compromesso deteriore tra le due grandi forze politiche della borghesia italiana: i clericovaticani della Democrazia cristiana con Alcide De Gasperi e i nazionalcomunisti del Partito comunista italiano con Palmiro Togliatti.

Un compromesso deleterio, ancor oggi dilagante

Lo sappiamo, il punto d'approdo di tale compromesso fu l'articolo 7 della Costituzione, che regola i rapporti tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano, in base ai Patti Lateranensi, proposti da Mussolini e ben accetti dal papa (11 febbraio 1929). Stabilendo così una sostanziale continuità tra il nuovo e il passato (e deprecato) regime. Ma questo è solo un aspetto, certamente significativo, ma forse secondario.
Dc e Pci avevano in comune una concezione politica nazionalpopolare – e quindi aclassista – che, pur diversamente declinata, dette fondamenta al condiviso percorso politico moderato, che connotò la vita del Bel Paese nei cruciali anni del dopo guerra, ma anche in seguito (e ancor oggi, direi, con la giunta milanese Pisapia-Tabacci, che ha aperto la via al governo «tecnico» Monti-Fornero-Passera). Tale percorso, il Pci lo compendiò nel concetto di «democrazia progressiva», cui la Dc rispose con quello di «progresso senza avventure».
Per poter percorrere senza «avventure» la strada della «democrazia progressiva», Dc, Pci e «compagni di merende» dovettero eliminare o emarginare ogni voce fuori dal coro, a partire dai repubblicani anti-monarchici e anti-clericali, passando per i socialisti di sinistra fautori della democrazia consiliare, sostenuta peraltro da molti anarchici, in cui prevalevano comunque inequivocabili sentimenti anti-statali, finendo con i comunisti internazionalisti, decisamente orientati verso una visione classista e proletaria dei rapporti sociali. Tutti costoro furono coinvolti, spesso loro malgrado, nelle vicende che dettero vita alla Repubblica – ovvero nella guerra di Liberazione –, in cui tentarono di aprire spazi per soluzioni politiche, se non rivoluzionarie, almeno foriere di un progresso meno «frenato», che favorisse i ceti subalterni, sul piano economico come su quello sociale (famiglia, scuola, sanità ...).
La loro attività si svolse fuori o ai margini del Comitato di Liberazione Nazionale, unico organismo preposto – con il beneplacito degli Alleati ... e del Vaticano – a rappresentare politicamente gli italiani. Come è noto, il Cln fu costituito da sei partiti, di cui due, democristiani e nazionalcomunisti, tiravano le fila, due – liberali e demoliberali – gli reggevano la coda, spesso con proprio tornaconto, e altri due infine – socialisti e azionisti – ingoiavan rospi, raccattando però

Una democrazia octroyé ...

Per quanto limitati potessero essere, i dissensi potevano suscitare «malsane passioni» nel «popolo bue», turbando il delicato idillio tra i due loschi partner.
Il compito di braccio armato della ragion di Stato lo assunse il Pci. Troppe, e troppo repentine, erano le giravolte che doveva far digerire a militanti e a proletari con sangue nelle vene. Che allora erano anche troppi. Senza andar per il sottile, alcuni avversari furono passati per le armi; gli assassinî di Fausto Atti e Mario Acquaviva sono noti. Ma quelli erano metodi che se andavano bene nel «Paese del socialismo», erano ancora indigesti nel «Paese della democrazia progressiva». E allora, complice la clerical prudentia, fu stabilita una democrazia octroyé (concessa), in cui il diritto di rappresentanza politica viene concesso in base a quei criteri che George Orwell avrebbe descritto nella Fattoria degli animali, dove alcuni sono più uguali, altri sono meno uguali, o non sono affatto uguali. Non esistono.
Un banco di prova per la nascente democrazia italiana fu la scelta dei membri della Consulta Nazionale, organismo costituito nell'aprile 1945 per dare pareri sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi del governo e che restò in carica fino al 2 giugno 1946, quando fu eletta l'Assemblea Costituente. Della Consulta fecero parte di diritto gli ex parlamentari, che il governo fascista aveva dichiarato decaduti il 9 novembre 1926 (inviandone molti nelle galere). Tra costoro c'era Onorato Damen, deputato comunista ed esponente della dissidenza di sinistra. Espulso dal partito nel 1929, restò sempre coerente al suo orientamento, combattendo il «socialismo in un Paese solo » di Stalin e tutte le deleterie conseguenze che ne derivavano sul piano della pratica politica (nonché carceraria). E tra mille difficoltà (non ultima mettere insieme il pasto con la cena di moglie e figlia), animò la corrente rivoluzionaria che, nel 1942-1943, costituì il Partito comunista internazionalista. Un bel pedigree, il suo, non c'è che dire, che provocò subito il veto di Togliatti, contro la sua partecipazione alla Consulta. In sede di Consiglio dei ministri, il «Migliore» bollò Damen come fascista, collaboratore del fascismo repubblichino, e chi più ne ha più ne metta. Calunnie che ebbero il consenso dell'azionista Emilio Lusso e del socialista Giuseppe Romita. Bontà sua, il liberale Manlio Brosio definì invece Damen un «marxista vecchio stile» [Verbali del consiglio dei ministri, Governo Parri, 21 giugno 1945-10 dicembre 1945, Edizione critica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'informazione e l'editoria, Volume secondo, p. 1105].

... meschina e pavida

Romita e Lussu, oggi nel Pantheon dei padri della Repubblica, si comportarono assai meschinamente. Essi avrebbero dovuto sapere, anzi sapevano, che Damen, arrestato l'11 novembre 1926, era stato condannato a 12 anni di reclusione dal Tribunale speciale fascista; ne scontò sette in vari penitenziari, tra cui Civitavecchia, dove organizzò una rivolta. Liberato alla fine del 1933, fu inviato per cinque anni al confino; giudicato un «comunista irriducibile», subì più volte l'arresto e il fermo di polizia; con la guerra (giugno 1940), fu confinato nuovamente e riacquistò la libertà al crollo del fascismo (25 luglio 1943). Dopo di che, dovette guardarsi le spalle da nazi-fascisti e da stalinisti, e da questi ultimi, anche dopo la «Liberazione» (25 aprile 1945).
Ma se non era fascista, Damen era ben più pericoloso, per la pavida democrazia italiana; in quella delicata congiuntura, egli denunciava il carattere imperialistico e antiproletario di entrambi i fronti belligeranti, quello democratico e quello fascista – entrambi impegnati a succhiar sangue operaio–, e cercava di organizzare i proletari in un partito di classe, indipendente. Con qualche successo.
Se fosse stato fascista, avrebbe dovuto aver solo pazienza; e attendere il 22 giugno 1946, quando il guardasigilli Togliatti varò l'amnistia che liberò uno stuolo di criminali fascisti. Il «Migliore» lo fece in nome della «concordia nazionale», che certamente «concordò» i borghesi, che col fascio avevano conservato i propri privilegi; ma non certo i proletari, che col fascio avevano conosciuto soprattutto il bastone e l'olio di ricino, per digerire le poche carote ricevute.
I meno compromessi col littorio, intanto, già avevano preso la tessera del partitone, ed erano ben accolti e sistemati, visto che uscivano tutti dalla buona borghesia. Uno di costoro ha fatto carriera, e ce lo ritroviamo oggi alla presidenza della repubblica, nata dalla Resistenza, a pontificar di libertà e democrazia. Ma sempre con quella «moderazione e prudentia» che in passato gli fece scegliere le soluzioni, e le compagnie, più «rassicuranti», come i carri armati russi che a Budapest, nell'ottobre 1956, spararono sugli operai. Salvando così il «sistema di Yalta», voluto da Roosevelt e Stalin.

Brevi considerazioni sul «caso Damen»: fu un errore giovanile o un vizio congenito della nascente democrazia repubblicana?

Di primo acchito, si potrebbe pensare che l'esclusione di Onorato Damen dalla Consulta potrebbe essere stato un errore giovanile della nascente democrazia repubblicana, causato da fattori contingenti. Sarebbe stato quindi un incidente di percorso che, debitamente corretto, avrebbe potuto evitare le «scandalose» degenerazioni cui assistiamo oggi.
Ma era possibile correggere il processo in atto? Per rispondere NO, non occorre il senno di poi. L'esclusione di Damen fu un peccato originario della Repubblica nata dalla Resistenza, che pretendeva di combattere il fascismo senza rimuoverne le cause, ovvero il capitalismo, un sistema economico fondato sulla divisione della società in classi. Cadendo così in un vicolo cieco, in cui la lotta al fascismo finisce per essere affidata allo Stato, proprio a quello Stato che il fascismo esaltò e che la democrazia «moderna» ha ereditato con prefetti, questori e questurini, ma soprattutto con il nascente welfare – oggi diventato workfare –, affilandone via via gli artigli che esso affonda nella società, e di cui la Fornero ci offre l'ultima versione (in ordine di tempo)
Allora, un decisivo sostegno alla statolatria lo apportarono i nazional-comunisti del Pci, trovando poca opposizione, nella teoria e ancor meno nella pratica. I sovversivi (degni di questo nome), anarchici e marxisti che dir si voglia, in quei tristi frangenti non ebbero piena percezione dell'incombente deriva statalista. I marxisti, perché non riuscivano a conciliare la teoria «anarchica» del Lenin di Stato e Rivoluzione, con la pratica della dittatura proletaria nella Russia dei Soviet. Mentre gli anarchici – dopo gli esaltanti sviluppi delle collettivizzazioni in Spagna nel luglio-settembre 1936 – non capivano come lo Stato avesse potuto, poi, risorgere, e massacrarli. Non videro, infatti, che il pragmatismo «leninista» dei quattro ministri anarchici nel governo della repubblica spagnola aveva contribuito a rianimare uno Stato, che era sul punto di esalare gli ultimi respiri ... Ma questa è un'altra, triste, storia.

Dino Erba